CREATURE LIBERE!
Tradire sé stessi, per crescere.
CERCARE LA VERITÀ
Uno dei più grandi paradossi della nostra esistenza è “quello di comportarci in modo da garantirci l’infelicità. Molti di noi trascorrono la vita a camminare consapevolmente verso il rimorso, il rimpianto, il senso di colpa e la delusione. E non c’è situazione in cui le nostre ferite sembrano più casualmente autoinflitte, o le sofferenze che creiamo più sproporzionate rispetto alle necessità del momento”. La considerazione è di Sam Harris, filosofo e neuroscienziato statunitense che, nel 2013 pubblicò un saggio dal titolo: “Bugie” (Roi Edizioni). Qui teorizzava la possibilità di rivedere i legami sociali, alla luce dalla pratica dell’onestà allontanandola, però, da qualsiasi intento moralistico. Con riferimenti pratici, dimostrava quanto l’esser sinceri, con sé stessi e con gli altri, riuscisse sempre a far ottenere risultati vantaggiosi e giusti per ciascuno, semplificando la vita e aprendo l’individuo ad una crescita personale coerente, poiché mentire è “la via maestra che conduce al caos”.
Chi più, chi meno, tutti fingiamo (lat. fingo: plasmo, simulo), seppur in buona fede, ma, questa cattiva abitudine finisce col complicare le situazioni, compromettendo, alla fine, il nostro modo di interagire col prossimo. Rischio che riguarda anche la salute psicofisica, dato che tutte le nevrosi trovano terreno fertile nelle verità riplasmate in base alle nostre esigenze. Una riflessione già percepita da Adler: “una bugia non avrebbe senso se la realtà non fosse percepita come pericolosa”. Harris insiste sul concetto e porta il vezzo all’inganno come vero strumento antisociale: “Mentire è sia non capire che non voler essere capiti; significa sottrarsi alle relazioni”.
Il fenomeno dell’antisocialità e del progressivo indebolirsi delle relazioni umane venne preso in oggetto anche da un sondaggio Ipsos del 2023. Le indagini indicarono come tra le cause percepite dai singoli, sul perché di questa frantumazione solidale ci fossero motivazioni riscontrabili in un netto disagio nell’assumersi le proprie responsabilità e nell’incapacità di adattarsi all’altro. Il quadro generale riportava una dilagante sfiducia sia nelle proprie risorse che nell’umanità in generale. Nulla di nuovo, insomma, se riportato alla teoria di “società liquida” (Bauman) sfuggente e superficiale che ha perfezionato il suo itinerario con la “Fine dell’amore”: «La nostra libertà si esercita nel diritto a non impegnarsi o a disimpegnarsi dalle relazioni, un processo che potremmo chiamare la scelta di annullare la scelta: la possibilità di uscire dalle relazioni in ogni momento» (Illouz 2020).
CERCARE LA VERA LIBERTÀ
La “possibilità di uscita” è, per dirla tutta, una grande menzogna che continuiamo a raccontarci. Ogni distacco è un trauma e come tale andrebbe consapevolmente elaborato. Definirsi liberi non può prescindere dalla lealtà dei sentimenti. Scopo della psicoanalisi, come dice Carotenuto, è quello di smascherare; dare la possibilità, ad ogni paziente di “tradire” le proprie convenzioni e le proprie convinzioni. Riposizionare (lat.: tradere) il Sé può aiutarci a riattribuirci un senso, a guardare con empatia all’altro e, infine, a rimparare ad amare. Tutto sta nella nostra disponibilità ad emanciparci e a voler crescere. Ma cosa ci muove verso la crescita? Per Jung, bisognerebbe: “confessare a sé stessi il proprio vivo desiderio. Molti hanno bisogno di un particolare sforzo d’onestà. Troppi non vogliono sapere a che cosa anelano, perché ciò pare loro impossibile o troppo doloroso. Il desiderio è però la via della vita. Se non ammetti di fronte a te stesso il tuo desiderio, allora non seguirai te stesso ma strade estranee che altri hanno tracciato per te”. (Libro Rosso). Lacan ha fondato la sua ricerca psicoanalitica su questo concetto di Desiderio, “la condizione assoluta” dell’uomo che lo porta a poter ridare senso alla vita, a “guardare in alto” (de-sidera). Desiderare è vivere. Desiderare è ricercare sé stessi, guardando agli altri in modo onesto, libero e svincolato dalle impostazioni mentali, pervenuteci dalla famiglia, dalla società o dalle sovrastrutture che hanno come fine quello di dominarci.
TROVARE SÉ STESSI E IL MONDO
Molto probabilmente, l’ultimo capolavoro di Yorgos Lanthimos, Povere Creature! (Poor Things, 2023/141’) ci porta vicino, alla spiegazione di queste dinamiche. Il soggetto del film si ispira all’omonimo romanzo (1993) dello scrittore scozzese Alasdair Gray. La trama verte sul cammino d’emancipazione della protagonista Bella Baxter, creatura restituita alla vita, grazie ad un inverosimile trapianto di cervello del feto che aveva in grembo. La sua formazione umana consisterà in un continuo tradimento di tutto ciò che la circonda e questo in nome del suo innato Desiderio di sperimentazione e conoscenza.
In sequenza: tradisce le attese del suo padre-creatore Godwin che la vorrebbe rinchiusa in una lugubre e infernale casa-laboratorio; tradisce le pretese dell’avvocato Duncan Wedderburn, dei suoi sentimenti asfissianti, delle sue promesse di libertà (in pratica tende anche lui a rinchiuderla nel suo mondo maschilista); tradisce le attese del giovane studente Max McCandles che la vede scappare lontano dal suo cuore. Tradisce perfino la sua stessa formazione, quando chiede al cinico Jerrod Carmichael, di portarla a conoscere gli abissi del mondo. Tradisce, infine, l’arroganza del suo ex marito (quello che la portò al suicidio), quando gli fa capire che preferirebbe morire daccapo piuttosto che scendere a patti con la sua mente caprina incline all’ uso delle armi, della violenza e dell’arroganza, per assoggettare le volontà di chi lo circonda.
Non possiamo notare che il regista usa con padronanza molti simboli e riferimenti letterari, per far emergere il costante lavoro di emancipazione di Bella. Due, tra i più significativi: il viraggio dal bianco e nero al colore, quando Bella lascia la “casa familiare” spinta dalla voglia di conoscenza e l’uso del fisheye come rimando al pensiero critico. Bella si ribella ad ogni definizione, dichiarandosi come persona imperfetta a cui piace sperimentare: “Io devo partire, vedere il mondo e c’è così tanto da scoprire”. La sua libertà è sincera. Vive il mondo senza alcuna dipendenza, lo usa, se vogliamo, senza cedere alle sue trappole.
