La favola del topolino esploratore e il coniglio del vuoto
La favola del
topolino esploratore e il coniglio del vuoto
C’era una volta un topolino bianco che aveva vissuto tutta la vita rinchiuso nella sua tana. Il topolino sognava di poter fuggire e diventare un esploratore e quando finalmente riuscì ad uscire egli era affamato di esperienze.
Passava di lì un coniglio blu che si mostrò subito disponibile a dargli una mano.
I due ebbero tante avventure insieme: viaggiavano per il mondo e quando vedevano qualcosa di interessante il topolino si inseriva nei pertugi più stretti per recuperare oggetti e leccornie per il suo nuovo amico.
Quando però capitava che il topolino non riuscisse a recuperare l’oggetto del desiderio del coniglio, questo si arrabbiava e metteva il broncio dicendo: “tu non sei un vero amico, non mi vuoi bene”.
Allora il topolino sentendosi in colpa si rimboccava le maniche e cercava di accontentare in eccesso il suo “amico”.
Così facendo però le richieste del conuglio divennero sempre più egoiste, non gli bastava più un seme, una bacca o una foglia particolare, voleva una carota intera, un cappello e una tana calda. Il pelo del topolino da candido divenne grigio e spento, l’entusiasmo e la gioia per essere finalmente uscito dalla tana iniziarono pian piano a svanire, vi si sostituì un vuoto in cui l’unica cosa che si scorgeva erano le catene che il coniglio aveva lì posto.
Il topolino voleva liberarsene ma allo stesso tempo non voleva perché non avrebbe avuto più nessuno a guardarlo come il coniglietto. Venne però il giorno in cui, rispecchiandosi in uno stagno, il topolino vide com’era diventato e come accanto a sé l’altro non c’era. Prese tutta la sua energia, spezzò le catene, lasciò un messaggio nella notte e sparì.
Vani furono i tentativi del coniglio di riappropriarsi del topolino, questo era ormai lontano, correva libero, candido, pronto a conoscere il mondo per davvero.
Domenico De Palma
[Il secondo racconto è ancora in fase di stesura, o meglio di esser vissuto]
ContinuaMi Amo
Mi Amo
finalmente lo dico e lo penso: mi amo.
mi amo come non ho fatto mai.
mi amo senza pretendere che altri lo facciano per me.
mi amo quando sono forte, ma adesso finalmente mi amo anche quando non lo sono.
mi amo, o forse sto ancora imparando a farlo, anche senza supporto e approvazione. è una strada molto faticosa, a tratti dolorosa, ma ci sto riuscendo.
mi amo da quando ho capito che amore di sé non è egoismo.
mi amo quando abbandono il senso di colpa. mi amo quando mi ascolto, quando smetto di fare cose che non voglio fare e di stare in luoghi in cui non voglio stare.
mi amo quando smetto di compiacere gli altri, quando mi allontano da ciò che mi fa stare male.
mi amo quando non tollero la mancanza di rispetto. mi amo quando non cedo a ricatti emotivi, quando la violenza psicologica non ha più presa su di me.
mi amo perché non scendo più a compromessi con la mia libertà.
mi amo quando esprimo un disaccordo senza timore della reazione.
mi amo anche se quando ho cominciato a farlo diverse persone mi hanno lasciata per strada.
mi amo nella solitudine.
mi amo esattamente per come sono.
mi amo anche se non piaccio.
mi amo perché ho imparato a dare valore alle cose autentiche e a non dare per scontato nulla.
mi amo perché ho accettato di essere aiutata quando ne avevo bisogno.
mi amo perché ho imparato a conoscermi davvero.
mi amo perché lavoro ogni giorno per essere una persona migliore.
mi amo e avrei dovuto farlo da sempre.
marigrazia scalera
ContinuaIl Pregiudizio
IL PREGIUDIZIO
Il nostro sistema difensivo è concepito per attribuire maggiore rilevanza e focalizzare la nostra attenzione su quelle situazioni che potrebbero costituire una potenziale minaccia per la nostra sopravvivenza e incolumità.
Questo sistema di difesa, di derivazione ancestrale entra in gioconell’uomo moderno anche in quelle situazioni che pur non costituendo una minaccia per la vita, possono compromettere, in base al nostro sistema di attribuzione di valori, la nostra identità relazionale, sociale, affettiva.
In questo senso le risorse cognitive ed emotive vengono quindi completamente mobilitate dai seppur esigui fattori ritenuti negativi e distolte dalle più numerose componenti positive dell’esistenza.
L’estrema focalizzazione sugli elementi negativi, è all’origine diun errore cognitivo importante che si inserisce nella valutazione di sé stessi, della realtà e del mondo, che viene definito “negative bias” ovvero il “pregiudizio negativo”.
Sebbene tale pregiudizio sia originato dalla necessità di preservare l’incolumità dell’uomo, quando questo diventa prioritario e dominante in tutti gli aspetti della vita relazionale, professionale e psichica, esso finisce per costituire un nodo disfunzionale per l’esistenza che necessita di essere sciolto.
All’origine del “pregiudizio negativo” disfunzionale vi è la crescita e lo sviluppo dell’individuo all’interno di una realtà, familiare e sociale, in cui sussiste un sistema di attribuzione di valori e di significati alterato, seppur riconosciuto come valido a livello della comunità, grande o piccola che essa sia. All’interno di questo sistema di attribuzione non vengono riconosciute e valorizzate le risorse, le potenzialità, i desideri, le intuizionidell’individuo nella sua unicità, ma le sue potenziali inadeguatezze di fronte ad un mondo percepito tanto minaccioso,valutante e svalutante, quanto giusto, che richiede l’annichilimento di ogni vibrazione, di ogni battito d’ali e una totale uniformizzazione.
