La Famiglia del Mulino Nero
La famiglia disfunzionale: quando la famiglia nuoce al benessere mentale, è ora di distaccarsene.
Rompere con la famiglia è una decisione estremamente difficile e significativa, e dovrebbe essere presa solo dopo aver considerato attentamente tutte le circostanze e le implicazioni psicologiche. Ci sono situazioni in cui può essere giustificato da un punto di vista psicologico, ma queste decisioni dovrebbero essere ben ponderate e supportate da motivi validi. Ecco alcune situazioni in cui potresti considerare la possibilità di rompere con la famiglia da un punto di vista psicologico:
1. Abuso fisico o emotivo: Se sei vittima di abuso fisico o emotivo da parte di un membro della famiglia, la tua sicurezza e il tuo benessere psicologico devono essere la priorità. In questo caso, rompere i legami con il familiare abusante potrebbe essere necessario per proteggerti.
2. Negligenza costante: Se sei stato trascurato o abbandonato dalla tua famiglia in modo costante e cronico, questo può avere gravi conseguenze per il tuo benessere psicologico. In alcuni casi, potrebbe essere necessario allontanarsi per cercare un ambiente più sano.
3. Differenze irreconciliabili: Se hai profonde divergenze con la tua famiglia su questioni fondamentali come valori, credenze o obiettivi di vita, potresti sentire la necessità di allontanarti per preservare la tua salute mentale. Tuttavia, cercare prima di tutto una comunicazione e una comprensione reciproca è importante.
4. Dipendenza da sostanze: Se un membro della tua famiglia è coinvolto in un comportamento autodistruttivo o ha una dipendenza da sostanze che ti sta danneggiando psicologicamente, potresti dover stabilire dei confini per proteggerti.
5. Scelta personale: In alcune situazioni, potresti semplicemente scoprire che le dinamiche familiari sono troppo dannose per il tuo benessere psicologico e potresti scegliere di allontanarti per cercare una vita più equilibrata. Quando l’invadenza familiare minaccia il potenziale espressivo individuale o mina l’autostima, è giunto il momento di tagliare un cordone ombelicale altamente oppressivo.
Prima di prendere una decisione così drastica, è consigliabile cercare supporto psicologico da parte di uno psicoterapeuta o consulente. Questo professionista può aiutarti a esplorare le tue opzioni, affrontare le tue emozioni e sviluppare strategie per gestire la situazione. La terapia familiare potrebbe anche essere utile per affrontare i problemi all’interno della famiglia. Inoltre, considera che la rottura con la famiglia può avere conseguenze a lungo termine, quindi dovresti riflettere attentamente prima di intraprendere questo percorso.
Una famiglia tossica può avere un impatto significativo sul benessere mentale di un individuo. Rompere con una famiglia tossica o ridurre la loro influenza nella tua vita può essere una decisione difficile, ma può essere necessaria per il tuo benessere. Ecco alcuni passi che puoi considerare per liberarti dal peso di dinamiche familiari insane e migliorare il tuo benessere mentale:
1. Riconoscere il problema: il primo passo è riconoscere che hai a che fare con una famiglia tossica. Rifletti sulle dinamiche familiari e sul modo in cui ti fanno sentire. Identifica i comportamenti o le relazioni che stanno contribuendo al tuo stress o alla tua infelicità;
2. Crea confini sani: impara a stabilire confini sani tra te e i membri tossici della tua famiglia. Questo significa comunicare chiaramente i tuoi limiti e essere disposto a far rispettare questi limiti. Stabile un rifiuto categorico rispetto il dolore che una famiglia può indurre, è il presupposto salvifico per non lasciarsi assoggettare da una violenza psico-fisica tanto vicina quanto pericolosa;
3. Cerca supporto: cerca il supporto di amici fidati, terapisti o gruppi di supporto. Parlarne con qualcuno che comprende la tua situazione può aiutarti a gestire lo stress e a trovare soluzioni;
4. Lavora su te stesso: investi tempo ed energia nell’autocura. Un percorso di terapia può aiutarti a sviluppare competenze per affrontare lo stress e le emozioni negative. La meditazione, lo yoga o altre pratiche di rilassamento possono anche contribuire al tuo benessere;
5. Considera la distanza fisica: in alcuni casi, potrebbe essere necessario prendere una pausa fisica dalla famiglia tossica. Questo potrebbe significare trasferirsi in un altro luogo o limitare il contatto;
6. Prendi decisioni informate: prima di prendere decisioni importanti riguardo alla tua famiglia, rifletti attentamente e cerca consiglio da professionisti della salute mentale. Le decisioni drastiche come il taglio completo dei legami familiari possono avere conseguenze, quindi è importante farlo in modo ponderato;
7. Crea una nuova rete di supporto: cerca di creare nuove connessioni positive nella tua vita. Gli amici, i partner, e le persone che condividono i tuoi interessi ed un percorso di curapossono diventare una fonte di supporto e sostegno prezioso;
8. Lavora sulla tua resilienza: la resilienza è la capacità di affrontare le sfide e le avversità. Lavora su questa abilità per sviluppare una maggiore forza mentale e capacità di adattamento;
9. Accetta che non sei responsabile per gli altri: ricorda che non sei responsabile per il comportamento degli altri membri della tua famiglia. Ognuno è responsabile delle proprie azioni e scelte.
10. Cerca aiuto professionale: In situazioni estreme, potresti dover considerare l’assistenza legale o protezione legale se la tua famiglia tossica sta causando danni fisici o emotivi gravi.
Liberarsi da una famiglia tossica può richiedere tempo e sforzo, ma il tuo benessere mentale è prezioso. Cerca il supporto necessario e prendi decisioni che ti permettano di vivere una vita più sana e felice.
A cura di Maria Arancio,
tirocinante presso lo studio Burdi
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Primo contatto con lo psicoterapeuta
Primo contatto con lo psicoterapeuta: una chiamata che cambia la vita
La vita di ognuno di noi è considerabile come la somma di attimi determinanti; l’unione di scelte fondamentali che, sovrapposte, arrivano a delineare un percorso esistenziale unico ed irripetibile. Momenti decisionali volti a rappresentare strade intraprese con coraggio, svolte radicali di una personale ricerca identitaria: la decisione di intraprendere una terapia è uno di quegli istanti cruciali, l’occasione che avvia un percorso di cambiamentoresponsabile prima, e la volontà di portare avanti attivamente gli effetti derivati da questo proposito poi.
Arrivare a contattare un professionista è, a tutti gli effetti, il primo passo da compiere verso il percorso terapeutico: ciò implica il riconoscimento esatto, da parte del paziente, di uno stato di sofferenza ingestibile a cui può porre rimedio solo il supporto di un esperto. La prima telefonata allo specialista, mossa entro un clima confusionale, determina quel passaggio obbligato verso l’incerto, volontà di una richiesta d’aiuto non più marginale, appello, in sostanza, di un dolore che vuole essere ascoltato e compreso nella sua totalità.