Il film, non è solo un manifesto femminista vuole essere un omaggio alla possibilità che abbiamo di cambiare. Difatti, nelle scene finali, troviamo altre figure che hanno abbandonato i loro soliti schemi esistenziali. Basti pensare a Godwin che da malato terminale, concretizza di non poter possedere nulla, né le sue creature e neanche l’imprevedibilità della morte che pur aveva toccato, per tutta la sua vita. Ci resta una frase, che ci offre una chiave di lettura. Il copione la affida a Madame Swiney, la tenutaria del bordello londinese in cui Bella incontra la sua Ombra – junghianamente – la sua parte più scura che la indirizzerà verso la completa emancipazione: “Dobbiamo sperimentare ogni cosa. Non solo il bene, ma anche il degrado, la tristezza…così possiamo conoscere il mondo. E quando conosciamo il mondo, allora il mondo è nostro”.
Luca Anaclerio
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Appunti Per Amarsi
“Abbiate il cuore vicino e i battiti lontani”
(Tonino Bello)
Mio padre ha sempre vantato una sicura discendenza dagli svevi, la dimostrava non solo nei capelli rossi della famiglia, ma, anche da un generico carattere istintivo e inquieto. Così, quando alle medie, incrociai sui libri, Federico II, re fulvo e testardo, iniziai a crederci anch’io e a definirmi in un lignaggio, mai verificato, ma, che alla fine mi tornava utile, visto che giustificava alcuni tuoi battiti affrettati e incerti.
So che mi credi, quando ti dico che avrei voluto una mia storia, forse un po’ più lineare e che mi sento inutile, nei mille tentativi di ritracciamento di rotta. Scrivo a te, per questo; per un’incomprensione lontanissima e inguaribile, e che ci ha visti compagni, nel tentativo di voler dare nome vero, a chi insieme, abbiamo tentato d’amare.
Dovresti conoscere quella strana dinamica che porta volti carissimi e preziosi a divenire, d’un tratto, anonimi e distanti. Sai spiegarmi come succede? Qual è l’attimo preciso in cui ogni attesa scivola in un luogo che non conosciamo e disincanta ogni emozione buona? Lo devi sapere, per forza, perché gli stessi battiti che ci dichiarano amanti agli altri, sono gli stessi che, negli addii, ci smarriscono sui sentieri di chi vorremmo rincorrere e fermare.
Dare e avere, avere e dare. Ritorni che dovrebbero essere semplici e invece, tutto assomiglia, sempre più, ad un bilancio impari, quasi fallimentare, dove quello che si è impegnato o si è dato, è sempre eccedente rispetto all’incassato. Un calcolo, così avvilente, che alla fine, viene ribassata anche la moneta di scambio e l’incontro diventa chiamata, la chiamata, messaggio, il messaggio, un like, un like, per buona pace di tutti, un generico astratto pensiero. Fine delle trasmissioni.
Dare e avere. Ricordi? Al liceo, rincorremmo due autobus, perché l’amata di allora non era scesa alla fermata fissata. Perdemmo la serata a rifarci i percorsi, per scoprire, alla fine, che non era mai salita su nessuno dei tram. Il programma era cambiato, ma non ci aveva avvisato. Eppure il dare e avere si scontorna, incredibilmente, su queste traiettorie: c’è uno che dà e trova nel suo cuore risorse e forze continue e c’è un altro destinato a ricevere. Ammesso che non le scansi…
Lo scarto tra innamoramento e amore si gioca qua: quando l’altro declina sé stesso, verso la reciprocità. Se non ci fosse questa, ogni rapporto potrebbe diventare un’emorragia mortale. Scrivo a te, per un’incomprensione che non siamo riusciti mai a sanare. Semmai, invidiosi di altri che riuscirono nell’impresa e noi già stancati da tentativi e sogni insonni di intere mezze estati: “Perfino quando la scelta è concorde, la guerra, la morte, la malattia assediano l’amore lo rendono momentaneo come un suono, furtivo come un’ombra…” dice Shakespeare.
So che la stanchezza ha una lingua sveglia e ci si convince facilmente di essere stanchi per rincorrere, per spiegare, per scusare, stanchi di trovare voce e giustificazioni ai silenzi degli altri. Stanchi non della loro indifferenza, ma, peggio, della loro superficialità. Non sempre sono amori non ricambiati, anche normali amicizie o rapporti troppo carichi di aspettative. Aspettative…sembra uno sbaglio anche l’uso di questo sostantivo, perché seppur il linguaggio degli amanti, per dirla alla Barthes, risieda nell’attesa, essa non si dischiude a noi, come vorremmo. Forse perché immaginiamo che l’altro ci debba un’ala, per volare.
Qualche volta ti scuoto, quasi fossi un antico orologio a corda e temo che qualcosa si sia rotto; il tanto dato ha allentato i giri delle molle e la lancetta dei minuti è rassegnata a non coprire più, con esattezza, i segni del tempo. Nella stessa misura, i miei pensieri non coincidono, esattamente, con chi inseguo. So che è cosa normale, ma, perché, poi, i giorni dell’avvicinamento e dell’addio hanno lo stesso sapore dolceagro e solo i pianti della notte ne segnano la differenza?
Così, stanco di questi soliloqui e assenze, ho imparato a cercare te.
Lontano da ogni volto, da ogni nome, da ogni desiderio, parlo a te, quasi io fossi un reduce che scopre quanto è importante vivere, nel malandato tragitto verso casa. Ora, vorrei convincerti e dirti che non abbiamo sbagliato nulla; che ogni battito dato non è andato perso, se è servito a capire non tanto la gente, quanto noi stessi. Oltre quei momenti la nostalgia sembrava andare nella direzione opposta alla volontà. Traditi da chiunque. Lasciati a recitare parole che nessuno poi, ha sentito, se non io e te; discorsi lunghissimi che riprendevano fiato in una canzone. In un film. In una foto, a tratti, sempre più sfuocata ed estranea. Seduti a maledire quella mela che resterà a metà! A grattarne via i semi, magari tornasse utile alla fame dei rimorsi. Almeno a quella.
“Tέτλαθι δή, κραδίη” “Sopporta, cuore!”. Ulisse si faceva forza con questo detto, consapevole che, alla fine della sua Odissea solo la propria personale pazienza si sarebbe opposta al destino voluto dagli dei. Diversi ellenisti hanno fatto tradotto il verbo principale non con sopporta, ma, con: compi fino in fondo, realizzati pienamente.
Scrivo a te, mentre tra le mani sembra ci sia poco. Vorrei riportarti a istanti in cui tutto sapeva di una felicità, senza scadenze. La vita si esprime in una lingua che traduciamo piano. Vorrei amare te (amare me), prima di cercare altre mani; prima di abbracciare più forte quelli a cui dimostro poco affetto. Sopporta, o meglio, realizzati! In fondo, siamo sulla strada buona se non siam restati a richiedere, ciò che non c’è stato dato indietro. Se sei diventato grande, mentre ti scartavano, perché giudicato insufficiente. Se davanti alle cattiverie, ti son rimasti propositi di nobiltà.
Se non ti sei arreso. Ed oggi è facile, perché perfino gli sguardi e le intese si son fatte fragilissime. Le risposte a questo le avrà il cervello. Noi possiamo opporre resistenza, cercando ancora Bellezza. Non altrove, ma, prima, dentro di noi.
Poi, semmai, ci avvicinerà un altro cuore e insieme sapremo che potremo chiamarlo amore.