Basti pensare ai numerosi test di ammissione, ai test Q.I., ai test di personalità o alle numerose varie altre etichette che spesso per semplificare la realtà finiscono per ridurre l’essere umano nella sua incredibile complessità ed unicità ad un mero contenitore di informazioni, di saperi, di comportamenti da valutare.
In mancanza di consapevolezza, si finisce allora per delegare a qualcun altro il giudizio e l’approvazione dei propri desideri, delle proprie aspirazioni e di fatto l’anelito alla propria realizzazione e libertà.
Laddove l’ascolto delle voci esterne ha preso il posto dell’ascolto della propria voce interiore, del proprio intuito, dell’amore per sé stessi, diventa difficile se non impossibile saper riconoscere chi siamo veramente, qual è la verità di noi stessi, come entrare in sintonia con la vita, perché abbiamo perso la capacità di intenderela nostra musica.
Nella ricerca della libertà è allora importante imparare a riconoscere due voci controverse che convivono in noi, quella che corrisponde alla parte più vitale di noi, che sà di possedere le ali e di poter spiccare il volo, di essere fatta per questa vita, e quella che corrisponde alla parte più condizionata, frenata dalla paura di sbagliare e di essere annientata, quella che ci vuole convincere che l’unica realtà possibile sono le sabbie mobili dei giudizi e delle etichette.
Una voce che ci fa vedere la nostra bellezza, le nostre risorse e che ci fa desiderare di avere un ruolo attivo in una vita bella da vivere, anche con le sue sfide e difficoltà, dove non esiste giusto sbagliato, ma esiste l’ ”autentico”… e una voce che ci fa vivereattanagliati dal pregiudizio negativo, sempre pronta a fermare, atrattenere dal divenire uomini liberi, che senza neanche accorgercene finisce per farci preferire la sicurezza dell’essere schiavi all’incertezza della libertà.
Solo togliendo giorno dopo giorno il coperchio dalla nostra coscienza, è possibile identificare la voce nascosta condizionantee ridimensionarla, iniziando un percorso verso un’esistenza in cuile nostre scelte ed i nostri discernimenti siano effettuati in veralibertà, in cui sia possibile far crescere e prosperare le nostre componenti più vitali, in un loop virtuoso verso la realizzazione di una vita più autentica, fatta non di paure, ma di strategie di fronte alle difficoltà e di risorse, in cui miracolosamente il ritmoquotidiano monotono e angosciante può finalmente trasformarsinella sinfonia della vita che siamo chiamati a vivere.
Sintesi a cura di
Dott.ssa Laura Cecchetto
Tirocinante di Psicologia
presso Studio Burdi
Continua
Le Passioni
Le passioni
Le passioni sono elementi costitutivi della nostra personalità, poiché sono espressioni della propria individualità.
Le azioni che si fanno per passione danno gioia ed un’immensa soddisfazione.
Quando ci si dedica ad un’attività appassionante, il tempo e gli altri non esistono più: quel tempo è dedicato solo a sé stessi, alla propria creatività. Quelle passioni generano benessere, aumentano la propria autostima, non ci giudicano e ci regalano uno splendido sorriso luminoso. Sono il nostro battito animale.
Le passioni-distrazioni sono diverse, divergenti ed alienanti. Denotano una via di fuga, un attimo di quiete durante la tempesta delle preoccupazioni, per non prendere coscienza del problema. Tolgono l’attenzione, l’ostruzionismo di sé e dei propri bisogni repressi dal dovere e dl dare importanza prima agli altri che a sé stessi.
Queste appassionanti distrazioni rivelano l’oblio di sé stessi e del proprio bambino interiore, in una lenta eutanasia. Ancor più differenti sono le passioni-ossessioni, che divorano dall’interno: il piacere viene sopraffatto dall’ideale del piacere rafforzato dall’idea di dover fare questa attività per ottenere benessere.
Questa felicità illusoria e fugace è affamata di tempo ed energia, isola e rinchiude l’individuo in uno scrigno, come per proteggerlo in un mondo tutto suo.
Le passioni-distrazioni sono preoccupazioni.
Le passioni-ossessioni sono insoddisfazioni.
Queste passioni generano frustrazione, rabbia e rimpianti.
Le passioni-benessere derivano dal desiderio e conducono alla realizzazione di questo “motore”: ci permettono di sorpassarci, incrementano la curiosità e plasmano la realtà, migliorandola, come la desideriamo.
Avere passioni-benessere rivela il vero sé, spudorato, coraggioso, contro-corrente e senza compromessi. Sono le nostre passioni: risorse ed arricchimento del proprio universo interiore.
È il nostro battito animale, che prende e porta via con sé, quell’istinto naturale che c’è e batte nel nostro essere naturale, e che batte, batte, fino alla morte. Avere passioni è voler essere felici per sé stessi.
Eva BLASI
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IN FRANCESE
Les loisirs-passions
Les passions sont des éléments constitutifs de notre personnalité, puisqu’elles sont l’expression de notre propre individualité.
Les actions réalisées par passion donnent à l’être humain une immense joie et un sentiment de pleine réalisation et satisfaction. Quand on se dédie à une activité passionnante, le temps et les autres n’existent plus : ce temps est dédié seulement à soi-même, à sa propre créativité. Ces passions génèrent du bien-être, augmentent l’estime de soi, ne nous jugent pas et nous donnent un merveilleux sourire lumineux.
