Il Caricabatterie
Il caricabatterie
Ci sono situazioni di apparente comfort, di volubile tranquillità, illusoria serenità che ci fanno schiavi incatenati ad una perversa finzione allucinatoria.
Sono situazioni che a occhio esterno parrebbero ovvie, schematiche, un due più due, una banconota da due euro, uno scherzo di poco gusto, ma quando è il sentimento a essere protagonista diventa difficile vedere nitidamente.
Intrappolati in una oasi nel deserto ci abbeveriamo delle nostre stesse allucinazioni, dissetandoci di acqua che altro non è che sabbia, ci immergiamo le mani, i gomiti, il viso e con la bocca la cerchiamo, convinti di riuscire a vederla, assaporarla, finiamo con il convincerci che c’è, finiamo con il dare forma, peso, altezza alle nostre allucinazioni.
Finiamo per dare un cuore, sentirlo pulsare, quando in realtà è solo il nostro a battere per entrambi, un cuore per due persone.. pensa a quanta fatica dovrebbe fare per pulsare per entrambi, per ossigenare entrambi, per dare la forza, il sostegno la vitalità a due corpi.
Spesso facciamo l’assurdo errore di scambiare il nostro cuore per un caricabatterie universale.
Ci incastriamo in situazioni sfidanti, in una partita di gioco d’azzardo dove il monte premi però è molto più basso del costo della partita. Reiterando le nostre mosse, perdendo e perdendo ancora, nonostante l’ovvietà. Nonostante qualche piccola vincita, la perdita è nettamente superiore.
È un errore questo, che spesso può accadere quando ci si ritrova ad avere a che fare con i sentimenti… ci incaponiamo con situazioni che non fioriscono, con energie che non vibrano, con melodie che stonano, in una modalità schizoide e saturante.
Perché mai un pianista dovrebbe voler suonare un pianoforte non accordato?
Potrebbe certamente provare ad accordarlo una volta, ma se non dovesse funzionare non si esibirebbe ai suoi concerti con quel pianoforte…
Eppure succede che anche quando ci rendiamo conto che un sentimento non funziona, ci incaponiamo, proviamo e riproviamo, ci facciamo male, ma non riusciamo a lasciarlo andare.
Sappiamo che non fa per noi, che ci sta scaricando, privando di energia, di luminosità, perfino quando il dolore ci sovrasta gli restiamo ancorati in una modalità psicotica.
Finiamo con il suonare e risuonare le melodie con note stonate, magari mettendoci anche dei tappi alle orecchie pur di non sentire il rumore assordante.
Ci mettiamo delle bende agli occhi per non vedere il marcio, tappi per non sentire il frastuono, e cerchiamo invano di far funzionare ripetutamente qualcosa che non va.
Quanto sarebbe più facile a questo punto lasciar andare tutto? Lasciar andare il macigno, sentirsi più leggeri, più in sintonia con se stessi, senza più dover cercare di ricaricare incessantemente un qualcosa che è destinato a scaricarsi in eterno?
Quanto sarebbe più facile smettere di sorreggere una costruzione traballante, essendo consapevoli che non appena saremo noi a staccare anche per pochi istanti una mano, questa inevitabilmente crollerà?
Come possiamo sperare di poter mantenere, ricaricare in eterno qualcosa che non ha la possibilità di autoalimentarsi o co-alimentarsi.
Quando si parla di sentimenti, legami, relazioni si parla di condivisione, di unione, di scambio, di vita, passioni, di reciprocità.
Un’unione presuppone equilibrio di forze, sinergia, nutrimento per entrambi, punti di incontro non imposti, un venirsi incontro spontaneo, una comunicazione sincrona.
Un caricarsi a vicenda, un posto in cui le energie ce le si scambia, ce le si dona reciprocamente.
Una relazione è a due, a due corpi, a due anime, a due forze.