Luca Anaclerio
ContinuaPer Dirsi Vivi
IL DIALOGO INTERIORE CONTRO CATENE E SENSI DI COLPA
Buster Keaton nel 1922, faceva aprire il cortometraggio COPS, da un aforisma di Harry Houdini: “Love laughs at locksmits” (tr.:l’amore si prende gioco dei fabbri). Nella massima, si riconosce l’avventura umana dell’illusionista ungherese, proprio in quegli anni all’apice del suo successo, unico uomo al mondo, dotato di strabilianti capacità nel liberarsi da corde, catene e lucchetti. Keaton ne approfitta e usa la frase, per dare un senso ai suoi venti minuti di girato. Quel corto, svelò poi, al grande pubblico, che dietro la genialità comica del regista, era percepibile una riflessione sulla società reduce del primo conflitto mondiale. Trionfo supportato dalla critica che subito percepì questa dualità d’intenti: “Nel film, come in Kafka, la legge trascende l’umano e gli impone il suo movimento, le sue illusioni, quindi il suo verdetto”. (R. Benayoun, Lo sguardo di Buster Keaton).
La trama, come la maggior parte dei film dell’epoca è elementare: un perdigiorno si innamora di una ragazza d’alta borghesia. L’amore non è contraccambiato, per troppa differenza di censo. Da qui, il giovane cerca di riscattarsi, ma, ogni sua azione è puntualmente fraintesa, da chi gli si para davanti. Il film diventa, per questo, kafkiano, perché la società che lo fraintende, paradossalmente, lo giudica e lo condanna, per azioni che, il poveretto, non ha commesso. Difatti, nella scena finale, non saranno i poliziotti ad arrestarlo, ma, lui stesso, si consegnerà al carcere, consapevole di non avere altre scelte, per restare vivo.
Keaton sembra amplificare all’eccesso, una riflessione che Freud aveva già teorizzato un anno prima, ne “La psicologia delle masse e l’analisi dell’io”: “Nella vita psichica del singolo l’altro è regolarmente presente come modello, come oggetto, come soccorritore, come nemico, e pertanto, in quest’accezione più ampia ma indiscutibilmente legittima, la psicologia individuale è anche, psicologia sociale”; uno dei principi che spianeranno la strada alla critica sociale, poi codificata dalla Scuola di Francoforte (1923).
Un dubbio, però, resta: se tutto si conclude con una inevitabile resa, perché iniziare con quella premessa?
L’intento di Keaton è dare una chiave di lettura nitida allo spettatore. Il “love” è posto in antitesi ai criteri della società, persino al destino che gli viene appioppato; anche le catene della prigione, non andranno a colpire la sincerità dei suoi sentimenti e del suo operato. Solo l’autenticità delle sue emozioni, lo libera da un senso di colpa inflitto ed anche dal totale fallimento. In questo modo, esorcizza la voce che lo vuole come vittima e reietto: “Quella voce è molto probabilmente un coro interiorizzato di voci dei genitori e di altre autorità, insieme al nostro modo particolare in cui gestiamo e parliamo a noi stessi. Anche se questa non è una sensazione piacevole, la maggior parte di noi può affrontarla, soprattutto se ci spinge a fare qualcosa che ci consenta di riconoscere le nostre azioni e di provvedere a correggerle. In realtà, la colpa spesso implica il desiderio di fare ammenda e annullare l’offesa”. (Melanie Klein 1882 – 1960).
Si potrebbe dire che il film, tra lo svolgimento della trama e intenti dell’autore, mette in campo un vero e proprio dialogo analitico, tra ciò che il protagonista prova e l’ineluttabilità dei mores, smontati proprio dalla sua consapevolezza, sospesa tra amore e continuo desiderio di riscatto, per non potersi dire vittima degli eventi.
In questo senso, il cortometraggio è kafkiano anche e soprattutto, per la battaglia intrapresa contro il senso di colpa.
Nel 1952, viene pubblicata a quasi trentadue anni dalla sua scrittura, una lettera di Kafka. È rivolta a suo padre, anche se mai fattagli recapitare, nemmeno dopo la morte dello scrittore, avvenuta nel 1924. Non è soltanto un’invettiva. È la liberazione, messa per iscritto, da un fardello pesantissimo: l’aver passato la vita a inseguire ideali perpetrati da un padre rigidissimo, con la consapevolezza che malgrado ogni sforzo, non sarebbe, alla fine, mai stato all’altezza delle aspettative: “io avevo perso la fiducia in me stesso, sostituendola con un immenso senso di colpa”.
Senso di colpa riversato, in ogni forma immaginabile e non, in tutte le sue opere. Il libello non è soltanto invettiva, perché Kafka, verso la fine dello scritto, è conscio di aver trovato una sua identità: “la vita è qualcosa di più che un gioco di pazienza.” Ora, è lui ad insegnare al padre e ciò lo distanzia dalla sola ribellione di maniera. Ed è qui che la sua melanconia diventa simile alla comicità di Keaton; leggera, perché modellata attraverso i battiti di un cuore che si è speso, a mani nude, contro tutte le avversità.
Herman Melville su questo eterno combattimento, ci fece un romanzo e lo chiamò Moby Dick, dove racconta l’epico assalto a un mostro temuto e indomabile, l’unico modo, per dichiarare, senza possibilità di smentite, d’aver vissuto veramente: “Nel tempestoso Atlantico del mio essere, io sempre godo di una muta calma nell’intimo e, mentre pesanti pianeti di dolore incessante mi ruotano intorno, laggiù in fondo continuo a bagnarmi in un’eterna soavità di gioia.” (H.M.)
Mostri, fraintendimenti, sensi di colpa, giudizi affrettati, catene, lettere abbozzate o perse, tradimenti e personaggi oscuri, li abbiamo visti, incontrati e molto probabilmente, li ritroveremo; scegliere come affrontarli, per essere liberi è ciò che ci permette di dirci vivi.
luca anaclerio
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VIVERE IL QUI ED ORA
I pensieri corrono costantemente nella nostra mente su cosa fare domani, cosa fare per pranzo, cosa mi è successo ieri, cosa mi ha detto questa persona mesi fa e con la quale sono ancora offeso… non lasciando quasi spazio al momento presente.
Di solito facciamo le cose in modo automatico: lavare i piatti mentre facciamo la lista della spesa nella nostra mente, lavare l’auto mentre cantiamo una canzone… senza notare veramente le sensazioni di ogni momento. Anche quando andiamo a fare una passeggiata, spesso non sentiamo nemmeno il suono degli uccelli perché siamo immersi nei nostri pensieri.
Tuttavia, vivere pensando sempre al passato o al futuro crea in noi un’enorme sofferenza. Pensare troppo al passato ci provoca impotenza per cose che non possiamo cambiare, senso di colpa per qualcosa che abbiamo fatto o rabbia per qualcosa che qualcuno ci ha fatto in passato, questo ci impedisce di crescere, mentre pensare troppo al futuro crea ansia. Il potere della mente è così grande che se non la controlli, in meno tempo di quanto pensi ti controllerà. I pensieri negativi ti invadono fino a diventare vittima del passato, che non è più nelle tue mani, e del futuro, che quasi mai accade come speriamo.