Les passions-distractions sont différentes, diverses et aliénantes. Elles sont le pâle reflet d’une sortie de secours, de fuite de soi, de calme avant la tempête des inquiétudes, pour ne pas prendre conscience de l’existence d’un problème et se voiler la face. Elles nous apportent une distraction légère et momentanée pour mieux cacher la misère de notre vide intérieur, l’oubli de soi-même, des propres besoins réprimés par le devoir et de donner la priorité d’abord aux autres puis à nous-mêmes. Ces passionnantes distractions révèlent la lente euthanasie en cours de notre enfant intérieur.
Les passions-obsessions, quant à elles, nous dévorent de l’intérieur : le plaisir est remplacé par l’idéal du plaisir renforcé par l’idée de devoir faire cette activité pour obtenir du bien-être. Cet éphémère bonheur illusoire est affamé de temps et énergie, il isole e retient prisonnier l’individu dans sa cage dorée, lui donnant l’impression de le protéger tant qu’il est dans sa propre bulle.
Les passions-distractions sont des préoccupations.
Les passions-obsessions sont des insatisfactions.
Ces passions génèrent frustration, colère et regrets.
Les passions bien-être tirent leurs origines du désir e conduisent à la réalisation de ce « moteur » intérieur à soi: elles nous permettent de nous surpasser, d’éveiller et aiguiser notre curiosité, pour façonner la réalité, telle que nous la désirons.
Avoir des passions bien-être révèlent notre vrai soi-même : hardi, courageux, audacieux, original et franc, sans compromis. Nos passions sont des ressources et un enrichissement de notre propre univers intérieur.
Avoir des passions, c’est vouloir d’abord être heureux pour soi-même.
Eva BLASI
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IN CINESE
爱好
爱好是个人的基础因为表是个人的乐趣。
你做爱好的事儿给你最大的乐趣与得意:那个时候,人与时间不存在。 这个时间只是为你自己, 给你创作经验。 这样的爱好让你提高你自己的相信, 不批评你, 给我们一个笑得合不拢嘴。
消遣的爱好表示一个心理的跳跑, 为了看不见问题的原因,为了我看不见你自己不接触没达到的希望, 要做的事儿, 别人比你更好,别人比你跟重要。
而且, 顽念的爱好吃你自己的心里与心理里面:乐趣变了一个理想, 吃你的时间与力气, 隔离你在自己里面的世界。
消遣的爱好是担心。
顽念的爱好是不满意的感觉。
这样的爱好的结果是受挫, 愤怒, 后悔。
乐趣的爱好是从心里希望来的, 让你的实现起出希望。
爱好是自己的愉快。
伊轩媖 Eva BLASI
ContinuaWu Wei
IL VALORE TERAPEUTICO DEL WU WEI E IL FLUSSO DELLA VITA e
La Teoria del Non Attaccamento
Il Wu Wei è un concetto al cuore della filosofia Taoista, utilizzato recentemente anche in alcuni approcci terapeutici (1).
Spesso tradotto come “non-agire”, esso descrive in realtà un principio di azione senza sforzo che richiede il non attaccamento al risultato dell’azione.
Si tratta dunque di un’azione mirata che si svolge in armonia con la realtà e che comporta lo sviluppo di particolari qualità interiori e una visione della vita fondata sulla fiducia, la lungimiranza e la consapevolezza profonda della causalità e della transitorietà degli eventi.
Il Wu Wei richiede la capacità di coltivare in sé la capacità di essere recettivi e disponibili alla realtà, di ampliare lo sguardo e affinare il proprio spirito di osservazione nella relazione con questa.
Ciò è reso possibile dalla capacità di mettere da parte, momento dopo momento, le aspettative e l’attaccamento emotivo ad un preciso risultato, per lasciare spazio alla realtà e a ciò che essa richiede negli eventi e nelle situazioni che si presentano.
Si tratta di percepire le opportunità e limitare la dispersione delle nostre energie, entrando in sintonia con la direzione del fiume della vita, in una prospettiva di fiducia che richiede una particolare relazione con il tempo, una sorta di senza tempo in cui tutto è possibile.
Sebbene apparentemente legato al concetto di “rinuncia” alle nostre aspettative, il Wu Wei ci proietta in realtà verso la dimensione di un risultato sicuro-certo, il migliore, che implica un’azione che opera di concerto con il flusso della vita.
Questo concetto filosofico è particolarmente utile nella relazione con la sofferenza psicologica.
Infatti laddove spesso l’ostacolo, il rifiuto, l’inadeguatezza che si sperimenta viene vissuto come qualcosa di immutabile, di irreversibile e permanente, immodificabile, il Wu Wei mette l’accento su un aspetto fondamentale della nostra esistenza, quello della transitorietà e mutabilità degli eventi, in cui grazie all’attesa sapiente, all’osservazione e quando opportuno, all’azione mirata, tutto può evolvere nella nostra realtà : ciò che non è qui in questo spazio e in questo momento della nostra vita può esserlo in un altro, quello giusto, se coltiviamo la fiducia e la consapevolezza. Anche i nostri desideri e le nostre aspettative possono evolvere se coltiviamo l’attenzione alla realtà e con questa stabiliamo una relazione di fiducia e reciproca costruttiva interazione.
Il concetto di fiducia nel corso della vita, è strettamente correlato alla dimensione del rapporto con noi stessi e alla relazione che abbiamo con il tempo.
Spesso infatti ci attacchiamo ad un risultato o ad un’aspettativa relazionale, perché abbiamo bisogno, il prima possibile, di conferme che possano liberarci dal lancinante dubbio che ci portiamo dietro sulla nostra inadeguatezza.