L’inizio di un percorso terapeutico è l’incontro di due mondi e visioni differenti; si attiva così un processo in cui si passa da uno stato di estraneità reciproca all’essere “compagni di viaggio”.L’iter che sancisce l’avvio di questa relazione terapeutica sembra essere scandito da tappe significative che spiegano bene il delicato equilibrio su cui regge, almeno inizialmente, un percorso di cura:
1) Disorientamento: il primo contatto verso il terapeuta nasce da un profondo malessere personale a lungo irrisolto, e dalla sola consapevolezza di tale sofferenza insopprimibile si decide di rivolgersi ad uno specialista. L’individuo, nell’esplicitare la richiesta d’aiuto, vivrà comunque uno stato di incertezza che lo accompagna verso l’ignoto, nella speranza che il bisogno di cura potrà essere accolto in modo soddisfacente dall’estraneo;
2) Anticipazione: la ricerca del miglior terapeuta muove da aspettative importanti, da un intrinseco bisogno di cambiamento personale, per tanto la scelta del profilo ideale verterà su aspetti ritenuti importanti dal paziente: chi detiene maggiori esperienze e titoli o chi infonderà, con il suo approccio empatico, maggior fiducia e senso di accoglienza. Riportando ciò nel setting terapeutico è importante, nel porre le fondamenta di un cammino psicoterapico, che sia il terapeuta che il cliente prendano le misure, imparando a conoscersi vicendevolmente al di là delle reciproche aspettative, ciascuno nell’ambito del proprio ruolo all’interno della relazione. In base alla compatibilità tra cliente e terapeuta si creerà un’alleanza particolare, tradotta nella capacità, da parte dei due componenti della diane terapeutica, di collaborare in vista di un obiettivo comune;
3) Prima rottura nel rapporto terapeutico: ogni relazione significativa implica confronti che conducono ad una crescita evolutiva necessaria; così il rapporto terapeutico, magari fin dalla prima seduta, comporta scontri derivanti da opinioni differenti o resistenze alla cura proposta difficili da sottrarre. La saccenza del paziente dovrà venir meno rispetto le direttive imposte dallo specialista, che saprà come meglio orientare e sviluppare quelle risorse interne all’individuo, nell’ottica di un efficace percorso di cambiamento pensato e strutturato su misura. Se l’instaurarsi di un’iniziale soddisfacente intesa tra cliente e terapeuta rappresenta un elemento fondamentale; è altrettanto importante che esista un buon grado di accettazione e rivalutazione delle proprie credenze da parte del paziente, ben disposto rispetto una futura dialettica terapeutica che potrebbe esprimersi in confronti duri ed accesi, sempre tesi allo sviluppo delle proprie potenzialità evolutive;
4) Abbandono e fiducia nella cura: il paziente, dopo aver preso coscienza dei propri limiti e della possibilità reale di un miglioramento curativo, deporrà gradualmente ogni possibile opposizione al trattamento. L’abbandono ottimistico alla terapia e il senso di accoglienza emanato dal professionista determinano la fiducia di un rapporto sano, la cornice ideale dove mettersi in crisi e riscattarsi dal malessere originario. In sintesi, il terapeuta dovrebbe essere in grado di comprendere il vissuto doloroso del paziente e, contemporaneamente, di proporgli una differente esperienza di sé nella relazione terapeutica; in questo modo si origina una nuova visione del mondo e la terapia diviene strumento di effettivo cambiamento. La premessa di fondo, ciò che spinge ad intraprendere e perseguire un percorso terapeutico, è quindi il desiderio di mettersi in gioco, a nudo, per superare il senso di insoddisfazione attuale e conseguire un futuro migliore.
La relazione terapeutica, in tutta la sua evoluzione, si dispiegherà concretamente su una dinamica rischiosa per il paziente: il cambiamento è desiderato, ma anche temuto, perché implica il modificare le proprie abitudini e il modo di rappresentare la realtà utilizzato fino a quel momento. Lottare attivamente contro le proprie reticenze, schiudersi alle infinite possibilità della vita, accettarsi ed esser pronti a mettersi in discussione, in modo profondo ed autentico, annuncia la risoluzione positiva, la rivoluzione di un rapporto che si fa cura e amore senza bugie.
“Il terapeuta è chiamato ad essere, per il paziente, strumento per contattare il diverso, il nuovo, che, una volta conosciuto, non fa più tanta paura; solo così la vita si apre a nuovi scenari e possibilità.”
Sintesi a cura di Maria Arancio
tirocinante di Psicologia Clinica presso lo Studio Burdi
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Relazioni Apatiche
Relazioni apatiche: quando l’indicibile diventa crisi
La quotidianità frenetica, l’evoluzione di situazioni e il sopraggiungere di nuove dinamiche, spesso, diventano fattori determinanti che minano l’equilibrio di coppia, gli stessi su cuiinnalzare delle barriere di comunicazione: ma quali sono le vere motivazioni per cui una relazione amorosa entra in crisi? Da una più attenta analisi, le ragioni che scaturiscono una rottura interna alla coppia sembrano essere le seguenti:
1. l’evoluzione e il cambiamento di uno solo dei due partner: una relazione non rappresenta affatto un’entità statica ed immutabile, e testimonianza di questa continua dinamicità che investe il rapporto risiede anche nel cambiamento, magari repentino e radicale, dei propri bisogni individuali; se però cambiano in due direzioni opposte o magari in momenti diversi, può capitare che la variazione stessa non venga accolta positivamente come sfida evolutiva, bensì come minaccia all’apparente stabilità raggiunta, sradicando definitivamente la fragile armonia su cui reggeva la coppia;
2. la rottura del patto implicito: l’unione di due individui pare inizialmente fondarsi sulla base di alcune “condizioni” che non vengono dichiarate apertamente, ma restano “non dette, implicite, date per scontate”, corrispondenti ad un personalissimo immaginario amoroso che non troverà alcuna applicazione nel reale. Ci si aspetta dall’altro che si comporti in un dato modo, si nutrono dei desideri silenziosi, che se vengono disattesi portanoinevitabilmente alla crisi di una relazione per nulla appagante;
3. mancato svincolo dalla famiglia d’origine da parte di uno dei due partner: di frequente si assiste ad un’interferenza importante della famiglia originaria all’interno della vita della coppia, che ne invade confini, libertà decisionale e privacy. La coppia stessa, priva di autonomia dinanzi il fardello di una presenza assai ingombrante, finirà col subirne le conseguenze rovinose;
4. eventi troppo stressanti: misurarsi nel quotidiano con accadimenti impetuosi quali malattie, motivi economici, luttisignifica rapportarsi con difficoltà concrete, capaci di richiedere un nuovo e complesso assetto di coppia, spesso irraggiungibile;
5. sindrome da trascuratezza della coppia: l’assenza di stimoli e una routine poco entusiasmante imprigionano la relazione in un’apatia stagnante, che fa della confort zone la morte di ogni tentativo di gioco e passionalità gratificante. La coppia, nella propria comoda abitudine, regredisce alla luce di una fallimentare disonestà dialogativa.
