ANAFETTIVITÀ e Il diritto all’ emozione
Una delle nostre caratteristiche in quanto esseri umani è quella di essere costantemente in relazione con gli altri.
Si tratta di relazioni che possono essere più o meno significative ma che ci coinvolgono quotidianamente, e spesso si tratta della principale dinamica che ci porta a interrogarci sulla nostra persona.
Possiamo avere la tendenza a ricercare la vicinanza degli altri, o al contrario, ad evitarla con tutte le nostre forze.
Le relazioni interpersonali ci chiedono un minimo di autosvelamento, ci viene chiesto di metterci in gioco e di lasciare all’altro la possibilità di “vedere”.
Le relazioni che caratterizzano la nostra vita divengono significative non solo con il tempo, ma soprattutto con l’impegno che poniamo nel loro mantenimento e nutrimento, con l’impiego di affetti ed emozioni.
Gli affetti non sono fenomeni individuali, che in taluni momenti, possono scontrarsi l’uno con l’altro; sono fenomeni interindividuali e intercomuni che si elicitano nelle relazioni.
Quando parliamo di anaffettività facciamo riferimento ad un’incapacità nel relazionarsi con gli altri ad un livello profondo, che richiede empatia e consapevolezza personale.
Le persone anaffettive sono spesso persone non consapevoli di se stessi, dei propri stati mentali, affettivi ed emotivi e che pertanto tendono all’isolamento.
La regolazione emotiva ed affettiva, che quindi influenza le nostre relazioni, non è qualcosa di cui siamo muniti fin dalla nostra nascita, è una capacità che acquisiamo ed apprendiamo all’interno del contesto relazionale primario, in cui la relazione con i nostri caregivers funge da esempio e modello per le relazioni successive.
Secondo il modello dell’attaccamento di Bowlby la ricerca della vicinanza fisica, mentale ed emotiva che il neonato brama fin dalla nascita è essenziale per la sua sopravvivenza.
La qualità di questa prima relazione influenza lo sviluppo del bambino, che interiorizza, sotto forma di modelli operativi interni quelle che sono le modalità relazionali proprie di questa prima fase che influenzeranno le successive relazioni.
Secondo Bowlby si possono realizzare tre tipi di attaccamento, a cui sono associati diversi pattern relazionali e di regolazione emotiva:
- Attaccamento sicuro: il bambino, e futuro adulto, è in grado di sperimentare un ampia gamma di affetti, che comprendono anche emozioni negative come paura e rabbia e raggiunge una sempre maggiore capacità nel rispondere ai propri bisogni in un cammino che conduce all’autonomia. Il caregiver è responsivo e presente, si sintonizza con gli stati affettivi ed emotivi del bambino consentendo una progressiva consapevolezza da parte di quest’ultimo. I bambini, e gli adulti, con un attaccamento sicuro sono capaci di verbalizzare i propri stati emotivi e di comunicarli agli altri.
- Attaccamento evitante: il bambino tende ad inibire l’espressione emozionale e ad auto consolarsi in modo eccessivo. Espressione di angoscia e rabbia vengono represse ed evitate e questo conduce all’esclusione di emozioni come paura, tristezza e dolore. Alla base della vita affettiva di questi bambini, e futuri adulti, vi è distanziamento affettivo, negazione dell’importanza delle relazioni, dei bisogni del sé e degli affetti negativi. Si tratta di adulti incapaci nel riconoscere i propri stati interni, che non hanno raggiunto consapevolezza personale dal momento che nessuno, quando erano bambini, ha riconosciuto tali stati emotivi e affettivi, favorendo il cammino di consapevolezza e autonomia. Si tratta di bambini che sono rimasti in attesa di uno sguardo materno mai giunto, e che per proteggersi hanno iniziato ad evitare relazioni.