Ma più grande è questo desiderio di conferme, più grandi le schiavitù che ci costruiamo intorno.
Attendiamo che il risultato si manifesti esattamente nella direzione da cui ce lo attendiamo, quella in cui abbiamo maggiormente investito con sforzo ed impegno, attanagliati dalla paura che la risposta tanto attesa non arrivi o che quella mancata risposta, confermi definitivamente la nostra inadeguatezza.
Paradossalmente molto spesso più siamo schiavi di queste conferme più queste tardano ad arrivare.
Il Wu Wei ci ricorda che la realtà ci dice sempre la verità di un momento e in quanto tale questa è la migliore opzione possibile.
Tuttavia essa non è una verità assoluta, la verità che emerge ora è una verità transitoria, ma con cui possiamo relazionarci in maniera costruttiva, a volte semplicemente lasciando che le cose accadono e seguano il loro corso, mentre noi, se siamo abbastanza recettivi, aperti e fiduciosi possiamo intanto osservare e orientare lo sguardo dentro e fuori di noi, laddove sicuramente, se apriamo gli occhi, si svelano a noi nuovi orizzonti e nuove consapevolezze.
Prime fra tutte la consapevolezza di essere sempre più importanti di un risultato materiale o relazionale, e la consapevolezza che il risultato si può tanto più manifestare quanto meno abbiamo una relazione di dipendenza da questo e quanto più coltiviamo una relazione di fiducia sapiente e lungimirante con noi stessi e con la vita, nelle sue molteplici sfaccettature.
Coltivare, giorno dopo giorno, anche grazie ad un supporto esterno adeguato, una visione di questo tipo, significa accrescere il rispetto per noi stessi e consolidare un senso di fiducia e stabilità interiori, convinti di vivere una vita in cui noi, come gli altri, siamo protagonisti, appassionati non del risultato ma del percorso, in un’avventura in cui attenti, versatili e flessibili, interagiamo con la realtà, impariamo da questa e questa diventa via via più docile e appassionante.
Sintesi a cura di:
Dott.ssa Laura Cecchetto
Tirocinante di Psicologia
presso Studio Burdi
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La condivisione e l’amore di sè
La condivisione e
l’amore di sè
Quanto ci stritola la vita? con i suoi ritmi, il lavoro, i figli, la crisi, la guerra, le difficoltà, la pandemia, la mancanza di soldi, la politica che non funziona, i problemi di salute, la coppia che non va, la vita sociale non ti appaga, quella lavorativa ancor meno, i colleghi di lavoro che ti avvelenano, stimoli culturali pari a nulla, esci di casa e pare che stai andando a fare la guerra con il pugnale tra i denti e l’elmetto pronto a colpire se non a difenderti, le persone che ti vomitano addosso i loro problemi come se tu non ne avessi sufficienti di tuo ma tu, inspiegabilmente, non hai la forza di dire <<no>>, <<basta>>; soggetti instabili ed inaffidabili mascherati da rocce umane che ti risolveranno la vita affettiva per sempre.
Arrivi in ufficio, se hai la fortuna di avere un lavoro, e sei preso d’assalto; il capo ti prende d’assalto, tutti avvolti in questa nube tossica non meglio identificata.
Se non hai un lavoro sei assalito dai debiti, dalla moglie o dal marito, che non fa che rinfacciarti che le cose non vanno, che vorrebbe di più, l’auto più, la casa più, il figlio più e, non tanto sotto sotto, ti sta dicendo che la colpa è tua, che non ti impegni abbastanza, che non ti adoperi, che non sei capace a nulla e non lo sarai mai, che sei idealista ma non concretizzi mentre lui (o lei) fa tutto per tutti e porta il pane a casa. I figli che pretendono sempre di più e tu sei stritolato dai media che dicono loro ciò che devono desiderare, ciò che fa <<figo>> e tu non ce la fai a negarglielo e se glielo neghi perché non ce la fai è la fine della genitorialità, ti cancellano, si negano a te ed improvvisamente non sei più un buon padre o una buona madre e dalla sera alla mattina sei deceduto per loro.
All’antica cantilena <<essere o non essere>> se ne sostituisce una nuova e più potente <<essere o avere>>: due a zero per <<avere>>!
A fine giornata sei morto o come un giorno disse un personaggio – transitato per un attimo nella mia vita ma insediatovisi nella memoria eterna – <<frastordito>>, un fritto misto tra <<frastornato>> e <<stordito>>. Un genio! Io non avrei saputo creare di meglio!
A me verrebbe piuttosto da dire <<ci sarebbe da essere depressi!>>.
Ma veniamo al punto.
Il punto è che se si permette a questo vortice di ingoiarci come sabbie mobili, che farebbe rima con <<nobili>> ma che di nobile non ha nulla, sei finito.
Restituire alla vita il suo significato, a noi stessi il giusto significato ed il giusto ruolo nel mondo, agli altri la giusta ed adeguata collocazione, ai problemi la giusta dimensione, ristabilire le priorità, ritrovare l’isola che c’è, scegliere e non subire le scelte, diventare registi della propria vita e non mere comparse pagate (se pagate!) con trenta denari per essere comprati e costretti ad abdicare a se stessi divenendo oggetto di tangente e Giuda di se stessi. Perseguire ciò in cui si crede, costi quel che costi, affrontare le battaglie anche quando saremo in solitudine ad affrontarle – ma in battaglia siamo sempre soli con noi stessi perché il nostro primo nemico da abbattere è proprio quella parte di noi che teme il confronto, il conflitto – consapevoli che alla fine la verità verrà fuori e questa sarà la vera vittoria; scegliere di condividere la propria vita solo con chi ci fa stare bene, fare solo ciò che ci piace, allontanare ciò che ci danneggia. Allungare il braccio e con la mano tesa porre le distanze da tuttociò che si discosta dal nostro protocollo del benessere.