A quali sintomi è bene prestare attenzione, prima che sia troppo tardi? Tendenzialmente al termine crisi viene comunemente data un’accezione negativa, dimenticando l’opportunità di cambiamento, di evoluzione e di crescita che ogni crisi, invece, implica nella sua carica eversiva.
Ogni coppia attraversa nella sua storia diversi momenti di crisi: saperli riconoscere e indagarne le cause, farà si che la relazione ne tragga reale beneficio evolutivo, sintesi per altro di una gestione adulta e consapevole dell’implacabile divenire che determinano bisogni e sentimenti individuali in movimento.
Momenti di crisi, in genere, subentrano non solo dal verificarsi di un unico evento scatenante, pensiamo per esempio alla nascita di un figlio o alla perdita di un genitore di uno dei due partner, maanche dalla concomitanza e dalla complessità data da più fattori, determinando una difficoltà nella relazione che perdura nel tempo, a cui la coppia non trova le risorse o gli strumenti adeguati per far fronte, cosicché ogni mossa relazionale intrapresa naufraga dinanzi una robusta criticità, avvertita sempre più come impossibile da risolvere.
Ognuno gioca, infatti, all’interno della propria relazione un ruolo cruciale di cui deve avere piena responsabilità come coprotagonista attivo; viversi il rapporto con l’altro tenendo conto della propria unicità, salvaguardando un sistema personale di gratificazione così come i propri desideri e le proprie ambizioni, lasciando che queste trovino libera espressione anche nella forma di un valore aggiunto per l’altro.
La trasparenza nel rapporto è la chiave di una buona relazione: l’incomunicabilità d’altro lato, l’appiattimento della propria singolarità per adeguarsi ad uno standard di coppia poco rappresentativo, consegnare all’atro un’immagine fittizia per timore di guardarsi dentro, determinerà il lento epilogo di un rapporto falsato che sopravvive di occulto, strascichi di memoria e apatia avvilente.
Un accanimento terapeutico nei confronti di quello che può ben definirsi “malato terminale”. Il calo del desiderio sessuale, l’apatia, possono essere sintomi di un rapporto d’amore ormai finito?
Il desiderio sessuale è, a tal proposito, un indicatore da non sottovalutare circa la salute della coppia stessa. Nel corso del tempo, la relazione di coppia si trasforma, i bisogni e i ritmi di vita cambiano e muta anche l’equilibrio sessuale: una relazione viziata finirà con l’attribuire normalità ad un’insoddisfazione e una repressione sessuale ormai cronicizzata; l’astinenza passionale indebolirà ancor più la coppia, divenuta contenitore – trappola di convivenza e convenienza rispetto a tutto ciò che è inconfessabile.
Il sesso, quindi, può essere una conseguenza di una difficoltà comunicativa nella coppia, o ancora se la relazione diventa teatro di conflittualità o estraneità, diventerà certamentedifficile aprirsi a uno scambio così intimo come quello sessuale.
Un sentimento, al contrario, capace di mettersi in discussione e accogliere il valore del dubbio e il significato della crisi, volto ad una sincerità comunicativa imprescindibile saprà vivere, anche, di rapporti sessuali autentici. Di entusiasmo che trova risposta in un’intimità che ne imita l’energia e la voglia propulsiva.
Se due partner si trovano a vivere un momento di crisi, è il momento di fermarsi ad ascoltare, capire cosa accade fino in fondo, quali pensieri ed emozioni emergono dal confronto interiore e con l’altro, dando quindi un senso al proprio vissuto.Umanizzare il rapporto significa anzitutto comunicare con il partner, farsi vedere e lasciarsi guardare nella propria verità, comprendere i suoi bisogni, esprimendo allo stesso tempo i propri.
Laddove la conflittualità è troppo accesa, il rapporto da solonon ha gli strumenti per farvi fronte. Occorre allora saper chiedere l’aiuto di un terapeuta della coppia, che possa aiutare i partners ad approfondire le motivazioni che hanno portato alla rottura, il ruolo che ciascuno ha avuto nel determinare la situazione attuale e per capire se e come sia possibile aiutare la coppia a rilanciarsi verso la ripresa di una relazione sana e autentica, che riporti benessere sia nella propria vita individuale sia nella relazione stessa, o lasciare che la separazione dall’altro abbia finalmente avvio, apportando un nuovo significato esistenziale positivo, tutto da esplorare.
Maria Arancio
Tirocinante di Psicologia
presso lo Studio Burdi
Nel Nome, c’è un Disegno di Vita
«Lo sai, il nome che si porta significa molto. Sai anche che ai malati spesso si dà un nuovo nome per
guarirli, perché col nuovo nome essi ricevono anche una nuova essenza. Il tuo nome è la tua essenza.»
(C.G.Jung – Libro Rosso, p.282)
Dare il nome, avere un nome: rientra tre le scelte più piacevoli demandate ai futuri genitori, a cui
seguono le consuete fantasie legate all’aspetto, carattere e individualità del nascituro. Una decisione
certamente impegnativa, che spesso coinvolge il cuore e la mente dei futuri genitori, portatrice
dell’importanza che cela il significato del nome proprio.
“Nomina sunt omina”: i nomi sono gli uomini. Così gli antichi latini fissavano in origine il concetto per cui i
nomi non sono attribuiti alle cose per pura convenzione, ma hanno un rapporto profondo e misterioso con le cose stesse.
Alla base della scelta del nome, diversi sono gli elementi che conducono all’individuazione dello stesso: alcuni genitori danno maggior rilevanza al significato del nome; per altri è predominante il suono; per altri ancora l’originalità; per molti, ancora oggi, il vincolo rispetto la tradizione familiare risulta
imperativo.
Il suono
“I suoni che abitano dentro di noi, il nome con cui ci chiamano e chiamiamo noi stessi può influenzare
profondamente la nostra salute e il nostro modo di essere. “Raffaele Morelli – Ciascuno è perfetto,
Mondadori 2004, p.65-66)
Il filone della Bioenergetica non ha dubbi: ogni essere umano vive la propria identità ed il suo respiro
anche in rapporto al nome con cui viene chiamato: se il bambino viene chiamato con il suo nome di
nascita, questo diverrà una struttura stabile ed immutabile, sintesi identitaria per eccellenza.
Ogni nome si compone di vocali e consonanti che corrispondono a suoni dotati di particolare risonanza
energetica in specifiche parti del corpo.
Una corrispondenza particolare risulta dal suono vocale del proprio nome, responsabile di stimolare un’apertura respiratoria che inconsciamente attiva echi affettivi ed energetici diversi in base alle vocali emesse. Più approfonditamente: le vocali “A, O, U” toccano gli organi più profondi, muovendo vibrazioni connesse alla gioia ed al piacere della vita, mentre le vocali “E, I” , investono le zone del torace e la testa, promuovendo energie connesse al coraggio ed alle attività mentali.
Tradizione
Il nome come ricordo di un personaggio illustre, deposito di una gloria storica da emulare, o rievocazione di una memoria più vicina, un affetto familiare, un amico scomparso prematuramente.