C’è un libro molto famoso di Eckhart Tolle chiamato “Il potere di adesso”, la cui filosofia si concentra sull’idea di vivere il momento al massimo. L’adesso è l’unica cosa su cui abbiamo il controllo assoluto, così l’ansia e la preoccupazione di non avere il controllo nel futuro si dissipano.
“Non bisogna pensare al futuro se non stiamo bene nel presente. È come correre con una gamba” – Giorgio Burdi
Un buon esercizio per concentrarsi sul momento presente è diventare consapevoli delle sensazioni di ogni momento: la sensibilità della nostra pelle quando tocchiamo un capo d’abbigliamento, i suoni che stiamo sentendo in quel preciso momento, il colore e la consistenza degli oggetti intorno a noi…. Questo esercizio ci permette di concentrarci su questo preciso momento, dissipando i nostri pensieri.
In breve, coltivando e curando il nostro presente, coltiviamo e favoriamo il nostro futuro. Un futuro più sano, più felice e più consapevole dell’importanza di assaporare il momento.
— SPAGNOLO —
Por nuestra mente están continuamente rondando pensamientos acerca de qué haré mañana, qué tengo que hacer de comer, qué me pasó ayer, qué me dijo esta persona hace meses y con la que aún estoy ofendida… sin dejar casi espacio al momento presente. Normalmente hacemos las actividades en automático: fregar los platos mientras repaso la lista de la compra, lavar el coche mientras canto alguna canción en la cabeza… sin realmente darnos cuenta de las sensaciones de cada momento. Incluso a la hora de dar el paseo muchas veces ni escuchamos el sonido de los pájaros porque estamos inmersos en nuestros pensamientos.
Sin embargo, vivir siempre pensando en el pasado o en el futuro crea en nosotros un tremendo sufrimiento. Pensar demasiado en el pasado nos provoca impotencia por las cosas que no podemos cambiar, culpa por algo que hicimos o rabia por algo que alguien nos hizo en el pasado, lo que nos impide crecer, mientras que pensar demasiado en el futuro nos crea ansiedad. El poder de la mente es tan grande, que si no la controlas, en menos de lo que piensas ella te controla a ti. Los pensamientos negativos te invaden hasta convertirte presa del pasado, que ya no está en tus manos, y el futuro que casi nunca sucede como esperamos.
Hay un libro muy famoso de Eckhart Tolle llamado “El poder del ahora”, cuya filosofía se centra en la idea de vivir el momento a plenitud. El ahora es lo único sobre lo que tenemos control absoluto, por lo que la ansiedad y la preocupación por no tener el control en el futuro se disipan.
“Non bisogna pensare al futuro se non stiamo bene nel presente. È come correre con una gamba” – Giorgio Burdi
Un buen ejercicio para concentrarnos en el momento presente es hacernos conscientes de las sensaciones de cada momento: la sensibilidad de nuestra piel al tocar una prenda de ropa, los sonidos que estamos escuchando en ese preciso instante, el color y la textura de los objetos que nos rodean… Este ejercicio nos permite enfocarnos en este preciso instante disipando nuestros pensamientos.
En resumen, cultivando y cuidando nuestro presente, estamos cultivando y favoreciendo nuestro futuro.
Maria Luz Romero
Laureanda in Psicologia Clinica Universidad De Murcia Espana Tirocinante Erasmus presso lo
Studio BURDI
ABBRACCIARE L’INFERNO
Ricostruirsi per ricostruire
All’inizio dell’anno, l’Ordine degli psicologi, attraverso il suo presidente David Lazzari, ha lanciato un allarme che da tempo, era nitidamente percepito da numerosi psicoterapeuti, ovvero, che la pandemia è andata creando un’emergenza sanitaria parallela, riguardante la salute mentale dei cittadini. Non solo di quelli che hanno vissuto in prima persona la malattia, ma, soprattutto di coloro che hanno scontato le restrizioni individuali e sociali attuate per contenere i contagi da Covid-19.
Riporta Lazzari: “La popolazione è smarrita e stanca, stremata da questa emergenza che non sembra finire. Da tempo è in atto una emergenza psicologica che solo la politica non vuol vedere. Che oggi si ripropone e si accentua con una nuova ondata della pandemia”. (Fonte Ansa 7 gennaio 22).
La variante Omicron, nonostante l’ampia copertura raggiunta dalla campagna vaccinale e scavalcando ogni timida rassicurazione proveniente dall’OMS sulla minore aggressività presentata dalla sua sintomatologia, non ha, di fatto, mitigato i timori e le resistenze psicologiche dei singoli. I germogli di speranza che avevano resistito alle precedenti ondate son stati spazzati da una crescente rassegnazione, sfociante, nella maggior parte dei casi, in un fatalismo deleterio.
Perfino l’iniziale chiamata all’unità e alla resistenza propagandata nel primo lockdown è scomparsa, sommersa nell’ esercizio del sospetto e della diffidenza verso l’altro.
Durante le ultime festività natalizie – la stessa Confcommercio ha parlato di “effetto omicron” riferendosi al crollo di spese e consumi – si è assistito alla nascita di micro lockdown, questa volta auto inflitti, operati talvolta, a scapito di rapporti interpersonali, nonché del proprio benessere personale. Un clima non alleggerito dalla contraddittorietà delle informazioni provenienti dai mass media e che ha inciso la leggera patina di equilibrio che ci eravamo guadagnati, grazie ai progressi ottenuti con le terapie mediche e la diffusione dei vaccini su larga scala.
Questa sindemia, come l’hanno definita ultimamente, i ricercatori della Società di Neuropsicofarmacologia, cioè questa “iterazione sinergica tra patologie diverse (fisiche e mentali)” andrà a definire il futuro prossimo, tanto da condurre sociologi ed esperti a prospettare la formazione di una “Generazione Covid”, insicura, ipocondriaca e chiusa; incline, facendo riferimento al DSM-V, a sviluppare quei sintomi riconducibili al “Disturbo post-traumatico da stress”.
È probabile che la tempesta stia passando, ma, gli strascichi dovranno esser gestiti con competenza e risolutezza. Anche per questo motivo si sperava che il Mef, nell’ultima legge di bilancio, non rifiutasse in toto, la proposta di un “bonus psicologico”. Se da due anni a questa parte si sono sprecate le metafore su discese agli inferi, gironi, demoni et similia, è anche vero che ora, ci sarebbe bisogno di Virgilio, per risalire; di figure competenti e professionali che accompagnino il cammino verso ciò che molti hanno definito (si spera) un nuovo Rinascimento. In questo momento, non sono lontane le stesse sensazioni di Gramsci: “Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri”, così scriveva nei suoi Quaderni dal carcere (1930), riferendosi alla sciagura degli estremismi europei, sul crinale della II guerra mondiale.
Virgilio non evitò l’inferno a Dante, lo portò fino all’ultimo girone spiegandogli ogni incontro, ogni inciampo ed esortando costantemente il Sommo Poeta, attraverso l’esempio e l’eloquenza, ad affrontare paure, mali e mostri.