Quando è solo uno che alimenta per due è un caricabatterie.
benedetta racanelli
tirocinante di psicologia
presso lo studio burdi
Il Dolore
Il dolore- dalla perdita, alla riappropriazione di se stessi
A chi non è capitato di dover affrontare un periodo molto difficile, intriso di dolore, accompagnato da situazioni che sembrano fuggire dalle proprie mani. In momenti come questo può capitare di sentirsi impotenti di fronte agli eventi, sentirsi passivi e vivere da spettatori gli avvenimenti per paura di affrontarli.
Ci si sente naufraghi della propria vita, sballottati dalle onde situazionali, a motore spento e solo con dei remi che non ci permettono di affrontare il mare in tempesta, in questa cornice ci si ritrova a naufragare in solitaria.
Ma in una cornice come questa il risultato può essere ambivalente, accompagnato da sfumature e colori a seconda della nostra risposta emotiva.
Il dolore può portare ad una solitudine primordiale, un contatto reale e viscerale con noi stessi. Ad un sentirci e pensarci pienamente, il dolore ci riporta a noi stessi, a sentire la nostra pelle, i nostri pensieri, il nostro essere, la nostra anima. Ci riporta ai nostri bisogni e ai nostri desideri.
Vivendo il dolore, al contempo, è possibile che ci si senta perduti, soli, impauriti, piccoli in uno spazio sconfinato e sconosciuto. Appare chiaro quindi che il risultato potrebbe essere quello di cercare salvezza all’esterno, negli altri.
Il dolore quindi può portare a creare dei legami salvifici, legami che potrebbero non avere delle reali basi, ma semplicemente bisogno di fuggire, di allontanarsi e scappare. Ci si ritrova a fuggire da noi stessi nel disperato bisogno e speranza che la fonte di dolore scompaia. E scappando ci aggrappiamo a qualsiasi cosa, persona, situazione. Ma il dolore lo portiamo inevitabilmente con noi.
Finiamo quindi col creare rapporti il più delle volte superficiali, di apparenza perché quello che stiamo realmente cercando si trova in noi stessi, ma la paura può renderci ciechi.
Sarebbe impensabile costruire una casa di legno da soli, senza fondamenta, senza travi, senza stabilità e trasferirsi volontariamente all’interno, vivremmo con il terrore che possa crollare da un momento all’altro, crollarci addosso.
La nostra anima è la nostra casa, le situazioni che viviamo, che scegliamo e non scegliamo, ci formano, ci costruiscono, ci modificano, nessuno di noi nasce e cresce con travi ferree, strutture incrollabili.
Quello che possiamo fare però è lavorare sulla struttura, possiamo affidarci, analizzarci, metterci in gioco, per co-costruire assieme il nostro palazzo,
Imparare come affrontare le situazioni più difficili, i momenti di dolore.
La terapia è ciò che distingue il modo di affrontare il dolore, l’analisi ci permette di porgere lo sguardo sull’impensabile, ci permette di trovare la forza in noi stessi per affrontare un uragano, per non crollare, per rialzarci. Ci permette di ristabilire il contatto con noi stessi, tornare a essere protagonisti della nostra vita, di entrare nel dolore, toccarlo, immergerci, analizzarlo e uscirci, con l’aiuto di un professionista che ci dona gli strumenti per poter ricostruire insieme le fondamenta della nostra anima, che potremo abitare per sempre, senza temere più che possa crollarci addosso.
benedetta racanelli
tirocinante di psicologia
presso lo studio burdi
Comunica
Comunica
Comunicare è riparare, proteggere, comprendere, mettersi e mettere in discussione. Comunicare risana.
La parola è possibilità di vedere il vero, di leggere dentro, il non detto separa ed avvelena, logorando le persone, svuotandole della loro individualità.
Il non detto lascia il posto allo stereotipo comunicativo, dove la persona crede fermamente di sapere già cosa l’altro voglia dire.
Si arroga il diritto di anticipare la conversazione nella sua testa, sclerotizzandone toni, modi, parole e dialoghi interi. Finisce che la relazione diventa il prodotto di una sola persona, vivendo la coppia, la famiglia, gli amici in un rapporto unicamente fine a se stesso.
Si perde il contatto con il reale, si parcellizza l’altro, si affievoliscono le emozioni, si creano muri cementati di separazione e individualismo.