Portare nel nome il prosieguo di una persona amata o la fama di un’esistenza insigne è un’usanza assai
comune nel nostro paese.
Questa propensione può da un lato portare presagi positivi e augurare al nascituro una vita ricca come quella di cui si fa, involontariamente, carico, ma dall’altro potrebbe innescare processi di identificazione inconsci, minando l’autostima e l’individualità del bambino, intrappolato così nelle vesti, e nel nome, di qualcun altro. Dare il nome dei propri avi significa inserire nel nome piccole immagini ereditate, perpetuare nel ricordo di ciò che è stato e mai più sarà, con il rischio di reiterare un copione familiare destinato a tramontare.
Originalità
Sono molteplici gli studi inerenti i nomi e la loro influenza, su come gli stessi forgiano la vita e le relazioni di chi li indossa nel quotidiano. Una ricerca alquanto particolare sostiene come le persone che
possiedono un nome molto originale vengano ricordate meglio.
Questi nomi potrebbero anche
contribuire ad una maggiore popolarità.
Dare un nome unico ai nostri figli potrebbe essere un incentivo a rinforzare la propria individualità. Il
nome, in questo caso, diverrà quindi molto più che un semplice identificativo. Al contempo bisogna
riflettere anche su un potenziale rovescio della medaglia: non sempre la stravaganza potrebbe risultare gradita a chi la porta non avendola scelta. A farne i conti risultano infatti quei bambini con un’indole più insicura, vittime di una svalutazione rispetto un nome poco rappresentativo, tanto dal fargli avvertire un “difetto” di personalità.
Che nome scegli?
La scelta più giusta allora, la migliore a compiersi, dovrebbe essere quella dettata unicamente dal cuore,
priva di retropensieri, forte nel dono di un’identità che si realizzerà nel tempo in massima unicità: quel
nome che diviene la parola preferita. Conoscere, pronunciare e ripetere il nome come fosse una poesia:
da stringere quando si ha paura, lo si grida quando si è felici, lo si sente quando ci si è persi. Il suono
preferito chiama la persona preferita, irripetibile nel mondo. Lo schiudersi di una nuova essenza, il
battesimo di una storia tutta da vivere e accogliere.
Sintesi a cura di Maria Arancio
Tirocinante di Psicologia Clinica
presso STUDIO BURDI
L’intimità è un incontro tra nudità.
L’intimità è un incontro tra nudità.
Se vogliamo intraprendere relazioni più significative, è importante interrogarsi sulla propria storia, volgere uno sguardo al passato e mettersi in gioco per sanare le ferite dell’infanzia. Solo l’attribuzione di un significato reale al dolore di esperienze passate potrà limitare le influenze insane che sopraggiungono nel presente e faciliterà stabilire forti e sani legami di unione con chi ci circonda;
Stanare i fili conduttori che trasportano i nostri messaggi emotivi permetterà di avere una maggiore consapevolezza degli stessi, consentendo di avere una gestione più adulta delle nostre reazioni; Essere coscienti dei filtri emotivi che applichiamo, dei rivestimenti e delle corazze che indossiamo contribuisce, inoltre, a renderci abili lettori e interpreti tanto dei tentativi di connessione degli altri come dei nostri;
Denudarsi significa ammettere le proprie mancanze, e comunicare i nostri limiti ci aiuta a rigenerare i pensieri e il nostro benessere generale. Impegnarsi in un processo di autocoscienza migliorerà la prospettiva da cui osserviamo e ne gioverà il nostro dialogo interno. La vera essenza di ognuno, l’interiorità che veicola i nostri comportamenti e gesti più manifesti, è colma di verità taciute, perfino a noi stessi. L’incontro più intimo tra due persone non è quello puramente sessuale, è il nudo emotivo.
Uno scambio possibile laddove decidiamo di farci conoscere così come siamo, in tutte le nostre sfaccettature, nonostante le vulnerabilità, malgrado il timore che si compie nello spogliarci di ogni falsa apparenza. Rivelarsi nell’abbattimento di ogni presunto perfezionismo, di ogni costruzione difensiva: denudarsi in favore dell’autenticità.
Nuda e cruda.
Non è facile riuscirci. Di fatto, il nudo emotivo non si innesta con facilità né con chiunque. C’è bisogno di tempo, coraggio e voglia di ascoltare attivamente, sentire e abbracciare le emozioni nella loro ambivalenza. Autocoscienza ed etero-coscienza, ovvero conoscere noi stessi e la realtà dell’altro in modo empatico.
Solo allora, allo scoperto di ogni nascondiglio e sotto la luce di una verità liberatoria, sapremo metterci a nudo nelle passioni, nei sentimenti e nella nostra storia emotiva. Il nudo emotivo comincia da noi, richiede la nostra volontà, la spinta nell’affidare paure inconfessabili e fiducia
nell’abbandono di ogni resistenza. Mettere a nudo la nostra emotività inizia da noi stessi, dall’accettazione dei nostri limiti e di ogni presunta svalutazione che ne deriva. Distaccarsi dall’idea di ciò che sia più meritevole mostrare all’altro, occultando quegli spigoli caratteriali avvertirti come sgradevoli e sconvenienti: consegnare un’immagine integra non ridimensionabile, quindi, unicamente al bello, forte, tonico e smagliante che vive in superficie. Evitare di rivelarsi alla stregua di una vetrina, sulla scia di un’inconsistente appariscenza e nel prevalere di un senso di vergogna bloccante. Questo vuol dire muovere, anzitutto, da una ricerca onesta di tipo personale.
Molto importante sarà identificarsi con i propri sentimenti, rendersi conto delle emozioni positive e negative che ci investono, gestirle al servizio dei nostri pensieri. Ascoltarci, connetterci e conoscere la nostra eredità emotiva; esplorare la nostra mente ed il corpo è imprescindibile per dar sfogo alle nostre paure, i nostri conflitti, le insicurezze, i successi, i desideri.
Conoscere a fondo il nostro bagaglio emotivo, sondare le nostre debolezze, essere coscienti di quello che ci fa male e lasciar correre è irrinunciabile per poter contemplare da vicino l’immagine proiettata dal nostro specchio emotivo, priva di censure e maschere autosabotanti.
Essere coscienti delle nostre vulnerabilità emotive non le farà scomparire, ma avere una consapevolezza più profonda di esse implica che ogni volta che compariranno nella nostra vita, potremo identificarle e agire su di esse, impedendo che affoghino i nostri legami affettivi. Sentirsi liberi nell’espressione, oltreché di capire, contestualizzare e interpretare sensazioni puramente umane.
La nostra eredità emotiva ha un forte impatto sulla nostra capacità di connetterci emotivamente con il prossimo. È proprio questo bagaglio, questa seconda pelle, la parte più autentica del nostro essere. L’empatia e la connessione con i sentimenti dell’altro ci aiuta a crescere come persone e ci dona la capacità di costruire relazioni sane e durature.