Lo conduce fino giù, nel vento gelido della Giudecca, là dove guardano negli occhi Lucifero.
Ma nemmeno questa visione mostruosa concluse il viaggio. Non bastò il timore di Dante, impaurito e nascosto dietro il suo maestro.
Servì altro per uscire. Servì abbracciare tutto l’inferno, avvinghiarsi al suo nucleo ed usarlo:
“Attienti ben, ché per cotali scale”,
disse ’l maestro, ansando com’uom lasso,
“conviensi dipartir da tanto male”. (Inf. XXXIV,84)
Dante vive il suo processo di autopoiesi proprio nell’inferno, per dirla come Jung. Rinnova la sua vita obbedendo a leggi di morte e rinascita, di sofferenza e di felicità. Non trova nuove ragioni o nuove teorie sul suo essere, ma, una nuova Consapevolezza, utile per affrontare e risollevare il suo mondo: “Inferno è quando il profondo arriva a voi con tutto ciò di cui non siete più o non siete ancora padroni. Inferno è quando non potete raggiungere ciò che potreste. Inferno è quando dovete pensare, sentire e fare tutto ciò che sapete di non volere. Inferno è quando sapete che per voi dovere è anche volere e che ne siete responsabili”. (Jung, Libro Rosso pag.245).
Dall’Inferno si esce abbracciandolo. Accettandolo, comprendendolo.
È questo, un movimento vitale, non un esercizio intellettuale. Dante, non termina il suo racconto con l’abbraccio a Lucifero. Ci porta, con Virgilio, nella “natural burella” di “mal suolo e di lume disagio”, un luogo che seppur scosceso e buio, conosce la bellezza dell’amicizia umana, del bene, del conforto di chi sa dov’è l’uscita “per riveder le stelle”.
Forse siamo in questo punto della storia.
Dobbiamo scegliere se tornare indietro o proseguire per goderci lo spettacolo del cielo.
Bisogna scendere a prenderci il bene che ci si merita, quasi parafrasando una canzone di non molto tempo fa:
“Pijiate nu poc ‘e ben
Pigliate o calor ‘e sta canzone
E nun cercà ‘e capì manc ‘e parole
M’abbast ca pe n’attim me sient”. (C. Gnut – 2018).
L’analisi vive di parole e di ascolto, le usa per definire un nuovo cammino. Il tuo.
Luca Anaclerio
Immagine: dal Liber secundus di Carl Gustav Jung
ContinuaAGISCI
Tutti abbiamo sempre sentito dire che bisogna pensare prima di agire quando si tratta di fare le cose. L’impulsività è sempre stata punita come una cosa negativa, ma non ci è mai stato detto: vai avanti, agisci.
Abbiamo una convinzione radicata che dovremmo pensare prima di agire, che portata all’estremo può influire sulla nostra salute: pensare troppo se fare o non fare qualcosa richiede una quantità enorme di energia e tempo. È vero che abbiamo bisogno di meditare sulle nostre decisioni, ma senza che questo ci costi troppo tempo o ci sfinisca emotivamente, che è quando diventa patologico, soprattutto quando iniziano ad emergere una serie di pensieri ossessivi.
“Se agisci non dai al pensiero (ossessivo) tanto potere e tempo per svilupparsi” – Giorgio Burdi
A volte è necessario “buttarsi in piscina”, senza pensare troppo alle conseguenze dell’azione. In questo modo evitiamo di essere bloccati dall’indecisione e dalla paura di prendere la decisione sbagliata. Molte volte nella vita ci manca il coraggio, o abbiamo paura di affrontare le cose, e finiamo per perdere opportunità, o cose che vogliamo. La paura paralizza.
Agire significa prendere coraggio e non lasciare che la paura guidi la nostra vita o le nostre azioni. A volte, meno pensiamo alle cose, meglio si rivelano. Lasciare che la vita scorra, senza preparare o forzare nulla, ci fa preoccupare meno di ciò che potrebbe accadere e fare semplicemente le cose che abbiamo voglia di fare, senza essere bloccati o paralizzati dai pensieri che ci entrano in testa.
Quindi, pensare prima di agire è un bene, ma fino a un certo punto, nel momento in cui ci accorgiamo che ci stiamo consumando è bene riprendere il controllo della propria vita e agire, sia nel bene che nel male.
Inoltre, raggiungere la capacità di prendere decisioni senza pensarci troppo può aumentare la nostra autostima e la nostra capacità di gestire efficacemente le richieste del nostro ambiente.
“Non dobbiamo pensare tanto, dobbiamo reagire” – Giorgio Burdi
— SPAGNOLO —
Todos hemos escuchado siempre que hay que pensar antes que actuar a la hora de hacer las cosas. La impulsividad siempre se ha castigado como algo malo, pero nunca nos han dicho: adelante, actúa.
Llevamos arraigada la creencia de que debemos pensar antes de actuar, que llevada al extremo puede afectar a nuestra salud: pensar demasiado si hacer o no una cosa nos quita una cantidad tremenda de energía y tiempo. Es cierto que tenemos que meditar nuestras decisiones pero sin que nos cuesten demasiado tiempo o desgaste emocional, que es cuando se convierte en patológico, sobretodo cuando empiezan a surgir una serie de pensamientos obsesivos.
“Si pasas a la acción no le das tanto poder ni tiempo ni al pensamiento (obsesivo) para que se desarrolle” – Giorgio Burdi
En algunas ocasiones hace falta “lanzarse a la piscina”, sin pensar demasiado las consecuencias de la acción. De esta manera evitamos quedarnos bloqueados ante la indecisión y el temor a tomar la decisión inadecuada. Muchas veces en la vida no tenemos valor, o nos da miedo afrontar las cosas, y terminamos perdiendo oportunidades, o cosas que deseamos. El miedo paraliza.
Tomar acción significa armarse de valor y no dejar que el miedo guíe nuestra vida o nuestras acciones. A veces, cuanto menos pensamos las cosas, mejor nos salen. Ese dejar fluir de la vida, no preparar ni forzar nada, nos hace preocuparnos menos por lo que pueda pasar y simplemente hacer las cosas que nos apetece hacer, sin dejarnos bloquear o paralizar por los pensamientos que se nos vienen a la cabeza.
Por lo tanto, pensar antes de actuar es bueno pero hasta cierto punto, en el momento en que notemos que nos estamos desgastando demasiado es bueno retomar el control de tu vida y tomar acción.
Maria Luz Romero
Laureanda in Psicologia Clinica Universidad De Murcia España
Tirocinante Erasmus presso lo
Studio BURDI
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RELAZIONI AMBIVALENTI
Le relazioni con gli altri sono una parte fondamentale della nostra vita, e la qualità di queste relazioni influenzerà notevolmente la nostra salute mentale e il nostro equilibrio.
Dovremmo coltivare le relazioni che sono sane per noi, e che ci portano gioia, pace e tranquillità, e allontanarci da quelle che prosciugano la nostra energia. Tuttavia, ci sono alcune relazioni che non sono così facili da identificare, essendo sia gratificanti che dolorose per noi. Una frase che potrebbe descrivere tali relazioni sarebbe “ti amo e ti odio”.