Parlare è un atto d’amore, può trarre in inganno poiché in un primo istante separa, pone dubbi, getta benzina, infuoca le anime, ma fa sorgere domande, parole che sono ponte di collegamento per una connessione più consapevole, matura e reciproca.
Per una connessione di anime, di emozioni, di differenze digerite che portano significati, che regalano risoluzioni.
Comunicare è antidoto salvifico, è mettere in discussione i propri schemi per costruire case, luoghi accoglienti di condivisione.
Comunicare è famiglia.
È comprendere, lottare, volere. Le parole sono collegamenti, sono fondamenti per una evoluzione che accoglie e unisce. Che annienta le differenze, le ingloba in un modo tutto nuovo di essere presenti insieme.
Comunicare è apertura, è gioia, è sinergia, un innamoramento delle anime, che supera gli ostacoli, supera l’apparenza e trasforma.
È condizione inevitabile, è possibilità di slegarsi dal passato, di evolversi, di arrivare insieme oltre.
È voler trovare il modo, la strada, per una dimensione vera, familiare, nuova e in continua evoluzione e progressione.
Comunicare è espansione e concretizzazione del proprio io, del numero uno. Il numero uno incarna la nostra essenza, i nostri desideri, le nostre passioni, ma anche le nostre paure, traumi, verità necessarie.
Comunicare è incontro tra numeri uno, tra persone concrete, piene nelle loro risoluzioni, è fusione di essenze reali, fusione di compiutezza.
È abbracciare l’anima, la persona, le sue paure, distruggendo le distanze.
Comunicare è la possibilità di raggiungersi in una dimensione di accoglimento, condivisione e comprensione, amore.
benedetta racanelli
tirocinante di psicologia
presso lo studio burdi
Continua
Fallisci
Fallisci
Ci sono fasi della vita che attraversiamo tutti in cui ci sembra di fallire, ripetutamente.
In cui non troviamo la nostra via e ci sentiamo persi, soli. Vediamo solo buio intorno e non sappiamo come uscirne, come fare luce attorno a noi.
Cerchiamo di farci spazio tra le ombre dei nostri interrogativi, ma così come il buio non equivale a non luogo, il fallimento non è assenza di azioni.
Essere umani significa fallire. Questa semplice verità può essere difficile da accettare, soprattutto in un mondo che spesso celebra solo il successo e la perfezione. Che celebra il traguardo, il prodotto finito e decorato, impacchettato e pronto per essere mostrato. Una società che mostra il risultato, ma non la produzione.
Siamo continuamente bombardati dai successi di altri, un 30 e lode celebrato e festeggiato senza mostrarne il percorso, offuscando e nascondendo i tentativi, i pianti, i momenti di down.
La nuova auto comprata da un nostro collega, lucidata e parcheggiata accanto alla nostra, ma non vediamo i mutui, i momenti di risparmio, le indecisioni, gli straordinari ore tolte al divertimento e al tempo con i figli.
Vediamo la spontaneità e capacità del dottore nel condurre i gruppi, senza soffermarci sugli anni spesi di studio, tirocini, esami.
Abbiamo la possibilità di vedere solo un attimo, un momento di tutto il percorso che ognuno di noi attraversa nella vita.
Diventa quindi necessario, se non indispensabile, mostrare anche il percorso a volte, proprio per rendere più reale tutto quello che abbiamo attorno.
Ma cosa succede quando ci troviamo di fronte al fallimento, quando tutto sembra sbagliato e le nostre speranze svaniscono nell’abisso della delusione?
Il fallimento, per quanto doloroso possa sembrare, è una tappa indispensabile lungo il cammino e il conseguimento dei nostri obiettivi.
È proprio attraverso i fallimenti e i tentativi che impariamo le lezioni più preziose, che superiamo i nostri limiti e rafforziamo la nostra determinazione. Ogni errore, ogni passo falso, è un’opportunità per crescere, per diventare più forti, più saggi, più resilienti. Per progredire.
Spesso ci lasciamo sopraffare dalla sensazione di fallire, ci sentiamo impotenti, inadeguati, persi. Ma è proprio in quei momenti di buio che dobbiamo cercare la luce della speranza, della fiducia in noi stessi.