Diventare vigili urbani di se stessi, mentalizzare questo gesto è salvifico.
Prendere le distanze da ciò che ci sta facendo del male è salvifico.
Non negare a noi stessi che una data situazione ci sta facendo del male, ciò è salvifico.
E ciò va fatto, subito, senza por tempo in mezzo, nel momento in cui un pugno nello stomaco ci raggiunge e ci avverte che quella situazione, quella persona, quella circostanza ci sta uccidendo, ci sta chiedendo di abdicare a noi stessi, di tradire noi stessi, di rinunciare al nostro bene che solo noi sappiamo quale sia.
Fare finta di niente, il <<politicamente corretto>>, farsi invischiare nelle altrui disfunzioni mentali ed affettive, questo non è salvifico.
Allungare il braccio e stendere la mano in segno di <<stop>> ti dà la lucidità di guardare le cose, le persone, le situazioni, le circostanze per quello che sono e trovare la soluzione migliore per te che, attenzione, non è detto che non ti farà soffrire ma certamente ti farà soffrire meno che se tu decidessi di tradire te stesso e di subire passivamente ogni prevaricazione che proviene dalla vita.
Come disse Esopo: <<È facile essere coraggiosi a distanza di sicurezza>> (Esopo, Favole, VI sec. a.e.c).
Prendersi tempo, darsi del tempo, nella consapevolezza come disse Ghandy che <<quando hai fretta devi camminare lentamente>>.
La distanza giova a purificare certi difetti che di presenza risultano intollerabili e paradossalmente è possibile che così facendo si possa anche salvare ciò che ritenevi perduto per sempre ma in ogni caso avrai salvato te stesso.
Concluderò questo message in a bottle, come la famosa canzone dei police, con un’’ultima riflessione: il vero problema non è ascoltare i problemi altrui ma non saperli condividere.
E questo accade quando qualcuno ci considera il suo contenitoredi sfogo poiché è un tutt’uno con il suo problema, vero, grave o finto che sia non sapendone prendere le distanze e lì non vi è sana comunicazione ma l’avvelenamento di chi supinamente subisce.
Condividere i problemi è possibile purchè ciascuno sappia a sua volta prendere le distanze da se stesso e dal proprio problema non identificandosi con esso. Solo così nascono la vera condivisione e l’arricchimento reciproco. E parafrasando una frase di MahatmaGandh: <<Non permettere a nessuno di passeggiare nella tuamente coi piedi sporchi>>.
Laura C.
Continua
L’ Incredibile
L’ INCREDIBILE
Casi Clinici. Pillole di storie reali.
“ Sono felice di entrare nel mio Studio, perché, finalmente incontro persone sane “
Molto spesso mi viene formulato il seguente quesito: ma chi è il “matto” ? Comunemente si afferma che è colui che non si pone questa domanda e che non sa mai di esserlo, ma è convinto innanzitutto che lo siano tutti gli altri; non sa mettersi mai in discussione, si camuffa, è gentile, manipolatore e bizzarro, maniacale, stupefacente, scaltro, lascia attoniti, ha dell’ incredibile, è al limite tra lo stupore, la seduzione, il mistero, la follia e il reato, è un, supera ogni limite consentito dal buon senso.
Incontriamolo nel concreto; in queste pillole di storie vere, cercando di riconoscere in esse il confine tra malattia e normalità.
A noi le storie :
Mio marito mi ha forato le gomme dell’ auto, è geloso, per evitare che vada al lavoro e mi renda autonoma. Lui invece, cinque anni dentro, una storia con mia madre, ora si è specializzato come pusher. Posso essere depressa ?
Mia madre mi fa un prestito di 6000 euro e mi chiede gli interessi da usura.
Ho il morbo di Crohn, ho 40 anni, vivo da solo, ho il cantiere in casa, ho perso il lavoro, quasi muoio; ho chiesto alloggio a mia madre, mi ha risposto che una volta uscito di casa, non rientri più. È la tradizione per noi meridionali o non ho mai avuto una mamma ?
Sono una accumulatrice seriale. Casa è diventata un deposito di oggetti inutilizzati. Dormo in un angolo del letto, sono attaccatissima ai miei ricordi, più ingombranti di me. L’ appartamento pesa tonnellate di roba per metro quadro, non butto nulla e se provo a distaccarmene, impazzisco, mentre dai miei figli sono distaccata, li tengo a continentale distanza.
Mi ha costretta ad abortire, garantendomi un mondo ed altro, ma è scomparso.
Ho quarant’anni, mio padre ha abusato di me sessualmente dai 5 ai 12 anni, sono sempre stata un angelo, mia madre lo ha sempre saputo, ma abbiamo preferito conservarci la famiglia del mulino nero, restando insieme.
Ho scritto una lettera di addio a mia moglie e ai miei due figli, come ultima chance, prima di farla finita, ho fatto terapia. Ora ne sono fuori. Vent’anni dietro ad una diffamazione popolare, quella di essere un ricchione, solo per aver detto di no alle avance di una donnina. Non sapevo a cosa servisse la rabbia come lo so molto bene adesso.