Esporsi al nostro vissuto emotivo fatto di ricordi e sensazioni contrastanti, riconoscere le proprie fragilità e imparare a mettersi a nudo nonostante le contraddizioni più accese, è consigliabile per molteplici ragioni:
Non è facile mettere a nudo una persona ferita; sarà necessario combattere contro gli abiti che le rendono inaccessibili, contro le disillusioni che le avvolgono, le paure del rifiuto, dell’abbandono, della solitudine…
Per farlo, è necessario essere intelligenti, amare la persona e ascoltare, aprire gli occhi e la propria pelle, lasciando da parte i pregiudizi e l’attitudine a valutarne comportamenti in modo prettamente superficiale. Vuol dire, quindi,
rispettarne i tempi, cogliere ogni possibile tentativo di apertura, apprezzarlo ed innescare uno scenario emotivo ideale basato in primo luogo sull’ascolto empatico e sull’intelligenza emotiva. Un ambiente rilassato in cui si potenzia la comunicazione e la comprensione con una solida base di rispetto e tolleranza.
Avere un puro incontro intimo equivale così a mettere a nudo le paure, scoprire le insicurezze e svestire tutte le emozioni di cui siamo capaci nella loro verità. Solo allora vivremo di quegli abbracci che rompono le paure e svelano i nostri occhi, nel sodalizio di una connessione che diviene un tutt’uno nel corpo e nello spirito, con e per l’altro.
Sintesi a cura di Maria Arancio
Tirocinante di Psicologia Clinica
presso Studio BURDI
Fame di Vita
La vita, si sa, è un percorso intricato straordinario. Vi è chi, forse mosso da una maggior consapevolezza o spinto da un’inspiegabile esuberanza, è in grado di vivere anche i momenti più
critici come vere e proprie occasioni di crescita personale; sfide colte come tramite di
conoscenza di sé, strumenti necessari per l’attualizzazione delle proprie risorse, ma anche per consolidare le basi in ottica di una prospettiva futura di gioia, quasi si trattasse di un azzardo verso la felicità.
Una promessa presente di riscatto e sicura prosperità. Si tratta di persone che
vivono l’esistenza nella sua pienezza, nelle sue asperità più crude, nelle sue vivaci contraddizioni e nei suoi estremi, talvolta pungenti, senza precludersi alcunché, senza decretare giudizi di valore troppo occludenti su ciò che capita nel loro personalissimo vissuto.
Quel che colpisce di questa attitudine famelica rispetto la vita sono la forza, la costanza, la
perseveranza di nell’affrontare i disagi e le sofferenze, come a farsi indole personale di tenacia, urlo di resistenza attiva e motivo di stupore per chi ritiene quelle medesime condizioni inaccettabili.
Cosa c’è di diverso, dunque, in coloro che fanno di questa felice ribellione uno stato d’animo prevalente nel fronteggiare le sfide della loro esistenza? Cosa celaquell’ inesauribile energia vitale, quell’attaccamento alla vita tanto ostinato quanto invidiato?
Ogni persona ha la propria storia, un vissuto originale che intesse la trama di espedienti, ricordi e carico emozionale irripetibile. A determinare una differenza sostanziale in un tipo di approccio positivo alla vita è quella capacità, apparentemente ignorata e schernita dai più, frutto di un lavoro incessante con se stessi: la volontà di saper accettare con gratitudine tutto ciò che si presenta, al di là del bene e del male, con una vena di dolcezza e compassione quali antidoto emotivo alle avversità.
Sperimentare personalmente il naufragio di ogni opposizione rispetto gli imprevisti dolorosi che riserva la quotidianità provoca un cambio di prospettiva radicale; si gode delle piccole cose e ci si abbonda con sano ottimismo alle sorprese della vita, rinnegando con convinzione la percezione di sé come vittime inermi dinanzi la tempesta.
Si balla perfino sotta la pioggia battente: un bell’esercizio di fiducia, una lotta contro la staticità di un percorso che sembra
prestabilito ma che vede nel nostro divenire protagonisti, un’azione irrinunciabile. Un inno, un impulso essenziale vigoroso.
Aver fame di vita, brillare di luce propria in modo intenso equivale anche a dare un significato reale ai proprie sentimenti, inglobare ogni tipo di emozione, senza timore di vivere la paura, attraversarla invece, coglierla nel profondo delle sue tenebre.
Potrà sembrare paradossale, ma dietro ad essa si nasconde un’immensa voglia di vivere. Spesso l’ansia, così come altri disturbipsicologici, appaiono esclusivamente come sintomi negativi di un malessere psichico insondabile;
ciò che rivelano, in realtà, è proprio questa pulsione vitale, tanto potente da spaventarci,
difficilmente gestibile ma fonte primaria ed autentica di felicità.
La nostra mente lavora così per scuoterci dalle fondamenta, per risvegliarci alle vibrazioni della vita, con l’intendo fondamentale di farci comprendere che stiamo escludendo dalla nostra esistenza qualcosa di cui abbiamo assolutamente bisogno. La necessità inespressa di un desiderio represso, una sessualità insoddisfacente, sentimenti che non trovano una sana manifestazione, voglia di libertà, modi particolari di essere, obiettivi non raggiunti, e altro ancora.
Trasgredire dinanzi a chi tenta di manipolare le nostre scelte o sradicare ogni tentativo di
autosabotaggio: accettarsi e compiacersi di ogni limite, nell’ottica curativa di apporre
cambiamenti reali nella nostra vita. Prenderne in mano le redini, sfoggiare il sorriso più bello solo perché grati di poter provare e sentire sulla pelle, nella mente, quell’insensata voglia di vita che tutto comprende. Quella fame che altro non è che appetito e riconoscenza per la vita, per noi stessi. Per la cura,
Sintesi a cura di Maria Arancio
Tirocinante di Psicologia Clinica
presso STUDIO BURDI
Stare Solo È Un Dono Da Apprezzare
Non mi senti, anche se urlo.
Ti ripeto da troppo tempo che ho bisogno di te, ho bisogno delle tue attenzioni.
Nel tempo ti ho mandato troppi segnali e sinceramente non capisco come sia possibile che non ti accorgi che ho bisogno che tu volga lo sguardo verso di me.
Inizio a pensare che tu non creda in me, forse credi che io non esista.
Ma davvero pensi di essere solamente tu e i tuoi pensieri superficiali?
Davvero credi che i tuoi amici e le persone che ti circondano, siano tutto il tuo mondo?
Ora, io conosco qual é la tua paura più grande… hai paura di sentirti solo.
Da quanto tempo ti sto chiamando!? In ogni modo. Ogni segnale che il tuo corpo ti ha mandato, beh, ero io che ti tendevo una mano per chiamarti.
Non sei solo. Io sono con te in ogni momento. La solitudine, come tu la intendi, non esiste, perché sentirsi soli ed Essere soli, non sono la stessa cosa. Se sei solo e ti senti solo vuol dire che non credi che io esista.
Io sono te e tu sei me. Io vivo dentro di te, per questo non potrai mai sentirti solo. Dovrai solo imparare a conoscermi e imparare a metterti in contatto con me. Quando lo farai, comprenderai la grandezza che c’è dietro il sapere che non c’è nessuno al mondo che potrà farti sentire completo e incondizionatamente amato come me.