- Attaccamento ambivalente\distanziante: i bambini, e i futuri adulti, tendono a mantenere il controllo nel contesto relazione con l’esasperazione di emozioni e affetti negativi, in modo da ottenere attenzione da parte del caregiver. Si tratta di bambini che pensano di non poter ottenere una risposta adeguata dal caregiver e che per questo accentuano le proprie sofferenze e i propri bisogni. Tale esasperazione, a cui segue la risposta ricercata e attesa, non li conduce verso un’autonomia regolativa emotiva. Sono soggetti incapaci di autoconsolazione ed esplorazione del mondo esterno.
- Attaccamento disorganizzato: il mondo affettivo del bambino è altamente contradditorio e frammentato. Si tratta di soggetti che vivono emozioni intense e sono soli nella loro regolazione, non hanno potuto apprendere alcun tipo di strategia nel contesto relazionale. Questo perché il caregiver è stato allo stesso tempo fonte di sostegno e protezione ma anche di paura e angoscia. Questo ha portato il soggetto a non acquisire una strategia di regolazione emotiva adeguata, avendo paura sia della vicinanza che della lontananza.
Quella che può essere, quindi, una mancata capacità nel contatto di affetti ed emozioni, che ci consente di creare relazioni significative e durature ha una sua spiegazione.
Questi modelli relazionali non devono essere intesi come qualcosa di immodificabile: la possibilità di far esperienza di contenimento, rispecchiamento e comprensione empatica aiuta nella rivisitazione di questi modelli, consentendo una loro resa maggiormente funzionale ed adeguata.
La risoluzione non sarà istantanea e spesso ci richiederà una dura messa alla prova, dove le emozioni potranno apparirci dirompenti, esplosive e incontrollabili, ma ci servirà tempo e maggiore consapevolezza personale.
Si tratta del famoso vaso di pandora: se siamo abituati a sopprimere le nostre emozioni, i nostri affetti, appena daremo loro modo di esprimersi tenderanno a fuoriuscire con tutta la loro dirompenza.
Allo stesso modo, se abbiamo appreso di poter ottenere attenzione, affetto, cura solo esasperando i nostri stati d’animo allora la loro regolazione, in termini autonomi, senza risposte esterne ci richiederà sacrificio e accettazione del dolore legato alla separazione dall’oggetto d’amore che non abbiamo mai realmente raggiunto.
Se abbiamo appreso che la rabbia è cosa brutta, così come la tristezza, e che piuttosto che provarle, accoglierle, contenerle e abbracciarle dobbiamo evitarle, sopprimerle e censurarle il percorso che ci porterà alla loro accettazione e al loro elogio sarà lungo e complesso.
Entrare in con-tatto con le nostre emozioni, assaporarle, accettarle ci richiede un abbandono di quelle che sono le dinamiche di ipercontrollo che solitamente adottiamo verso i nostri desideri e i nostri impulsi.
Ci richiede una piena sintonia con quella che è la nostra essenza più profonda, con la possibilità di una sua piena espressione.
Abbiamo il diritto di sentire ciò che sentiamo, abbiamo il diritto di esprimere quello che proviamo e solo dopo aver dato alle nostre emozioni la possibilità di esprimersi potremo ricercare una loro adeguata regolazione, che elude quello che è il pieno controllo.
Controllare implica una sorta di onnipotenza verso noi stessi e verso il mondo esterno, che ci limita nell’esprimerci in virtù di quelle che sono spesso imposizioni esterne che facciamo nostre.
Regolare le nostre emozioni ci consente di esprimerle, sempre, nel miglio modo possibile, in modo che non siano problematiche per noi e per gli altri senza però rinunciare alla loro affermazione.
Fabiana Manghisi
Tirocinante presso lo Studio Burdi
Laurea Magistrale in Psicologia Clinico-Dinamica
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GLI IMPULSI – Libertà di espressione
Quando pensiamo all’impulso siamo soliti pensare a qualcosa di negativo, incontrollabile e pauroso.
Qualcosa che ci mette a disagio perché, spesso, ci mette faccia a faccia con i nostri desideri più profondi e le nostre voglie taciute.