Mio padre e mia madre si picchiavamo, avevo cinque anni, ora ne ho trenta in più. Allora avevo continuamente incubi e sognavo dei mostri, tanto che in casa creavo loro delle trappole, in pratica, versavo dello svelto sui pavimenti, e tutti scivolavano, ma per i miei, ero un folle, semplicemente un pazzo.
Mio cognato mi ha abusato dagli 8 ai 13 anni, mi diceva di volermi bene, quando il’ amore in casa mia non sapevo cosa fosse. Mi hanno dato psicofarmaci per 20 anni e i medici dicevano che era colpa delle mie crisi epilettiche. Trent’ anni dopo ho preso la bestia per le corna, l’ ho spubblicato. Ora sono una persona libera, serena e senza psicofarmaci.
Figlio unico, iscritto alla Luis da 10 anni, si son costruiti un’ intera ala di un edificio per i miei anni di fuori corso, da cinque anni mi mancava dare l’ ultimo esame per laurearmi, per farmi inconsciamente notare dai miei. Solo quando ho smesso di attenderli, sono sceso dal letto della mia depressione, con l’ aiuto della terapia, ho ricominciato da me, ho deciso di amarmi da solo, ho trovato lavoro, mi sono laureato, ho ritrovato il mio amore ed ho voluto incontrare i miei.
Figlia unica, mi hanno tenuto sotto una campana, laureata due volte, ma ero imbranata e non sapevo relazionare. Ora cammino, vivo e mi diverto, grazie a chi mi ha preso per mano e poi me l’ha lasciata.
Faceva avanti e indietro con l’ auto in un parcheggio di trastevere. Sono sceso e gli ho chiesto: esce o entra ? mi ha risposto: “a li mortacci tua e di quel bastardo che tua moglie porta nel grembo”. L’ho steso a sangue. Non potevo continuare così, ho capito che la mia rabbia dipendeva dal mio capo, l’ ho affrontato, ho cambiato lavoro ed ora sono sereno.
Mia madre tradiva mio padre, così ho fatto un pieno di donne per odiare mia madre; le ho tutte tradite, l’ una con l’ altra. Ho compreso il mio odio per lei e che le altre non centravano nulla con lei. Ho iniziato a mandarle a casa, una ad una. Ora sto conoscendo chi sono, cosa voglio e chi mi portavo dentro.
Ero chiuso da anni in una stanza, cosa ci facevo ? Aspettavo mio padre che venisse a prendermi, l’ ho visto dieci volte in vent’ anni. Quanta sofferenza e tempo perduto. L’ ho cercato e affrontato e mi ha risposto: “ma lo hai capito che non voglio esserti padre ? ”. Lo avrei picchiato, ma ho compreso ciò che lui non sa, che è malato, ho raccolto le mie forze e sono ripartito da me e da chi mi ha veramente amato.
Non ho mai conosciuto un abbraccio, una carezza o un come stai ! Dai 14 anni avevo solo la coca come il mio amore, per la mia famiglia ero una vergogna. Ora che ne sono fuori, ho la consapevolezza che per fare un figlio, bisogna starci con la testa.
Mia madre per tutta la vita mi ha ribadito che la mia nascita non era stata gradita e dovevo ringraziarla per avermi messo al mondo e che oggi dovrei esserle molto riconoscente. Grazie mamma, per la tua infinita bontà.
Ho 21 anni, la mia passione era diventar medico, non studio più e vivo di sensi di colpa, mi sento un incapace; per i miei, sono la loro unica loro realizzazione, quanta responsabilità, tante aspettative, senza il mio impegno, loro falliscono, non posso sottrarmi a questo impegno, sono bravi, glielo devo, ma alle volte mi sento manipolato con tanto affetto, mi marcano stretto, non capiscono perché sono in depressione acuta, mi manca l’ aria e mi sono bloccato; vendo cara la pelle, non posso deluderli, non voglio diventare loro un peso, devo farcela da solo o magari soccombere se fallisco.
Sono un ragazzo semplice con una passione altrettanto semplice, diventare un musicista. Mio padre non ha mai creduto in me. Mi ha spezzato sempre la voglia di andare avanti. Mi ritrovo anni fuori corso perché “<< la musica non ti dà da mangiare, vai a lavorare >>”. Oggi ho ripreso alla grande con i miei interessi al centro del focus della mia vita.
Cosa c’è di strano e di incredibile in in queste storie vere ? Nulla per i così detti “matti” per i quali tutto è lecito e regolare, ma i “normali” allora chi sono ? Essi sono le vere vittime di certi eventi incresciosi. In queste storie non ci sono argini, ne confini, ne vinti o vincitori, tutto sembra consentito. Percepiamo che tutto deve avere un limite, quando è troppo è troppo, ma questo limite chi lo decide ? Sembra che entrambi abbiano inequivocabilmente e indiscutibilmente ragione. Ma in realtà, non è così .
Esiste una sola verità, se esiste un dolore mentale, non c’è giustizia che tenga. Cosa lo decide il confine tra benessere e malattia ? Lo decide semplicemente e senza ombre di dubbio o alcun minimo equivoco, un dato certo, molto evidente ed irrinunciabile e non equivocabile, è il saper vedere e il rispetto per l’ altro, il Rispetto, che in queste storie viene ripetutamente trascurato ed omesso, sembra spregiudicatamente che tutto debba andare per forza così.