Sai chi sono? Sai come trovarmi? Sono il tuo IO superiore e la solitudine è la mia casa, solo li potrai trovarmi.
Io conosco tutte le leggi che regolano il mondo e l’universo, Io sono l’universo e tu puoi attingere a questo sapere, solo se ti rivolgi a me.
Depressione, malattie croniche, rabbia, herpes, frustrazione, ossessione, dipendenza, tumore, le chiami malattie, ma non lo sono. È il mio unico modo per chiamarti quando volgi il tuo sguardo a cose che con la loro superficialità ti fanno perdere per strade che ti portano lontano dal tuo destino, che solo io posso conoscere.
Il tuo destino è di Essere e l’unica strada che ti ci potrà portare è imparare ad avere fede in me.
fulvio leandro
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Ghosting
Sparire dall’ l’altro, Fuggire da sé.
Lo scenario in cui viviamo, dominato da una profondo senso di inquietudine, assenza di punti fermi ed equilibri precari, sembra convalidarsi anche a livello interpersonale con altrettanta veemenza: la nostra è l’epoca delle relazioni “mordi e fuggi”: tormentate, irrisolte, fugaci, alimentano un vuoto esistenziale tanto radicato quanto evidente.
Legami affettivi inconsistenti fanno di partner che appaiono e scompaiono una modalità comportamentale più che mai frequente. Seduttori che conquistano e abbandonano ripetutamente; uomini che cercano, si concedono e poi si dileguano rapidamente e con presunta facilità.
Questo atteggiamento viene definito Ghosting e correla una serie di problematiche legate ad aspetti di insicurezza, egocentrismo, scarsa empatia ed immaturità.
Il Ghosting è una modalità in prevalenza che si traduce nell’incapacità di stringere rapporti significativi con il prossimo: nella brusca sparizione, nell’irruente dualismo presenza-assenza, emerge quel “NO, non sei tu la mia casa”. Non mi assumo la responsabilità di stringermi affettivamente a te, di conoscerti approfonditamente. NON permetto di insinuarti nella mia vita.
Il fenomeno comportamentale, che distingue un ‘carnefice’ narcisista ed anaffettivo ed una ‘vittima’ umiliata, dipendente emotivamente, lascia intravedere tutte le sfumature psicologiche di una fragile ricerca personale volta ad un inverosimile desiderio di appartenenza, che non trova mai sano nutrimento. Relazioni strumentali fungono spesso da compensazione dinanzi un’esplorazione identitaria che spaventa e da cui si fugge.
Il Ghosting è letteralmente il diventare fantasmi, sparire da un giorno all’altro inaspettatamente, interrompendo ogni forma di comunicazione senza lasciare alcuna motivazione, sulla scia di un’incredula indifferenza. Questo accade anche nel momento in cui, apparentemente, la conoscenza appare in evoluzione.
Per comprende a fondo la dinamica del Ghosting, basterebbe osservare da vicino le caratteristiche psicologiche delle ‘prede’ che subiscono il doloroso abbondono:
1) un soggetto tipo è colui che nelle relazioni tipicamente si nasconde: per timore di perdere il prediletto, evita di mostrarsi. Occultandosi, l’altro avrà l’impressione di interfacciarsi con qualcuno assente, lontano e impalpabile. Pertanto il partner non faticherà ad andare via, scomparendo;
2) diametralmente opposta ma altrettanto vittima, è colei che si sveste di ogni amor proprio per disperdersi in un eccesso di disincantata spontaneità, ingenuità, fiducia e generosità. La facile conquista avverrà tramite parole ammalianti, volte a far breccia su aspirazioni amorose non corrisposte. Il triste epilogo, anche in questo caso, culminerà con la tragica e improvvisa scomparsa dell’adorato: il piacere di una seduzione fine a se stessa, finalizzata al sesso, priva di un reale intento di relazione.
3) altra dinamica disfunzionale, altro ghosting facilitato: quando si cerca di trattenere chi non ricambia i nostri sentimenti, e ci resta vicino solo per dovere. Questo genere di responsabilità obbligata, spoglia di effettivo desiderio, si estinguerà nelle medesime modalità sopra descritte, piegando la vittima ad un languido e marcato senso di colpa e solitudine.
Una casistica, dunque, ampia e variegata quella in esame, in cui il fattor comune risiede nell’insana propensione a giudicarsi meritevoli del trattamento subito. Si avviano così, attraverso mille interrogativi auto recriminanti, manifestazioni ruminative di auto-rimprovero, rimorso o rammarico, fino addirittura a dolorose forme di auto-punizione: cosa ho di sbagliato, e cosa ho sbagliato? Perché è scomparso? Come avrei potuto conquistare davvero l’amato?
La descrizione dell’atteggiamento che assumiamo quando subiamo l’abbondono non deve tralasciare, tuttavia, le intenzioni del partner che fa Ghosting, un’anima inquieta che suo girovagare opportunista sta cercando dimora. Un porto sicuro a cui sente di voler approdare, come presunta soluzione ai suoi implacabili tormenti interiori. Una ricerca insaziabile, destinata pertanto al fallimento.
In sostanza, il fantasma del ghosting fa della fuga una forma di rifiuto decisa. Nel brusco dileguarsi si rigetta la proposta di una relazione invivibile, il non aver trovato la propria casa. Per chi ne è succube, invece, la rinuncia è spesso inaccettabile; il rifiuto accompagna generalmente il giudizio negativo di chi si sottrae all’impegno, come per preservare il proprio dolore.
Difronte il vissuto traumatico del Ghosting, è importante un lavoro terapeutico volto all’accettazione: comprendere di non potersi imporre come casa al prossimo, scrutare da vicino la propria sete d’amore, indagare le motivazioni profonde di chi sceglie di indossare la forma evanescente di un fantasma irrisolto, smascherarsi coraggiosamente
Sintesi a cura di Maria Arancio
Tirocinante di Psicologia Clinica presso STudio BURDI
La Regia
LA REGIA
IL MITO DELLA CAVERNA
Alcuni anni fa, Philip K. Dick scrisse: “la realtà è ciò che non scompare anche se smetti di crederci”. Ma come possiamo essere sicuri che ciò che osserviamo sia la realtà? Dopotutto, gran parte di ciò che sperimentiamo è il prodotto della nostra percezione ed è mediato dalle nostre esperienze interne.