L’elemento di paura e distacco è dovuto dalla tendenza alla negazione dei nostri impulsi e dei nostri desideri.
Abbiamo imparato fin da piccoli che spesso poco importa ciò che vogliamo fare, pensare, ottenere; abbiamo imparato che importa ciò che ci si aspetta da noi; impariamo che per ottenere amore, approvazione, affetto dobbiamo cercare di eludere aspetti della nostra persona e della nostra volontà in modo da accontentare.
Questo ci porta spesso a non ascoltarci, ad essere sordi verso il nostro Sé profondo, ci porta a dar voce al nostro Sé apparente, che si è formato sulla ricerca dell’accettazione altrui.
Il Sé che indossiamo come maschera e che ci illudiamo ci rispecchi, che presentiamo agli altri e che cerchiamo di mantenere integro con tutte le nostre forze.
Per far ciò dobbiamo necessariamente mettere a tacere il nostro impulso e desiderio più profondo e vero; lo mettiamo lì in un angolo sperando di averlo imbavagliato al meglio.
Ma sappiamo che è lì, che trama e cuce anche se in silenzio. Sentiamo che sbatte i piedi come un bambino che chiede ascolto e attenzione.
Il bambino non ascoltato, prima o poi arriva ad urlare per dimostrare la sua esistenza. Così i nostri impulsi.
L’irruenza e l’incontrollabilità dei nostri desideri e impulsi deriva dal fatto che non siamo abituati ad ascoltarli e realizzarli, per aderire alle richieste altrui, che interiorizziamo e facciamo nostre.
Per paura di mostrare chi siamo davvero, cosa possiamo ottenere e dove, inevitabilmente, non possiamo arrivare evitiamo il contatto, l’esperienza e ci “accartocciamo” su noi stessi.
Se non ci imbarchiamo in eventi ed esperienze non possiamo rimanerne delusi ed evitiamo di esporci alla disapprovazione o alla costrizione di essere ciò che non siamo.
Tratteniamo tutto all’interno, non lasciamo fluire e ci ingolfiamo. Siamo tesi, arrabbiati, tristi… siamo pieni, pesanti.
La chiave, in questo, è la consapevolezza del diritto a poter essere chi scegliamo e vogliamo essere: essere consapevoli della nostra persona ci permette di capire le nostre potenzialità e i nostri limiti, inevitabili.
Ci permette di vivere senza la paura del fallimento, con la possibilità di dar voce alla nostra volontà e ai nostri desideri, che non sono quel bambino che scalpita e si dispera ma sono pozzo a cui attingere per la dimensione di piacere che dovremmo ricercare nelle nostre azioni e nei nostri progetti.
Ascoltarci e capirci non è cosa semplice. È sforzo continuo, è esercizio e tentativo.
Ascoltarci significa permetterci di sbagliare e di essere felici, arrabbiati, scontrosi, affettuosi. È dar vita a ciò che proviamo con una canzone, con un dipinto, con una lettera.
È creazione e creatività.
Siamo arte, se solo ci dessimo la possibilità di essere, senza la ricerca spasmodica di specifiche modalità di espressione.
Fabiana Manghisi
Tirocinante presso lo Studio Burdi
Laurea Magistrale in Psicologia Clinico-Dinamica
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I bordi della pizza – preservare i confini personali
Fin dai nostri primi momenti di vita, in quanto esseri umani, siamo posti in relazione con Altri, che sono per noi fonte di sopravvivenza.
Queste relazioni ci consentono di vivere perché tramite queste rispondiamo ai nostri bisogni essenziali, ma ben presto divengono molto di più: sono fonte di riconoscimento, amore, protezione, affetto e cura.
Divengono braccia che accolgono e mani che accarezzano.
Ma cosa accade quando la stretta dell’abbraccio è troppo forte e ci si confonde l’un con l’altro?
Cosa succede quando non ci viene permesso di differenziarci e di divenire un Sé pieno, saldo e coeso?