La psicopatologia consiste nel fatto che, il problema non si pone nemmeno, perché la parola “ rispetto “ non esiste nel vocabolario della malattia mentale . A tutti capita, dagli addetti ai lavori e innanzitutto ai non, di incrociare situazioni molto spiacevoli, ai limiti dell’ incredibile e dell’ assurdo, ma la “diagnosi”, la puoi fare già tu, di persona ed in diretta, da solo; gli “altri” non ne sarebbero capaci. Su quale base base potrebbero, se sono immersi nel loro stesso problema ? Comprendere il proprio limite è rendersi conto o meno di cosa sia il “Rispetto”, e se esso è presente o mancante, decide il confine e la labilità tra la salute e la malattia mentale.
giorgio burdi
ContinuaLa Mania Del Controllo
Metodo di approccio di psicoterapia dello Studio BURDI
per
SUPERARE LA MANIA (OVVERO L’ILLUSIONE) DI CONTROLLO
Cos’è la mania di controllo
La mania del controllo ovvero il bisogno di avere una continua sensazione di padronanza sulle nostre situazioni di vita e sulle persone, è in realtà strettamente correlata all’insicurezza e alla paura di non essere in grado di sostenere l’imprevisto, dove l’imprevisto viene sistematicamente rappresentato come qualcosa di negativo e minaccioso per la propria esistenza o per quella dei propri cari.
La mania del controllo ha sicuramente in parte il suo fondamento nella cultura occidentale, in cui la preoccupazione, la fretta nel raggiungimento di un obiettivo e l’angoscia per ciò che non è controllabile, sono atteggiamenti consolidati, talora riconosciuti come funzionali.
Sostanzialmente collegata alla paura della sofferenza, la necessità di controllo denota un’incapacità e una mancanza di fiducia nella propria, e in molti casi anche nell’altrui (dei propri cari), capacità di gestire le proprie emozioni, le delusioni, per cui la vita è ridotta ad un numero limitato di schemi appresi, all’interno dei quali solamente si ha l’illusione che sia possibile “sopravvivere”.
In ambito familiare possono inoltre instaurarsi collusioni dannose, in cui il ruolo di conducente-controllore viene alimentato da chi, sovrastato da sentimenti di timore e inadeguatezza, finisce per delegare la propria esistenza ad un genitore o ad un partner controllante, generando un loop vizioso e soffocante in cui controllore e controllato alimentano le reciproche prigionie.
L’illusione del controllo cela in realtà l’angoscia per una vita che, nella sua imprevedibilità viene percepita senza senso e in cui non si riesce a riporre fiducia.
Esso rivela la mancanza di un dialogo autentico con l’esistenza, dialogo in cui le prove, la delusione delle aspettative, come anche i migliori e inattesi imprevisti, possono essere dotati di senso e possono, volendolo, aprire a più ampie vedute e prospettive, a maggiore flessibilità strategica, rendendo possibile la realizzazione di obiettivi più elevati.
La mania del controllo è pertanto il sintomo di una rappresentazione ristretta e fissa della realtà, di sé stessi e degli altri, determinata dalla paura della sofferenza.
Quando la mania del controllo si manifesta dal punto di vista relazionale, l’illusione di potere e il temporaneo benessere che ne derivano, conducono alla difficoltà di instaurare interazioniprofondamente autentiche, poiché in un’ottica difensiva, tutto è sistematicamente pianificato: i propri obiettivi, i comportamenti, le reazioni degli altri.
Nella necessità di rendere gli altri e la propria realtà prevedibili, le relazioni cessano di essere stimolanti, poiché la curiosità e l’entusiasmo di esplorarsi nel rapporto hanno ceduto il passo all’evanescente, quanto illusoria sensazione di poter controllare l’altro.
Chi entra in una relazione con chi ha la mania di controllo in ambito relazionale, prova infatti spesso il disagio di chi si sente rappresentato in maniera arida, limitativa, prevedibile e funzionale, svuotato delle proprie risorse.
Tuttavia laddove la vita si presenta inevitabilmente, ad un momento o ad un altro dell’esistenza, con il suo carico di sofferenza e imprevedibilità, la mania del controllo e la rigidità psichica a questa associata possono condurre a stati di depressione e profonda sofferenza.
Come si cura
Le persone caratterizzate dalla mania di controllo, di fronte ad uno o più eventi in cui sono confrontate con l’impossibilità di controllare, sperimentano accanto alla sofferenza per l’evento oggettivo, anche la sofferenza per l’inadeguatezza della propria strategia di vita e la disperazione ed il vuoto nell’impossibilità di costruire un nuovo paradigma esistenziale.
La psicoterapia costituisce allora un valido aiuto per andare alle radici di tale sofferenza, identificando in prima battuta con il paziente, a volte inconsapevole, la presenza dell’esigenza compulsiva di controllo e le distorsioni cognitive che si celano dietro di questa.
In seconda battuta la psicoterapia può aiutare il paziente a sviluppare la capacità di rimettere le cose in prospettiva, distabilire una relazione più costruttiva e dinamica con la vita e con gli altri, in cui coltivare l’attenzione alle opportunità che le difficoltà possono rappresentare, imparando a trarne vantaggio eristabilendo in questo modo un nuovo rapporto di fiducia con la vita stessa e nelle relazioni.
In questa prospettiva la psicoterapia aiuta il paziente a liberarsi dalla morsa degli spazi delimitati, in cui venivano riprodotti sempre gli stessi schemi di comportamento, aprendo a nuovedistese aree di vita e di movimento, in cui il paziente può concedersi gradualmente la possibilità di sperimentarsi senza paura e di recuperare la propria pulsione vitale.
Sintesi a cura
Dott.ssa Laura Cecchetto
Tirocinante di Psicologia
presso Studio BURDI
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La Capacità di Essere Solo
LA CAPACITÀ DI ESSERE SOLO
È spesso opinione comune associare l’essere soli alla solitudine, a una condizione passiva di abbandono e profonda tristezza. L’essere soli assume così connotazioni esclusivamente negative.