Il fallimento non è la fine del viaggio, ma semplicemente una curva sulla strada che stiamo percorrendo. È il segno che stiamo provando, che stiamo lottando per realizzare i nostri sogni.
È necessario perciò non temere il fallimento, non lasciare che ci blocchi. Ma accoglierlo come un compagno di viaggio, come un maestro che guida lungo il sentiero della crescita personale. Bisogna abbracciare i nostri errori e imparare da essi, per continuare a spingerci oltre i nostri limiti.
Il fallimento non è negativo, ma una parte essenziale della vita. È attraverso le sfide e le sconfitte che possiamo davvero apprezzare il gusto della vittoria, della realizzazione di sé stessi. È necessario quindi non arrendersi, non smettere di provare, di fallire. Perché ogni fallimento ti avvicina un passo in più al successo, alla felicità, alla realizzazione.
Fallisci più che puoi.
Benedetta Racanelli
tirocinante di Psicologia
presso lo Studio BURDI
Eva Contro Eva
Eva Contro Eva
E la rivalità tra donne
La rivalità femminile trova le sue origini direttamente all’ interno della relazione madre – figlia – padre. Essa rappresenta una negoziazione emotiva nascosta e silenziosa tra chi deve contendersi l’ oggetto amato dell’ unico uomo di famiglia.
La rivalità tra donne è generazionale, e viene tramandata di madre in figlia, essa può avere origini centenarie. Freud fa coincidere la sua formazione con l’ insorgenza del complesso di Elettra della bambina innamorata del padre, che vede nella mamma, la sua primaria rivale affettiva, sottrattrice di attenzioni.
La rivalità, dapprima, viene percepita come esclusione, dopo come abbandono, melanconia e se perdura, come depressione e rabbia. Le donne rivali hanno una base comportamentale tendenzialmente orientata verso l’ aggressività.
Animate da rancori ancestrali , protagoniste, come attrici da Oscar, di pettegolezzi maligni , perfidi sotterfugi hanno spesso come fine, di distruggere la Vittima, sminuirla , calunniarla attraverso una tale perfidia al punto tale da mettere in pericolo la rivale, ignara dell’ anima spregevole. Questa è l immagine della “ donna “ in competizione, attraverso la quale si compie il delitto del genere femminile che porta a legittimare la cultura del maschilismo .
Donne spietate , aggressive distruttive incapaci di creare legami autentici, sinceri e sani sia in famiglia che con amiche e colleghe.
Cosa spinge a tale rivalità ? Atteggiamenti quali il
prevalere, vincere la sfida, attraverso un continuo mettersi a confronto con madri, sorelle, amiche/ nemiche, colleghe ammirate , l’ obbiettivo reale della rivale è il suo tentativo di farti uscirne sconfitta.
Ciò che muove le “ donne in competizione “ e’ il loro vedersi perdenti già in partenza, in un continuo paragonarsi all’ altra. Tali “donne “perdono di vista il loro reale obiettivo e il loro “Se“, divengono macchine da guerra, donne contro Donne, esse sono il loro vero ostacolo, la loro vera minaccia viene rappresentata da lontane ferite di una mamma irrisolta, a sua volta aguzzina, che non ha saputo instaurare un legame positivo capace di rinforzare quella piccola donna che necessitava di manifestazioni di rassicurazione, approvazione e affetto.
In questo processo di rivalità tra le donne, prende un posto fondamentale l’ atteggiamento della madre. Una madre con attaccamento insicuro verso il suo padre conteso, manifesterà un attaccamento morboso verso il proprio compagno, tale da escludere la figlia. Questa esclusione avvia la formazione di quel processo di rivalità al femminile.
È l’ esclusione dall’ oggetto amato che scatenerà tra le due donne quella lotta chiamata ompetizione.
Quando assistiamo a certe dinamiche relazionali aggressive tra donne, apparentemente motivate, in genere, dovremmo poter pensare alla presenza di una forma di rivalità madre figlia a prescindere.