Circa 2.400 anni fa, Platone propose lo stesso dilemma e cercò di spiegarlo attraverso il mito della caverna, Platone-Repubblica, 514 a-517 a (parla Socrate in prima persona, il suo interlocutore è Glaucone): un gruppo di uomini condannati alla nascita a rimanere incatenati nelle profondità di una grotta. Non riuscirono mai ad uscire da essa, e neppure ebbero la capacità di guardare al passato e capire l’origine delle catene o vedere cosa succedeva dietro di loro, fuori dalla caverna. guardavano solo le pareti della caverna. Ogni tanto, davanti all’ingresso della caverna passavano altre persone e animali. Gli uomini incatenati potevano solo vedere le loro ombre e sentire gli echi, che venivano proiettati sulle pareti della caverna. I prigionieri percepivano queste ombre e gli davano dei nomi, credendo di percepire cose reali, poiché non erano consapevoli che si trattava solo di proiezioni della realtà. Tuttavia, un bel giorno, uno dei prigionieri viene liberato. Questi esce alla luce, ma il sole lo acceca, scopre che tutto ciò che lo circonda è caotico dal momento che non riesce a dargli un significato. Quando gli spiegano che le cose che vede sono reali e che le ombre sono solo riflessi, non può crederci. Finalmente si adatta e decide di tornare alla caverna per raccontare al resto dei prigionieri la sua fantastica scoperta.
In un certo senso, una parte di noi sono quei prigionieri incatenati nella caverna. Una parte di noi si sente a proprio agio con gli stereotipi e le credenze familiari, con tradizioni che ci fanno sentire al sicuro. Quando vediamo un raggio di luce che ci costringe ad analizzare queste cose da un’altra prospettiva, abbiamo paura e possiamo comportarci come i prigionieri, negando la nuova realtà.
Tuttavia, abituato alla luce del sole, i suoi occhi hanno ora difficoltà a distinguere le ombre nel buio, così il resto degli uomini incatenati credono che il viaggio all’esterno lo abbia reso stupido e cieco. Pertanto, non gli credono e si oppongono ad essere liberati, ricorrendo anche alla violenza.
È vero che i cambiamenti di paradigma possono generare paura, perché ci tolgono i parametri di riferimento facendoci mettere in discussione alcune delle credenze che abbiamo sempre considerato verità assolute, ma se desideriamo veramente crescere, non dobbiamo afferrarci a nessun modo assoluto di vedere il mondo, dobbiamo aprirci al flusso di idee e prospettive nuove.
Liberarsi dalle catene, quando queste continuano a tenere legati gli altri, è di solito un processo emotivamente complesso. Non è facile ribellarsi quando c’è una dinamica sociale consolidata di cui facciamo parte da molto tempo.
Alan Watts disse che: “la maggioranza delle persone non solo si sentono a proprio agio con la loro ignoranza, ma sono ostili a chiunque gliela faccia notare”. È la stessa idea che Platone ha cercato di trasmettere con il suo mito, infatti, non dobbiamo dimenticare che alcune delle sue idee sono state considerate troppo pericolose per lo status quo dell’epoca e gli causarono più di un problema.
A volte trascuriamo questo dettaglio, quindi cerchiamo di illuminare le persone con la nostra conoscenza, ma quelle persone non sono pronte ad assimilare la nuova prospettiva. Le porte della mente non si possono spalancare entrambe in un attimo quando sono rimaste chiuse per un lungo periodo di tempo, perché potremmo persino esporci a una reazione violenta. La soluzione non è arrendersi, ma aprire gradualmente dei piccoli varchi.
Platone-Repubblica, 514 a-517 a (parla Socrate in prima persona, il suo interlocutore è Glaucone):
(…) In séguito, continuai, paragona la nostra natura, per ciò che riguarda educazione e mancanza di educazione, a un’immagine come questa. Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza della caverna, pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo, sí da dover restare fermi e da poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d’un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo questa pensa di vedere costruito un muricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini.
-Vedo, rispose.
-mmagina di vedere uomini che portano lungo il muricciolo oggetti di ogni sorta sporgenti dal margine, e statue e altre figure di pietra e di legno, in qualunque modo lavorate; e, come è naturale, alcuni portatori parlano, altri tacciono.
– Strana immagine è la tua, disse, e strani sono quei prigionieri.
– Somigliano a noi, risposi; credi che tali persone possano vedere, anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta loro di fronte?
– E come possono, replicò, se sono costretti a tenere immobile il capo per tutta la vita?
– E per gli oggetti trasportati non è lo stesso?
– Sicuramente.
– Se quei prigionieri potessero conversare tra loro, non credi che penserebbero di chiamare oggetti reali le loro visioni?
– Per forza.
– E se la prigione avesse pure un’eco dalla parete di fronte? Ogni volta che uno dei passanti facesse sentire la sua voce, credi che la giudicherebbero diversa da quella dell’ombra che passa?
– Io no, per Zeus! rispose.
– Per tali persone insomma, feci io, la verità non può essere altro che le ombre degli oggetti artificiali.
– Per forza, ammise.
– Esamina ora, ripresi, come potrebbero sciogliersi dalle catene e guarire dall’incoscienza. Ammetti che capitasse loro naturalmente un caso come questo: che uno fosse sciolto, costretto improvvisamente ad alzarsi, a girare attorno il capo, a camminare e levare lo sguardo alla luce; e che così facendo provasse dolore e il barbaglio lo rendesse incapace di scorgere quegli oggetti di cui prima vedeva le ombre. Che cosa credi che risponderebbe, se gli si dicesse che prima vedeva vacuità prive di senso, ma che ora, essendo più vicino a ciò che è ed essendo rivolto verso oggetti aventi più essere, può vedere meglio? e se, mostrandogli anche ciascuno degli oggetti che passano, gli si domandasse e lo si costringesse a rispondere che cosa è? Non credi che rimarrebbe dubbioso e giudicherebbe più vere le cose che vedeva prima di quelle che gli fossero mostrate adesso?
– Certo, rispose.
– E se lo si costringesse a guardare la luce stessa, non sentirebbe male agli occhi e non fuggirebbe volgendosi verso gli oggetti di cui può sostenere la vista? e non li giudicherebbe realmente più chiari di quelli che gli fossero mostrati?
– È così, rispose.
– Se poi, continuai, lo si trascinasse via di lì a forza, su per l’ascesa scabra ed erta, e non lo si lasciasse prima di averlo tratto alla luce del sole, non ne soffrirebbe e non s’irriterebbe di essere trascinato? E, giunto alla luce, essendo i suoi occhi abbagliati, non potrebbe vedere nemmeno una delle cose che ora sono dette vere.
– Non potrebbe, certo, rispose, almeno all’improvviso.
– Dovrebbe, credo, abituarvisi, se vuole vedere il mondo superiore. E prima osserverà, molto facilmente, le ombre e poi le immagini degli esseri umani e degli altri oggetti nei loro riflessi nell’acqua, e infine gli oggetti stessi; da questi poi, volgendo lo sguardo alla luce delle stelle e della luna, potrà contemplare di notte i corpi celesti e il cielo stesso più facilmente che durante il giorno il sole e la luce del sole.
– Come no?
– Alla fine, credo, potrà osservare e contemplare quale è veramente il sole, non le sue immagini nelle acque o su altra superficie, ma il sole in se stesso, nella regione che gli è propria.
– Per forza, disse.
– Dopo di che, parlando del sole, potrebbe già concludere che è esso a produrre le stagioni e gli anni e a governare tutte le cose del mondo visibile, e ad essere causa, in certo modo, di tutto quello che egli e i suoi compagni vedevano.