Giungono sentimenti di confusione, indefinitezza e colpa che sperimentiamo ogni qual volta cerchiamo di far esperienza del mondo che è oltre la stretta di quell’abbraccio.
Giungono quando ci rendiamo conto che siamo fusi con l’Altro, che ci ama, ma che allo stesso tempo non ci lascia liberi.
E vivere questa libertà diviene una colpa, che evitiamo convincendoci che in fin dei conti quell’abbraccio non è poi così stretto, che è un abbraccio necessario per proteggerci, per essere al sicuro. E rimaniamo lì, in un calore che sì è tale, ma che allo stesso tempo ci soffoca.
Vivere simbioticamente ci richiede la piena giustificazione per l’altro, la piena sottomissione dei nostri desideri e della nostra libertà per il mantenimento di una relazione conosciuta solo nei termini di un annullamento personale.
Sottrarsi a quell’abbraccio significa voltare le spalle e abbandonare l’altro, perché non conosciamo altra via per la relazione, perché è l’unica che abbiamo mai conosciuto.
Lo stato di fusione ci porta non solo a rinunciare a noi stessi, ma a caricarci di pesi, ansie, preoccupazioni che non sono nostri, che non ci appartengono e verso le quali dovremmo proteggerci.
È un modello relazionale che acquisiamo a partire da quando siamo bambini, nel nostro contesto familiare, spesso caratterizzato da confini flebili, in cui tutti i membri della famiglia sono coinvolti nelle vicende senza una piena differenziazione dei ruoli: il genitore amico che chiede aiuto al figlio per la risoluzione di un conflitto coniugale, il figlio come confidente di ansie e preoccupazioni.
Quello che apprendiamo è che abbiamo un ruolo salvifico per i nostri genitori e per l’intero sistema famigliare e se da un lato questo può essere motivo di adulazione personale dall’altro ci carica di una responsabilità che non sappiamo come gestire, che ci richiede la perfezione e l’onnipotenza.
Il processo di separazione e di individuazione fa parte del processo evolutivo che ci consente di divenire adulti: segna il passaggio da uno stato iniziale in cui non vi è differenziazione con la madre ad uno in cui si realizza un sé separato, autonomo, con la consapevolezza delle proprie caratteristiche individuali.
Essere consapevoli dei confini della nostra persona, guardarli e demarcarli non significa ergere un muro verso le persone per noi significative. Ponendo dei confini non stiamo abbandonando nessuno: ci stiamo proteggendo.
Vivere in un continuo stato di invischiamento è debilitante. Poniamo in secondo piano, se non terzo, la nostra persona, i nostri obiettivi, i nostri desideri.
Possiamo pensare ai confini personali come ad un recinto: stabiliamo noi l’altezza, stabiliamo quando deve essere aperto e quando chiuso.
Porre dei confini ci consente di guardare prima noi stessi, di sentire ciò di cui abbiamo bisogno in un dato momento e comportarci di conseguenza. Possiamo essere liberi di stabilire quali ansie e preoccupazioni ci appartengono e quali no.
Ci diamo la possibilità di arricchirci della presenza dell’altro, senza essere necessariamente e inevitabilmente sopraffatti. Questo significa essere anche maggiormente disponibili, riuscire a comprendere meglio proprio perché non si è in uno stato di confusione e indifferenziazione.
“Non è possibile vivere solo di problemi, ogni tanto è necessario anche voler mangiare una pizza insieme, distrarsi”: la dimensione della condivisione, del piacere della presenza dell’Altro è ciò che ci rende vivi, ciò he ci rende umani. Possiamo realmente goderne quando sappiamo chi siamo, quando sappiamo stare con l’Altro senza che questo significhi per noi perdita o sopraffazione.
Anche la pizza ha dei bordi, a volte sottili, a volte spessi. Ma ha pur sempre dei bordi.