Uno dei motivi principali per cui l’ambivalenza emotiva può essere così dolorosa è che cerchiamo di liberarcene. Cerchiamo di persuaderci che abbiamo solo sentimenti positivi o negativi verso qualcuno, ma questa è un’idea sbagliata.
Un chiaro esempio sono le relazioni familiari. In alcune famiglie, i genitori sono molto esigenti con i loro figli, che causa loro un’enorme ansia e problemi correlati. Un parente molto invasivo riempirà costantemente il bambino di rimproveri (non vestirti così, non ti sta bene, quella persona non va bene per te, dovresti studiare di più, non uscire oggi…) o di paragoni costanti con gli altri, ma allo stesso tempo usa la scusa “te lo dico perché ti voglio bene, e voglio il meglio per te” che crea una sensazione di ambivalenza nel bambino. “Mi fa male, ma perché mi ama”.
Un altro esempio familiare sarebbe il fatto che alcuni genitori fanno sentire i loro figli in colpa se escono troppo con gli amici, se iniziano a frequentare un ragazzo o lasciano il paese per un po’ di tempo per studiare, creando la concezione di “non divertirti, perché se ti diverti, mi lascerai”, creando nel bambino un sentimento di ansia e ambivalenza a causa dell’amore che provano per i loro genitori ma il desiderio di volersi individualizzare come persona.
Un altro esempio di rapporto nevrotico nelle relazioni di coppia sarebbe una relazione in cui uno dei partner non vuole compromessi, ma allo stesso tempo richiede costantemente l’attenzione del partner e si risente della frequentazione dell’altro partner. Tuttavia, quando si chiede più impegno nella relazione, io scappo. La frase sarebbe “Ci sto, non ci sto”.
Un modo per concludere queste relazioni nevrotiche sarebbe quello di imparare a identificare questi sentimenti di ambivalenza e porre dei limiti. Spesso è difficile perché queste relazioni abbassano l’autostima, ma dobbiamo essere consapevoli delle nostre risorse e imparare a usarle. La comunicazione è molto importante in tutte le relazioni, e farsi rispettare è qualcosa di fondamentale su cui dobbiamo lavorare se vogliamo mantenere relazioni sane e stabili in futuro.
— ESPAÑOL —
Las relaciones con los demás conforman una parte muy importante de nuestra vida, y la calidad de ellas influirá en gran medida en nuestra salud mental y equilibrio.
Debemos cultivar las relaciones que son saludables para nosotros, y nos aportan alegría, paz y tranquilidad, y alejarnos de las que drenan nuestra energía. Sin embargo, hay algunas relaciones que no son tan fáciles de identificar, siendo para nosotros tanto gratificantes como dolorosas. Una frase que podría describir este tipo de relaciones sería “te amo y te odio”.
Una de las principales razones por las que la ambivalencia emocional puede ser tan dolorosa es que tratamos de deshacernos de ella. Intentamos persuadirnos a nosotros mismos de que solo tenemos sentimientos positivos o negativos hacia alguien, pero es una idea errónea.
Un claro ejemplo son las relaciones familiares. En algunas familias, los padres son muy exigentes con los hijos, los que les causa una tremenda ansiedad y problemas relacionados. Un pariente muy invasivo llenará constantemente al hijo de reproches (no te vistas así, no te favorece, esa persona no te conviene, deberías estudiar más, hoy no salgas…) o constantes comparaciones con los demás, pero a la vez utiliza la excusa de “te lo digo porque te quiero, y quiero lo mejor para ti” lo que crea en el hijo un sentimiento de ambivalencia. “Me hace daño, pero porque me quiere”.
Otro ejemplo familiar sería el hecho de que algunos padres hacen sentir culpables a sus hijos si salen demasiado con amigos, si empiezan a salir con un chico o dejan el país por un tiempo para estudiar, creando la concepción de “no disfrutes, porque si disfrutas, me dejas”, creando en el hijo una sensación de ansiedad y ambivalencia por el amor que siente hacia sus padres pero el deseo de querer individualizarse como persona.
Otro claro ejemplo de rapporto nevrotico en relaciones de pareja sería una relación en la que una de las personas no quiere comprometerse, pero a la vez demanda constantemente la atención de la pareja y le molesta que salga con otras personas. Sin embargo, cuando tú demandas más compromiso en la relación, yo huyo. La frase sería “Estoy, no estoy”.
Una manera de acabar con estas relaciones neuróticas sería aprender a identificar estos sentimientos de ambivalencia y poner límites. A menudo es difícil porque este tipo de relaciones te bajan la autoestima, pero tenemos que ser conscientes de nuestros propios recursos y aprender a utilizarlos. La comunicación es muy importante en todas las relaciones, y hacernos respetar es algo fundamental que tenemos que trabajar si queremos mantener relaciones sanas y estables en el futuro.
Maria Luz Romero
Laureanda in Psicologia Clinica Universidad De Murcia Espana Tirocinante Erasmus presso lo
Studio BURDI
LA REALTÀ È LA NOSTRA CURA
Spesso non vediamo la realtà così com’è, ma attraverso occhiali che proiettano le nostre credenze, prospettive, illusioni e, in generale, la nostra esperienza di vita. È per questo che le persone reagiscono in modo diverso alla stessa situazione.
Abbiamo una serie di schemi attraverso i quali analizziamo le nostre esperienze quotidiane, che possono essere più o meno rigidi. Per esempio, a seconda delle nostre convinzioni e della nostra autostima, quando qualcuno dice “Sei bella oggi” possiamo pensare che sia un bel complimento, o che la persona stia mentendo o ridendo di noi. A seconda di quanto siano adattivi i nostri schemi, agiremo e penseremo in modo più o meno sano.
Essere consapevoli che ci sono sempre diverse prospettive sulla stessa situazione ci fa allontanare dal manuale che avevamo stabilito e agire in un modo che è più vantaggioso per noi. Quando ci succede un qualsiasi evento, l’emozione che proviamo dipende dalla nostra interpretazione della situazione. A seconda dell’interpretazione che ne diamo, questo ci farà sentire in un certo modo e, di conseguenza, il nostro comportamento tenderà in una direzione o nell’altra.
I nostri pensieri negativi e le nostre preoccupazioni spesso ci fanno soffrire più del dovuto: essendo intrusivi, ricorrenti, esagerati… Ci sentiamo in una “nuvola” che offusca la nostra visione e non possiamo vedere oltre.
Quindi come possiamo controllare le nostre emozioni? Cosa possiamo fare per cambiare il modo in cui ci sentiamo? La risposta sta nell’imparare a cambiare il modo in cui interpretiamo gli eventi, cioè a cambiare il discorso interno che abbiamo con noi stessi.
Chiediti le seguenti domande: “Quello che sto pensando è davvero così?”, “Tutti gli altri lo capirebbero allo stesso modo?”, “Cosa penserebbe la persona che più ammiro della stessa situazione?”, “E il mio migliore amico?”