Una donna sposata reduce di una rivalità contro la propria madre, possiede una irrefrenabile tendenza di reiterarla verso la sua suocera, conflitto molto
dilagante e comune nelle nostre società. La rivalità viene agita e dispensata socialmente e ad ampio raggio, ogni volta che sia la figlia che la mamma competitor, relazioneranno con il mondo femminile. Verso di esso verrà proiettato un disagio originario sotto forma di aggressività passiva, diretta o indiretta, attraverso critiche, giudizi, pettegolezzi in triangolazioni e violenze.
Da qui una continua rivalità e aggressività, spesso non esternata in modo chiaro ed esplicito ma sottile di cui la rivale non ha coscienza di mettere in atto, spesso negata dinanzi all evidenza, si risolve in un continuo non fidarsi delle proprie presenze femminili, si trasformano in competizione e concorrenza persino verso un uomo. Gli uomini incastrati all’ interno delle rivalità femminili, sviluppano forme di evitamento, tradimento e fughe dalla relazione, con la conseguente difficoltà di credere in una relazione futura duratura .
Cosa assicura ad una “Eva contro Eva“ il superamento di una competizione patologica, assicurandosi la felicità ? La capacità di vedere il proprio problema nella sua origine, sciogliere i nodi con la madre, e affrontare una competizione sana , ricreando una solidarietà nel quotidiano con le altre Donne e di avere la consapevolezza di scegliere per se stesse degli obbiettivi da raggiungere , attuando una nobile e gioiosa cooperazione e divenendo in tal modo tutte eroine “Eva per Eva” , pronte a migliorare il mondo .
angela ciulla
ContinuaODI ET AMO
ODI ET AMO
Come è possibile che due emozioni così opposte, amore e odio, possano coesistere nello
stesso momento nei confronti della stessa persona?
Eppure accade, e attraverso questi incontri mi sono resa conto che è più comune di quanto pensassi.
Quando siamo piccoli guardando i nostri genitori pensiamo a dei “supereroi”, perfetti e
pronti con i loro super poteri a salvarci, a esserci per noi. Li vediamo come esseri invincibili,
che ci guidano e ci proteggono, insegnandoci le regole del mondo.
Ma cosa accade quando ci rendiamo conto che anche loro non sono poi così perfetti?
Che anche loro commettono errori, e sono proprio questi errori a farci sprofondare in una intricata spirale di affetto e rancore.
L’amore e l’odio sono due emozioni potenti, intrecciate in un perverso gioco di
contraddizioni quando si tratta dei nostri genitori.
Quando un genitore ci ferisce, non solo il dolore è profondo ma l’ambivalenza dei nostri
sentimenti diventa estenuante.
Li odiamo per il male che ci hanno causato, ci odiamo per i sentimenti che proviamo.. ed emergono i sensi di colpa, che tentano di sopprimere il negativo come se non avesse diritto a esistere.
Come se il provare certe emozioni sia scomodo o sbagliato. Attraverso la lettura di alcune lettere dei miei compagni, ho potuto sentire e vivere su me
stessa la lotta per la supremazia ed il controllo emotivo. Le parole diventano armi taglienti che si spezzano prima di ferire davvero.
Un susseguirsi altalenante di sentimenti, come montagne russe, in cui la parte più
vulnerabile di noi, il bambino interiore, si interroga sul perché, arrogandosi la possibilità ad
esistere.
Quell’agglomerato informe di emozioni diventa ad ogni parola sempre più comprensibile e
trasparente. Ogni parola, pensiero prende il suo posto all’interno della lettera, lo sfogo
urlato e intriso di ogni emozione possibile prende forma, liberandosi.. sento di poterlo
vedere assieme agli presenti nella stanza.. proprio li, al centro.
Questo cocktail di emozioni, di vicinanza e lontananza, amore e risentimento, rancore e
gratitudine supera i confini del nucleo familiare e della triade genitori-figlio per riversarsi
nella nostra vita privata e nelle relazioni interpersonali che instauriamo.. in particolare con
il partner.