Fabiana Manghisi
Tirocinante presso lo Studio Burdi
Laurea Magistrale in Psicologia Clinico-Dinamica
ContinuaIL NODO – Sciogliere i problemi con la consapevolezza.
Non poche volte, nell’attesa che le sedute inizino, la mia attenzione si è fermata su un pendolo di Newton ingarbugliato e messo sulla mensola più alta della libreria dello studio. Quasi nascosto, tra i trattati di psicologia e le opere di Carl Gustav Jung, dev’essere caduto più volte o è, forse, il risultato del nervosismo di qualche paziente. Comunque, per me è un simbolo: l’immagine dell’intervento della vita, sulle precise teorie della conservazione del moto e dell’energia, codificate dal citato fisico inglese.
I cavi delle palline sono annodati tra loro e bisognerebbe perderci un po’ di tempo, per risistemarli nella loro posizione originale e farne ripartire oscillazione e ticchettio. Mi perdoneranno i filosofi naturalisti, ma quel marchingegno per come sta combinato, appartiene ormai a tutt’altra scienza, quella che studia e permette il lavoro continuo, intimo e personale, a colui che ha scelto di intraprendere seriamente, il percorso psicoanalitico. Il viaggio dentro se stessi capace di individuare e sciogliere quei nodi che presente o passato hanno stretto da qualche parte, nell’anima, attraverso le vie della consapevolezza; l’unica strada che ci permette di guardare al limite, al blocco che strenuamente ci terrorizza, come occasione di libertà e rinascita; di accettazione e superamento.
Quella consapevolezza (cum-sapere), è il permesso che diamo a noi stessi, di considerare attentamente ciò che viviamo. Il punto più alto che risulta dalle coordinate della nostra coscienza e della conoscenza che ricaviamo dal mondo. Per questo motivo è un cammino orientato, uno studio senza sosta, un impegno preciso. Solo la consapevolezza spiega i nostri nodi per farceli, poi, districare. Essa impone un primo movimento, il primo passo della danza della nostra alba, è saper dare un nome a quel dannato intreccio, sempre scoordinato delle nostre attese, visto che piantarsi nella pace sconta sempre i solchi del dolore: dipendenze, nevrosi, paure, défaillances amorose e sessuali hanno tutte, alla radice, un nodo su cui il problema rivive nella memoria (come un nodo al fazzoletto) e detta a noi, continuamente, sentimenti ed emozioni (come un nodo in gola).
E più un nodo risulterà serrato, più avrà bisogno degli strumenti che soltanto terapeuta e analisi potranno fornire, nonché della pazienza di chi sa amarsi.
Ma non ci sono scorciatoie? Alternative? Un viaggio low-cost, un’offerta last minute, un’“all can you think”? Certo, su quelle che si conoscono, ne spiccano due, opposte tra loro, ma ugualmente deleterie.
- La soluzione alessandrina.
Come nel mito di Alessandro Magno, se un nodo non può essere sciolto, lo si taglia.
Risultato: ci si libera, ma non si ottiene il risultato desiderato. L’oracolo, nel mito, prometteva a chi scioglieva il nodo, il dominio assoluto e imperituro su tutte le terre dell’Asia. Alessandro si fermò all’Indie e morì giovane.
Applicazione pratica: affrontare il problema, seppellendolo in noi stessi, non lo risolve.
- L’opzione Flaubert (c’cang, mang. Tr.: chi muta, banchetta)
L’ultimo romanzo (incompiuto) di Gustave Flaubert si chiama Bouvard e Pécuchet (1881). Parla di due copisti che incapaci di gestire le loro difficoltà, non fanno altro che cambiare continuamente mestiere, rendendosi fallimentari (e ridicoli) in ogni attività. Ad un passo dal suicidio, decidono, dopo altri paradossali ingaggi, di tornare alla loro occupazione originaria.
Risultato: cambiar vita e abitudini non risolve i conflitti personali, anzi moltiplica solo i giri sul nodo scorsoio del rimorso.