Non credere a tutto ciò che pensi: prima di tutto sii consapevole che i nostri pensieri sono solo questo: pensieri. Non sono la realtà. I nostri pensieri e le nostre preoccupazioni sono la nostra interpretazione ed elaborazione della realtà… non la realtà stessa.
Pertanto, dobbiamo imparare a identificare le nostre emozioni negative quando appaiono, in modo che quando notiamo quel segnale di avvertimento, possiamo fermarci un momento e cercare il pensiero che ci ha portato a sentirci in quel modo, e poi cercare un modo di pensare alternativo più adattivo. Questo non è un compito facile, poiché siamo profondamente radicati nel nostro sistema di credenze e ci vuole pratica e sforzo per cambiarlo.
— ESPAÑOL —
A menudo no vemos la realidad tal y como es, sino a través de unas gafas que proyectan nuestras creencias, perspectivas, ilusiones y, en general, nuestra experiencia de vida. Es por este motivo que las personas reaccionamos de manera diferente ante una misma situación.
Tenemos una serie de esquemas a través de los cuales analizamos nuestras experiencias cotidianas, que pueden ser más o menos rígidos. Por ejemplo, según nuestras creencias y nuestra autoestima, cuando alguien nos dice “Hoy estás muy guapa” podemos pensar que es un agradable cumplido, o que esa persona está mintiendo o se está riendo de nosotros. Dependiendo de lo adaptativos que sean nuestros esquemas actuaremos y pensaremos de forma más o menos saludable.
Ser conscientes de que siempre hay varias perspectivas ante una misma situación nos hace alejarnos del manual que teníamos establecido y actuar de manera más beneficiosa para nosotros. Cuando nos sucede cualquier cosa, la emoción que surge se basa en la interpretación que cada uno hace de la situación.
¿Cómo podemos entonces controlar nuestras emociones? ¿Qué podemos hacer para cambiar la manera en la que nos sentimos? La respuesta radica en aprender a cambiar la forma que tenemos de interpretar los acontecimientos, es decir, modificar el discurso interno que tenemos con nosotros mismos.
Plantéate las siguientes cuestiones: “eso que estoy pensando, ¿es realmente así?”, “¿todo el mundo lo entendería igual?”, “¿qué pensaría de esa misma situación la persona que más admiro?”, “¿y mi mejor amigo?”
Tenemos que tener siempre presente que nuestros pensamientos están condicionados por nuestras creencias y que no necesariamente reflejan la realidad.
Por ello, tenemos que aprender a identificar por qué aparecen las emociones negativas y cuales son mis esquemas y creencias que provocan estas emociones, con el fin de modificarlos de la manera más adaptativa posible.
Maria Luz Romero
Laureanda in Psicologia Clinica Universidad De Murcia Espana Tirocinante Erasmus presso lo
Studio BURDI
IL DOVERE DI AVERE UN SENSO
White screen of death – Contro il senso del dovere
Qualche mese fa, mi è stata affidata la gestione del portale internet dell’attività per cui lavoro. Una mansione delicata, perché, attraverso il sito, la nostra clientela viene a conoscenza della maggior parte delle informazioni che permettono di sceglierci, rispetto ai vari concorrenti. Non occorrono molte competenze informatiche: dovere principale è ordinare le pagine del sito e aggiornarlo con articoli, commenti e foto condivisibili sui social. Occorre, però, stare attenti, cosa a cui non ho badato una sera, aggiornando i plug-in della pagina. Non so in quale modo, ho crashato tutto, facendo andare il sito offline o, per dirla come gli esperti in materia, ho prodotto il “White screen of death” – la Schermata bianca della morte che decreta la sospensione del sito e la perdita dei dati lì reperibili.
Ero in panico assoluto. In primo luogo, avevo vanificato anche il lavoro fatto da altri prima di me e poi avevo disperso così, la fiducia riposta nei miei confronti. Per di più, ogni mio tentativo di ristabilire la normalità attraverso backup di sistema o risultava inutile o rischiava di peggiorare la situazione. Chi, in quel momento, ci avesse cercato sul web, si sarebbe trovato davanti una bella pagina candida e vergine, con, nel margine, numeri incomprensibili che forse, decodificati avrebbero reso in lettere: “Scusateci, ma il nostro webmaster è un coglione!”.
Cosa fare? La mia mente proponeva tre soluzioni:
– Non presentarmi al lavoro e scappare in Brasile.
– Confessare tutto al mio datore di lavoro e cercare con lui, un rimedio.
– Scappare, ora, in Brasile.
Accantonata (momentaneamente) l’idea della partenza, riprovai, nottetempo, un inattaccabile discorso di scuse; mentre lo ripassavo, però, cominciavo a rendermi conto che la paura più grande, quella che mi assediava fino a non permettermi di ragionare, non stava tanto nell’aver mancato all’incarico di fiducia, quanto aver perso una sorta di sfida col mio senso del dovere e della perfezione.
Mi preoccupava il conto che non tornava con me stesso, non quello con gli altri.
La terapia insegna che esiste un senso dell’obbligo, del dovere, spendibile fino al personale martirio, imparato da piccoli e che ci impegna nei confronti di ogni relazione: partner, famiglia, lavoro, società…questo lavoro forzato sottrae il netto (l’essenza) della nostra felicità.
Evochiamo, nel nostro inconscio, un “fantasma sacrificale” – per dirla con Recalcati – che aggiungiamo al “sacrificio primordiale” che permise ai nostri progenitori, di far parte dell’umano consorzio. “La differenza tra il sacrificio simbolico e il fantasma sacrificale consiste nel fatto che mentre nel primo una quota pulsionale viene “sacrificata” dal soggetto in cambio della sua inclusione nella comunità umana, nella logica del fantasma sacrificale il sacrificio diventa una meta paradossale della pulsione: non mi sacrifico in vista di un fine perché il sacrificio è in sé stesso un fine”. (Recalcati – Contro il sacrificio p.42).
Il cuore della nevrosi dell’uomo contemporaneo sarebbe qui; in una dispersione di forze che quieta temporaneamente e non realizza mai.
Per spiegarlo, alla pari di Camus, potremmo far riferimento al mito di Sisifo.
Simbolo del dovere sterile che ci rende degli “uomini cammello” (Nietzsche), ovvero degli schiavi che addossano inutilmente su sé, tutte le responsabilità del mondo, Sisifo è condannato dagli dei a spostare, sulla vetta ad una montagna, un grosso macigno; questo, ogni volta che avrà raggiunto la sommità, ricadrà su sé stesso per effetto del suo peso. La pena di Sisifo, quindi, oltre che quello della fatica, è costituita dalla consapevolezza che quell’eterno lavoro servirà solo a placare l’ira degli dei nei suoi confronti e a fermare là, il suo mondo: “Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice”. (Camus – Il mito di Sisifo).
Immaginarci felici, semmai col ragionamento: “se sconterò questo avrò in cambio gioia e pace”, non può bastare.
Sacrificarsi per mantenere bianca e pura, la facciata del quieto vivere, può nascondere la morte dell’anima.