Cosi le dinamiche di potere, i meccanismi di difesa, le modalità di comunicazione che
abbiamo appreso da piccoli si ripresentano, a volte in modo inconsapevole, nel rapporto di
coppia. Divenendo noi stessi i protagonisti della storia, rievocando attraverso gesti, modi e
vicende il nostro passato, quasi volendolo studiare e comprendere.
Così le ferite non rimarginate, le cicatrici assieme anche alle carezze e gli abbracci, si intrecciano in un complesso mosaico.
E imparare a riconoscere, accettare e superare questi legami profondi è la chiave per costruire relazioni autentiche, libere da condizionamenti e paure apprese, permettendoci di accogliere e armonizzare ciascuna sfumatura del nostro sentire.
Il cammino verso una relazione di coppia sana e vera passa inevitabilmente attraverso il
confronto con il nostro passato, con le nostre origini e con le radici familiari. Accettare le contraddizioni e le sfumature del rapporto con i nostri genitori ci permette di accogliere con più consapevolezza noi stessi e il nostro partner, di aprirci alla vulnerabilità e di costruire legami profondi.
Così, nell’amarli nonostante le ferite, nell’odiarli nonostante l’amore, scopriamo il nostro
vero io e iniziamo il cammino verso la nostra felicità e libertà emotiva.
Benedetta Racanelli
Tirocinante di psicologia clinica
presso lo studio Burdi
La Follia
La Follia.
La follia è una salvezza.
L’ordine, le regole, gli appuntamenti quotidiani, la routine incalzante ed opprimente.
I problemi da cui non si può fuggire, problemi grandi e problemi più piccoli. Un ritmo incessante di doveri e codici da rispettare, sembra quasi di soffocare.
Immersi in una nube di caos.. le regole, le difficoltà, la routine, i doveri ci annebbiano la vista. Ci rendono ciechi.. ci privano della nostra individualità. Della nostra essenza.
Così fra i mille impegni, giornate programmate nel dettaglio, meticolosi fino a sfiorare l’ossessione… ci perdiamo.
E più cerchiamo di ritrovarci riordinando, più ci sentiamo persi.
In momenti di oscurità profonda, dove il peso del mondo sembra soffocarci, la follia può emergere come un rifugio, come una forma di liberatoria ribellione contro la banalità e l’insignificanza dell’esistenza.
È un lampo seguito da un tuono, la nostra luce e la nostra voce.
La follia non è attesa, non è programmata, è un urlo liberatorio, una danza scatenata, una sfida alla normalità, un’enunciazione poetica della vita che sfugge ai codici predefiniti. È la voce interiore che si rifiuta di essere soppressa, la luce accecante in un mondo di conformità.
È proprio scardinando la normalità, sconvolgendo l’ordinario e rendendoci folli, che ci liberiamo.
E mentre ci scateniamo, balliamo, iniziamo a riordinare, a dare il giusto peso alle cose che prima, ci sovrastavano.
La follia ci fa esistere, ci fa vivere. Ci da la possibilità di farci sentire, nuovamente, da noi stessi.
Benedetta Racanelli
Tirocinante di Psicologia
presso lo Studio BURDI
Per fortuna che ci sono
Per fortuna che ci sono
A tutti noi sarà capitato almeno una volta nella nostra vita, di sentirci persi. Di non avere un posto, di brancolare nel buio.. di avere la sensazione che qualsiasi scelta sia sbagliata e non trovare la direzione giusta.
Come afferma lo psicologo Joan Borysenko, “La paura può essere descritta come un’emozione primordiale e potente. Quando siamo spaventati, possiamo sentire che il nostro senso di sicurezza è minacciato e il mondo sembra traballare sotto i nostri piedi”
In questi momenti, la sensazione che si prova di smarrimento è talmente opprimente da spingerci a cercare salvezza, spesso all’esterno.
Così ci si ritrova a cercare un appoggio, un punto stabile a cui ancorarci, senza renderci conto che il mare in tempesta siamo noi. E il mare non può affidarsi ad un ancora.
Ritrovare la speranza nel poter contare su se stessi è un processo che richiede coraggio e fiducia. È il riconoscimento che, nonostante le sfide e le difficoltà, abbiamo in noi stessi la forza di superare gli ostacoli e di costruirci un futuro migliore.
