Il caricabatterie
Ci sono situazioni di apparente comfort, di volubile tranquillità, illusoria serenità che ci fanno schiavi incatenati ad una perversa finzione allucinatoria.
Sono situazioni che a occhio esterno parrebbero ovvie, schematiche, un due più due, una banconota da due euro, uno scherzo di poco gusto, ma quando è il sentimento a essere protagonista diventa difficile vedere nitidamente.
Intrappolati in una oasi nel deserto ci abbeveriamo delle nostre stesse allucinazioni, dissetandoci di acqua che altro non è che sabbia, ci immergiamo le mani, i gomiti, il viso e con la bocca la cerchiamo, convinti di riuscire a vederla, assaporarla, finiamo con il convincerci che c’è, finiamo con il dare forma, peso, altezza alle nostre allucinazioni.
Finiamo per dare un cuore, sentirlo pulsare, quando in realtà è solo il nostro a battere per entrambi, un cuore per due persone.. pensa a quanta fatica dovrebbe fare per pulsare per entrambi, per ossigenare entrambi, per dare la forza, il sostegno la vitalità a due corpi.
Spesso facciamo l’assurdo errore di scambiare il nostro cuore per un caricabatterie universale.
Ci incastriamo in situazioni sfidanti, in una partita di gioco d’azzardo dove il monte premi però è molto più basso del costo della partita. Reiterando le nostre mosse, perdendo e perdendo ancora, nonostante l’ovvietà. Nonostante qualche piccola vincita, la perdita è nettamente superiore.
È un errore questo, che spesso può accadere quando ci si ritrova ad avere a che fare con i sentimenti… ci incaponiamo con situazioni che non fioriscono, con energie che non vibrano, con melodie che stonano, in una modalità schizoide e saturante.
Perché mai un pianista dovrebbe voler suonare un pianoforte non accordato?
Potrebbe certamente provare ad accordarlo una volta, ma se non dovesse funzionare non si esibirebbe ai suoi concerti con quel pianoforte…
Eppure succede che anche quando ci rendiamo conto che un sentimento non funziona, ci incaponiamo, proviamo e riproviamo, ci facciamo male, ma non riusciamo a lasciarlo andare.
Sappiamo che non fa per noi, che ci sta scaricando, privando di energia, di luminosità, perfino quando il dolore ci sovrasta gli restiamo ancorati in una modalità psicotica.
Finiamo con il suonare e risuonare le melodie con note stonate, magari mettendoci anche dei tappi alle orecchie pur di non sentire il rumore assordante.
Ci mettiamo delle bende agli occhi per non vedere il marcio, tappi per non sentire il frastuono, e cerchiamo invano di far funzionare ripetutamente qualcosa che non va.
Quanto sarebbe più facile a questo punto lasciar andare tutto? Lasciar andare il macigno, sentirsi più leggeri, più in sintonia con se stessi, senza più dover cercare di ricaricare incessantemente un qualcosa che è destinato a scaricarsi in eterno?
Quanto sarebbe più facile smettere di sorreggere una costruzione traballante, essendo consapevoli che non appena saremo noi a staccare anche per pochi istanti una mano, questa inevitabilmente crollerà?
Come possiamo sperare di poter mantenere, ricaricare in eterno qualcosa che non ha la possibilità di autoalimentarsi o co-alimentarsi.
Quando si parla di sentimenti, legami, relazioni si parla di condivisione, di unione, di scambio, di vita, passioni, di reciprocità.
Un’unione presuppone equilibrio di forze, sinergia, nutrimento per entrambi, punti di incontro non imposti, un venirsi incontro spontaneo, una comunicazione sincrona.
Un caricarsi a vicenda, un posto in cui le energie ce le si scambia, ce le si dona reciprocamente.
Una relazione è a due, a due corpi, a due anime, a due forze.
Quando è solo uno che alimenta per due è un caricabatterie.
benedetta racanelli
tirocinante di psicologia
presso lo studio burdi
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