Applicazione pratica: si perde più tempo nel distrarsi che nel diventare consapevoli.
Mentre scrivevo, spontaneamente mi è venuta in mente una canzone che ha come titolo: “Il nodo” (Raf-Pacifico), il ritornello recita: “Da lontano il nodo non cede per niente/un serpente che stringe e respira/anche quando mi nomini a mente si sente./Da lontano quel nodo non cede non molla/come colla ogni giorno più dura/anche quando mi nomini a mente si sente”.
Il nodo a cui viene fatto riferimento, ovviamente, dipinge momenti felici che non ci sono più, ma che continuano a rivivere nella mente dell’autore, in maniera imprevedibile. Nel nostro viaggio, potremmo trovare anche “nodi buoni” messi lì dagli eventi o da chissà quale addio. Forse, hanno la stessa irruenza dei nodi che contavano i marinai per definire la velocità delle navi e che oggi restituiscono a tutti, la forza dei venti. Ci sono nodi che vanno sciolti necessariamente e ci sono nodi che vanno tenuti così e che, forse, ci stanno indicando che la vita la stiamo solcando a una buona velocità. Quella vita che è nostra. Solo la nostra.
luca
ContinuaI PENSIERI INTRUSIVI
I pensieri ossessivi sono costituiti da idee, immagini o impulsi non volontari che si ripresentano più volte nella mente di un individuo; possono riguardare paure persistenti di venire feriti, paure irragionevoli di ammalarsi o ancora, eccessiva ricerca della perfezione.
I pensieri ossessivi possono essere paragonati a dei punti, piccoli, che quasi non vediamo ma che appena notiamo, concentrandoci, divengono sempre più grandi e imponenti. Sono pensieri “pesanti”, inabilitanti, che sottraggono energie e ci lasciano senza fiato.
Sono pensieri che ci riguardano e ci coinvolgono, quasi a sedurci con la loro litania e intrusività.
Ma cosa celano questi pensieri? E perché hanno così tanto potere sulla nostra mente?
Ci sottraggono dal peso della responsabilità di una decisione. Ci fanno sentire in balia dell’avvenire con alcuna presa sul mondo e sulla nostra vita; siamo una barca, in mezzo al mare, che naviga senza comando al timone.
I pensieri ossessivi ci permettono di non vedere tutto quello che chiede responsabilità: una separazione, un distacco, l’accettazione di un fallimento.
Sono pensieri che ci lasciano in uno stato di indefinitezza che lascia aperte tutte le possibilità senza che nessuna venga mai realmente compiuta.
Ma la nostra vita oltre che di pensieri è fatti di eventi che solo noi possiamo realmente concretizzare; ma per questo dobbiamo riporre fiducia nelle nostre risorse e nelle nostre capacità.
I nostri pensieri intrusivi non sono “noi”, non sono il nostro essere e la nostra essenza. Sono il miglior espediente che abbiamo trovato per far fronte al senso di colpa.
Ma l’espediente ci limita e non ci potenzia, ci deruba della nostra vitalità e delle possibili infinite vie di espressione.
Chi siamo realmente oltre i nostri pensieri? Ma soprattutto, chi vogliamo essere? Cosa scegliamo di essere per noi stessi?
La nostra più grande potenzialità è la scelta.
Ma è proprio la scelta, spesso, a spaventarci e a metterci all’angolo perché abbiamo paura di deludere, di deluderci; pensiamo di non essere abbastanza e di non essere capaci.
In realtà solo noi possiamo scegliere chi essere, come esserlo, come esprimerci e quando farlo. Si tratta della più grande ricchezza che possediamo e che dobbiamo solo scoprire prendendoci cura dei nostri limiti, abbracciando le nostre infinite risorse che consentono di riprenderci il timone, liberi di navigare nella direzione preferita.
Fabiana Manghisi
Tirocinante presso lo Studio BURDI
Laurea Magistrale in Psicologia Clinico-Dinamica
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