In questo modo la tempesta si calma, ma il mare conserva la potenza e l’infinità. Meno male che ci siamo noi per noi stessi.
A cura di Benedetta Racanelli,
tirocinante presso lo Studio di BURDI
Questione di Peeling
Questione di Peeling
“A titolo di esercizio, sarà bene separarci ogni tanto dal nostro viso, dalla nostra pelle, lasciare in disparte questo rivestimento ingannevole e, non fosse che per un attimo, deporre il cumulo di grasso che ci impedisce di discernere in noi il fondamentale.” Emil Cioran, Il funesto demiurgo, 1969.
Talvolta vivono un pò così. Isolati da ogni dubbio. Trincerati dietro gli occhiali del censore più’ inflessibile, del giudice più’ severo e del lamentoso più’ insaziabile. E raccontano di aver a cuore l’altro. Di aver fatto grandi numeri per lui. Ma quali grandi numeri? Erodono lentamente ogni possibilità di successo: pronti a trasformare ogni dettaglio della nostra vita in una salita ripidissima, ogni nostro errore in un peccato imperdonabile, e ogni nostra carenza in un fallimento catastrofico. Criticano continuamente di una critica perfetta. Ogni sorriso nasconde una piccola dose di veleno: “Credo che tu sia una persona sensibile e intelligente, con qualche difettuccio. Come tutti”. “Resti e resterai sempre la persona giusta più’ sbagliata che io abbia mai conosciuto”.
E si potrebbe andare avanti per ore lasciandoli scolpire la realtà secondo la loro visone, fino al momento del giudizio universale: giudicano e condannano con una tale sicurezza e forza da far sentire in errore chiunque, indipendentemente da come sono andati i fatti. Uno sguardo, una inclinazione della testa e si viene trascinati in un gioco di potere tipico di chi si sente l’esperto superiore. Esperto di che poi… non si sa. A noi è dato solo di zigzagare nei corridoi contorti della loro mente , nelle loro convinzioni statuarie e nei loro presunti miracolismi. Per fede. Perché non possono spiegare: “Certe cose le devi capire da sola! Cosi’ fanno le cose che funzionano”
E si…loro soffrono. Hanno sofferto, e la vita gli deve qualcosa. Le persone gli devono sempre qualcosa. Quantomeno una buona dose di compassione. E come scultori, danno forma alla loro posizione esaltata e mettono in ombra la nostra. Perchè il loro dolore è l’unico che abbia senso di essere ascoltato, inducendo, in tal modo, un tale senso di angoscia da non poter fare altro che aiutarli. “Insensibili”, ecco l’altro giudizio, arriva come una lama a scolpire ancora una volta l’immagine che abbiamo di noi. Forse trovano un certo senso di bellezza e soddisfazione nel lamentarsi continuamente. Il nostro dolore non esiste, non esiste per loro, è solo una giustificazione. Non è che lo ignorino, ma non si lasciano distrarre da parvenza di obiezioni: le questioni veramente importanti sono altre. Piuttosto soffermiamoci sulle mancanze che noi abbiamo prodotto. NOI? Proiezioni radicate dentro di loro, come una condanna a vita: pratiche abituali. E pensano che noi siamo cosi’, come loro. Pensano che li vogliamo fregare, e si sentono in diritto di transennare i nostri comportamenti, le nostre amicizie, i nostri affetti, di giudicare passaggi importanti della nostra vita, di giudicare addirittura la qualità del nostro dolore. Mentre, indisturbati, negando persino l’evidenza..