– È chiaro, rispose, che con simili esperienze concluderà cosí.
– E ricordandosi della sua prima dimora e della sapienza che aveva colà e di quei suoi compagni di prigionia, non credi che si sentirebbe felice del mutamento e proverebbe pietà per loro?
– Certo.
– Quanto agli onori ed elogi che eventualmente si scambiavano allora, e ai primi riservati a chi fosse più acuto nell’osservare gli oggetti che passavano e più rammentasse quanti ne solevano sfilare prima e poi e insieme, indovinandone perciò il successivo, credi che li ambirebbe e che invidierebbe quelli che tra i prigionieri avessero onori e potenza? o che si troverebbe nella condizione detta da Omero e preferirebbe “altrui per salario servir da contadino, uomo sia pur senza sostanza”, e patire di tutto piuttosto che avere quelle opinioni e vivere in quel modo?
– Così penso anch’io, rispose; accetterebbe di patire di tutto piuttosto che vivere in quel modo.
– Rifletti ora anche su quest’altro punto, feci io. Se il nostro uomo ridiscendesse e si rimettesse a sedere sul medesimo sedile, non avrebbe gli occhi pieni di tenebra, venendo all’improvviso dal sole?
– Sì, certo, rispose.
– E se dovesse discernere nuovamente quelle ombre e contendere con coloro che sono rimasti sempre prigionieri, nel periodo in cui ha la vista offuscata, prima che gli occhi tornino allo stato normale? e se questo periodo in cui rifà l’abitudine fosse piuttosto lungo? Non sarebbe egli allora oggetto di riso? e non si direbbe di lui che dalla sua ascesa torna con gli occhi rovinati e che non vale neppure la pena di tentare di andar su? E chi prendesse a sciogliere e a condurre su quei prigionieri, forse che non l’ucciderebbero, se potessero averlo tra le mani e ammazzarlo?
– Certamente, rispose. […]
(Platone, Opere, vol. II)
Ho trovato queste parole di una straordinaria efficacia e, soprattutto, di una straordinaria attualità, eppure appartengono a millenni fa!
Leggendole mi è parso semplice fare una riflessione.
Vi sono comportamenti che sovente ripetiamo, quasi sempre inconsciamente, nel tempo e che paradossalmente hanno quale unico scopo quello di replicare, come in un’opera teatrale vista e rivista mille volte, come <<disco rotto>>, con una pervicacia cronica situazioni, dinamiche e circostanze che spesso conducono all’unico risultato di produrre sofferenza, un serial killer nascosto dentro di noi che dirige la regia di un film il cui epilogo è sempre lo stesso: il nostro massacro.
La domanda che ci si pone per avere risposta al perché di una tale condizione non arriva e solo apparentemente continuiamo a porci seriamente. Eppure, situazioni similari continuano a riproporsi nella nostra vita.
Tutto questo fino a quando persino la sofferenza ha toccato il fondo e ci costringe a fermarci ed a soffermarci sull’unica verità che conti: che siamo proprio noi a custodire quella risposta, anzi, e per meglio dire, a nasconderla per paura di guardare in faccia la vera fonte di tanto dolore.
Chi si nasconde veramente dietro le persone a cui noi consentiamo di farci del male persino quando loro non lo vogliono o non se ne rendono conto o sono semplicemente se stesse nella loro incommensurabile ma inconsapevole sciatteria e pochezza umana ma che senza rendersene conto hanno intercettato il nostro tallone di Achille andando a toccare quella piaga che per ragioni inspiegabili non si è mai rimarginata?
E’ questo il momento in cui siamo scoperti, siamo in trincea, ma soldati nudi, senza armi, senza elmetto, chiaro bersaglio del nostro nemico interiore, privi di comando, pronti solo a morire. Il re è nudo!
Al cospetto di una simile, terrificante, immagine di sé c’è solo una soluzione, credetemi non ve ne sono altre! Occorre fermarsi interiormente, conquistare il proprio tempo e cominciare lo scavo.
Iniziare a scavare è solo l’inizio di un viaggio nelle tenebre più profonde del proprio essere dove tante immagini si aggirano confuse, mostruose e minacciose, rese tali anche e soprattutto dalla nostra mancanza di volontà nel volerle riconoscere, identificarle, dare loro un nome e cognome, affrontarle, materializzarle.
Ma tu sei forte, fortissimo e scavi e scavi, con le mani, nude anch’esse, che si distruggono a sangue, ti fermi, respiri, ti arrendi ma qualcosa ti dice che vuoi guardare in faccia il tuo mostro, i tuoi mostri. Hai paura, tanta, sudi per la fatica dello scavo, per la paura dell’ignoto che ti aspetta, per le conseguenze di questa decisione che ti cambierà la vita ma non sai in che modo, bene, male, peggio! Chissà! In cuor tuo sai che le conseguenze di questa decisione saranno epiche e difficili da gestire e la domanda inconfessata: <<ne sarò capace?>>; <<sarò capace e forte abbastanza per affrontare i conflitti che ne seguiranno>>; <<saprò difendermi>>, <<in fondo subire è meglio che affrontare la battaglia!>> A volte, troppo spesso, non voler sapere è meglio perché ci sottrae alla guerra, al conflitto ed alla scoperta di ciò che siamo, dei nostri limiti: <<ce la farò ad affrontare la guerra?>> ed intimamente ti dici: <<no!, non ce la farò>>. E lo scavo si arresta. Questa è la vera sconfitta. E le repliche si ripetono, il <<disco rotto>> ricomincia e tu senti che stai scoppiando, nella tua vita nulla va per il verso giusto, sei avvilito, affranto, sconfitto, appunto! Ma in mezzo a questo mare in tempesta l’istinto di sopravvivenza ti riporta a prendere respiro e ci riprovi, questa volta con più determinazione e decidi di prendere il toro per i coglioni!
La conclusione di questa ricerca non è tanto ciò che trovi ma il non demordere mai dalla ricerca e, soprattutto, nell’individuare il <<disco rotto>> e fare appello a tutte le tue energie per interrompere quella musica che non sopporti più, come in un film dell’orrore perché il vero obiettivo diventerà riconoscere quel disco rotto ogni volta che si ripresenterà. A quel punto, forse, e dico forse, non ti interesserà più avere l’identikit che ti causa malessere, che ti costringe a subire ciò che ti schiaccia quanto cambiare musica ascoltandone una nuova, quella della tua bellezza interiore, nella Libertà e nella Luce del tuo Essere!
Non potrai dire ancora di avere vinto perché quello sforzo dovrà essere rinnovato ogni volta che quel meccanismo si ripresenterà ma avrai scoperto qualcosa di fondamentale: di avere la forza per affrontare il mostro che si nasconde dentro di te perché ciò che ci circonda non è bello o brutto in sé ma il modo in cui noi lo vediamo e lo affrontiamo.
“Possiamo perdonare un bambino che ha paura del buio. La vera tragedia della vita è quando gli uomini hanno paura della luce”
– Platone –
Laura C.
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