Il dovere porta piacere se si connette al nostro Desiderio, se ci conduce verso quello che con consapevolezza, ci nutre, ci fa crescere, ci rende uomini e donne migliori. Sisifo guarda alla vetta della montagna; l’analisi ci aiuta a guardare più in alto, a coltivare, semmai buone passioni per non essere schiavi di quegli schemi mentali ereditati, ma, che è sempre possibile modificare.
Cosa non semplice, rendersi conto che molte volte, spostiamo pesi enormi, per conto di regole antiche, ma, è la fatica impiegata per quella lotta di liberazione ad essere giustificabile e foriera di stabilità interiore.
Da parte mia, non sono più scappato in Brasile. Ho preferito chiedere un parere ad un amico più esperto, riuscendo a far tornare on-line, il sito. Al referente ho spiegato che, alla luce dell’accaduto, ove avesse ritenuto opportuno, poteva scegliersi un altro media manager, per curare la nostra visibilità sul web. La risposta è stata che, per il momento, non si sarebbero cercati tecnici, ma persone che mettono passione nel loro lavoro.
Quel compito, così, si è trasformato in una cosa davvero mia, avrei potuto rinunciare e restare nel mio solito ruolo, “avrei potuto anche accontentarmi, ma è così che si diventa infelici.” (C. Bukowski)
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IL DIRITTO DI DELUDERE
Tutti abbiamo paura di deludere gli altri e soprattutto i nostri cari, così come di deludere noi stessi.
Ci poniamo continuamente obiettivi, scopi e aspettative che dobbiamo soddisfare, altrimenti ci sentiamo sconfitti. Questo significa che più obiettivi e traguardi raggiungiamo, più siamo validi come persone, o più amore ci meritiamo dai nostri cari?
Alcune persone confondono la lode con l’amore, ma essere lodati non significa essere amati. Spesso cerchiamo l’approvazione nella lode degli altri, il che ci rende troppo esigenti con noi stessi, e questo genera in noi una quantità molto alta di stress e ansia. Non possiamo essere perfetti. Spesso non raggiungere un obiettivo crea in noi un sentimento di inferiorità, di non essere adeguati, e la paura di essere rifiutati. Un fattore molto importante è che l’ambiente intorno a noi sia accogliente, aperto al cambiamento e all’apprendimento lungo la strada. La constatazione dell’impossibilità di essere ‘perfetti’ genera frustrazione e incide pesantemente sull’autostima del individuo.
Stabilire degli obiettivi è un meccanismo di adattamento e ci aiuta ad aumentare la nostra motivazione e a focalizzare la nostra attenzione sulle cose che vogliamo raggiungere, ma dobbiamo stare attenti a non fissare obiettivi troppo alti e mettere a rischio la nostra salute mentale. Dobbiamo cercare un equilibrio. Dovremmo fissare degli obiettivi che ci permettano di bilanciare il nostro tempo libero e la cura di noi stessi con il lavoro e il senso del dovere.
Parafrasando un famoso monologo cinematografico: “la delusione è valida, la delusione è giusta, la delusione funziona, la delusione è chiara. La delusione in tutte le sue forme: la delusione di vita, di amore, di sapere, sportiva, imposta lo slancio in avanti”. Tutte le delusioni che attraversiamo nella nostra vita ci aiutano a crescere.
Non si può controllare tutto nella vita. Purtroppo, questo apprendimento arriva dopo aver subito grandi delusioni. È importante rendersi conto che le uniche cose che si possono controllare sono i propri atteggiamenti, decisioni, sentimenti e azioni. È certamente uno spreco di energia e un comportamento inutile concentrarsi su ciò che non può essere controllato. Dobbiamo essere sempre in grado di tenerlo a mente.
Infine, dobbiamo pensare a noi stessi. Poiché le battute d’arresto sono inevitabili, non bisogna perdere di vista il proprio obiettivo principale nella vita. Spesso le delusioni non hanno nulla a che fare con ciò che spinge una persona, la sua missione. La missione deve essere il raggiungimento del proprio benessere. Questo sarebbe il primo e necessario passo per poter aiutare gli altri. Dobbiamo imparare a fermarci, a prenderci cura di noi stessi, a dimenticare un po’ il senso del dovere e trovare il senso del piacere.
— ESPAÑOL —
Todos tenemos miedo de decepcionar a los demás y especialmente a nuestros seres queridos, así como de decepcionarnos a nosotros mismos. Constantemente nos fijamos metas, objetivos y expectativas que tenemos que cumplir, de lo contrario nos sentimos derrotados. ¿Significa esto que cuantas más metas y objetivos alcancemos, más valiosos seremos como personas o más amor mereceremos de nuestros seres queridos?
Algunos confunden la alabanza con el amor, pero ser alabado no es ser amado. A menudo buscamos la aprobación en los elogios de los demás, lo que nos hace ser demasiado exigentes con nosotros mismos, y esto nos genera una gran cantidad de estrés y ansiedad. No podemos ser perfectos. A menudo, el hecho de no alcanzar un objetivo crea un sentimiento de inferioridad, de no ser adecuado, y un miedo al rechazo. Un factor muy importante es que el entorno que nos rodea sea acogedor, abierto al cambio y al aprendizaje en el camino. La constatación de que es imposible ser “perfecto” genera frustración y afecta gravemente a la autoestima del individuo.
Establecer objetivos es un mecanismo de adaptación y nos ayuda a aumentar nuestra motivación y a centrar nuestra atención en las cosas que queremos conseguir, pero debemos tener cuidado de no poner nuestros objetivos demasiado altos y poner en riesgo nuestra salud mental. Hay que buscar un equilibrio. Debemos establecer objetivos que nos permitan equilibrar nuestro tiempo libre y el cuidado personal con el trabajo y el sentido del deber.
Parafraseando un famoso monólogo cinematográfico: “la decepción es buena, la decepción es correcta, la decepción funciona, la decepción es clara. La decepción en todas sus formas: la decepción en la vida, en el amor, en el conocimiento, en el deporte, marca el ritmo”. Todas las decepciones que sufrimos en nuestra vida nos ayudan a crecer.
No se puede controlar todo en la vida. Desgraciadamente, este aprendizaje llega después de experimentar grandes decepciones. Es importante darse cuenta de que lo único que puedes controlar son tus actitudes, decisiones, sentimientos y acciones. Sin duda, es un desperdicio de energía y un comportamiento inútil centrarse en lo que no se puede controlar. Debemos tenerlo siempre presente.
Pensar en nosotros mismos
Por último, tenemos que pensar en nosotros mismos. Como los contratiempos son inevitables, no debemos perder de vista nuestro objetivo principal en la vida. A menudo, las decepciones no tienen nada que ver con lo que impulsa a una persona, su misión. La misión debe ser el logro del propio bienestar. Este sería el primer y necesario paso para poder ayudar a los demás. Tenemos que aprender a parar, a cuidarnos, a olvidarnos un poco del sentido del deber y encontrar el sentido del placer.
Maria Luz Romero
Laurenda in Psicologia Clinica Universidad De Murcia Espana Tirocinante Erasmus presso lo
Studio BURDI
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