Il loro sguardo non perde mai un dettaglio, una sfumatura e vivono nella inarrestabile voglia di perfezione. Perché si dovrebbero accontentare di qualcosa di inferiore della perfezione? Il delitto perfetto si compie quando ci caricano di aspettative inducendoci a dare il meglio di noi, per raggiungere il loro standard straordinariamente alto e finalmente poter stare insieme.. E se durante il cammino sorge una qualche difficoltà…bhe….si rifiuta ….è sempre e solo qualcosa che non è all’altezza delle aspettative. Certamente non parliamo di aspettative irrealizzabili… solo un tantino alte: farli essere felici (come se la felicità fosse solo una loro ambizione). Parliamo comunque di una cosa che dipende solo da loro e dalla loro volontà di esserlo, e che pertanto costituisce per noi una aspettativa su di noi non facilmente realizzabile, ma non impossibile… Ci richiede solo una serie di obbiettivi che si spostano sempre un po’ più’ lontani e di azioni che ci faranno dare il meglio di noi. E poco importa quanto ci si sforzi, tanto ogni sforzo è inutile. Perché loro vivono sempre alla ricerca e mai completamente soddisfatti e nell’idea che le aspettative su di noi siano il minimo che noi si possa fare per loro. E non c’è bisogno di dire un grazie… perchè noi dobbiamo espiare le nostre colpe.
Che delusione!!! Neanche questa volta ci siamo riusciti. La delusione: il burattinaio delle relazione. Non c’è una volta che non l’abbiano lasciata trasparire. Non c’è una volta che loro non abbiano attivato un semaforo rosso. PUFFF! Spariti nel nulla, dispensando silenzi duri come. muri. Facendoci sentire in colpa. E cosi’… invece di vivere i nostri fallimenti relazionali, come degli idioti, al successivo arrogante semaforo verde, ci impegniamo a fare di più e meglio. Per noi non c’e’ niente di più’ motivante che la paura di perderli. Per noi, loro sono indispensabili. Fonte di approvazione. La loro delusione, come una spada di Damocle, e un dolore identitario per noi, una delusione che solo loro possono allontanare.
Il circolo vizioso: andate e ritorni continui. Il circolo vizioso che alimentiamo è un potente mezzo. Ma certamente non è come la raccontiamo, e non è colpa loro. Infondo stanno solo cercando di costruirsi una vita dallo standard elevato. E chissenefrega del resto!
Ci lasciano tutte le volte nello sgomento, senza una spiegazione, ma con una grande promessa: “il sospeso”. Torneremo: torneremo perché ci mancate, torneremo quando non avremo meglio da fare. Torneremo quando saremo scarichi o demotivati, torneremo quando avremo bisogno di abbandonare l’ennesima povera vittima, abbagliata dal fumo che vendiamo. Torneremo quando non vorremo rimanere soli. Per adesso andiamo, perché la nostra stima di voi è compromessa. Ma come, fino a due ore prima eravamo anime gemelle? Pronte a rivoluzionare il mondo insieme.
La stima di che? E soprattutto: perché avete bisogno ancora una volta di mostrarvi superiori? Eccolo là. Di nuovo il seme caduto che puo’ diventare pianta: il nuovo sospeso. L’ingresso per il prossimo arrogante semaforo verde.
Forse una maggiore consapevolezza dovrebbe tenerci lontani. Forse una maggiore onestà avrebbe dovuto tenerli lontani se ci giudicavano cosi’ pessimi.
La nostra è solo questione di peeling, invece la loro sembrerebbe una situazione sfuggita di mano, perché noi facciamo sul serio. Come le altre volte, ma meglio.
valeria carofiglio
ContinuaL’ Amore Non Ha Bisogni
L’ Amore Non Ha Bisogni
Non ho bisogno di un uomo per riempire la mia vita, la mia vita è già piena di me.
Se mi vuoi, ho il diritto di essere la tua prima scelta, non prendo le briciole di nessuno.
Non voglio essere scelta perché ti senti solo, non voglio avere la responsabilità di dare un senso alla tua vita.
Voglio che tu basti a te stesso e che tu mi scelga perché con me la tua vita è migliore, non perché sono l’opzione più facile, il tuo porto sicuro o perché hai bisogno di me.
Non sono il tuo appiglio, il salvagente indispensabile, voglio che tu sia capace di bastare a te stesso.
Ma se torni, voglio che tu lo faccia perché per te sono un valore aggiunto, non voglio essere necessaria, perché voglio una persona completa, capace di darmi valore e che sappia arricchirmi.
martina
Continua