La capacità di essere soli, invece, è una condizione positiva, una risorsa. È la capacità di guardarsi dentro, di raccogliersi, il saper stare con sé stessi. Guardarsi dentro aiuta a capire meglio chi siamo, a riconoscere e superare le nostre debolezze e insicurezze, le nostre paure.
L’essere soli è vitale, ci permette di guardare nelprofondo della nostra anima, di ascoltare le nostre emozioni più intime e accoglierle. Ci fa comprendere i nostri bisogni individuali e ci palesa le nostre pulsioni più nascoste.
Saper stare soli ci aiuta a sentirci gratificati da ciò che siamo, a tollerare i nostri difetti e le nostre imperfezioni, a superare i fallimenti. Ci aiuta a sciogliere nodi troppo stretti, a modellare schemi mentali rigidi. Ci permette di essere profondi con noi stessi prima di esserlo con gli altri.
La capacità di stare soli è elemento fondamentale per la costruzione di relazioni sociali: è importante prima imparare a stare bene con noi stessi per poi poter stare bene con gli altri.
D.W. Winnicott associa la capacità di essere soli al silenzio, quel «silenzio interno» che permette di ascoltare e instaurare un contatto profondo con sé stessi, di essere soli con sé stessi.
L’autore, pediatra e psicoanalista britannico, di nota esperienza clinica con bambini e adolescenti, ritiene che la capacità di un individuo di essere solo sia uno dei segni più importanti di maturità nello sviluppo affettivo.
La letteratura psicoanalitica insegna che la capacità di stare soli si sviluppa nel primo periodo di vita.
Secondo Winnicott la capacità di essere solo ha origine dall’esperienza del bambino di essere solo in presenza della madre, ha origine, dunque, dal paradosso di essere solo in presenza di un’altra persona. Definisce questa condizione «relazionalità dell’Io», un rapporto tra due persone, in cui uno o entrambi sono soli, ma la presenza di ciascuno è importante per l’altro.
Winnicott attribuisce alla relazione madre-bambino la responsabilità di sviluppare la capacità di essere solo. La madre ha pertanto un ruolo determinante, rappresenta per il bambino un ambiente sicuro, protetto, che gli permetterà di sviluppare prima «l’Io sono», le basi per la strutturazione dell’identità e dell’individualità, poi di raggiungere «l’Io sono solo», la consapevolezza del bambino della continuità della presenza della madre, del suo prendersi cura, la sicurezza di un ambiente buono e sicuro.
È fondamentale che la madre aiuti il bambino nelle fasi di scoperta della propria autonomia esistenziale supportandolo nella gestione delle proprie ansie e angosce, rendendolo nel tempo capace di rinunciare alla presenza della figura materna. È altresì importante che il bambino sia libero di esprimere le proprie pulsioni e le proprie necessità fisiche e affettive, affinché impari a riconoscerle e regolarle in autonomia.
La consapevolezza del bambino di un «ambiente interno» che lo protegge anche quando è solo, di una madre presente e supportiva, lo renderà capace di essere solo di fatto.
Diversamente, una madre che anticipa i bisogni del bambino non gli consentirà di sviluppare un Sé solido e consapevole. Allo stesso modo una madre che non risponde ai suoi bisogni, genererà in lui la paura dell’abbandono. Entrambi i casi non gli permetteranno di sviluppare la capacità di stare solo bensì alimenterannola sua paura di stare solo.
La madre, quindi, non dovrà mostrarsi né eccessivamente invadente né evitante poiché entrambe le situazioni causeranno condizioni emotive disfunzionali.Sarà necessario stabilire con il bambino una giusta relazione di prossimità che lo faccia sentire al contempo sicuro e libero, e garantire la sicurezza del ritorno dopo un allontanamento o una separazione. Questa sensazione positiva permetterà al bambino di sentirsi al sicuro anche da solo.
Possiamo affermare, pertanto, che la capacità di essere soli è indice di maturità emotiva.
La capacità di essere soli è vivere la solitudine in modo attivo, pienamente consapevoli della nostra individualità e unicità.
Stare con sé stessi è sinonimo di libertà. Libertà di vivere appieno le proprie emozioni che si amplificano, libertà di scavare nella nostra interiorità.
Stare bene con sé stessi permette di cercare relazioni e rapporti autentici; si desidera la compagnia altrui, ma non si è dipendenti.
La capacità di stare soli coincide con la capacità di amare senza possesso, di condividere, di essere empatici. Chi sa essere solo non ha bisogno dell’altro, bensì gode della sua presenza.
La difficoltà di stare soli e di ritrovare sé stessi, invece, minaccia qualsiasi legame, qualunque relazione. Non aver imparato a stare soli grazie alle figure primarie di riferimento e non aver coltivato un corretto equilibrio tra vicinanza e lontananza, potrebbe compromettere l’interpretazione della solitudine vivendola come rischio, come minaccia.
Una percezione interiore e relazionale disfunzionata potrebbe contribuire allo sviluppo di patologie quali il disturbo evitante di personalità, il disturbo della personalità dipendente o altri disturbi legati allo spettro ansioso.
La mancata acquisizione della competenza di stare solo rende l’individuo dipendente, non in grado di relazionarsi al Sé, ma solo all’altro annullandosi completamente. Se non si ha consapevolezza della propria individualità a prescindere dall’altro, a prescindere dal partner, si instaureranno relazioni non sane, disfunzionali.
La capacità di contatto e dialogo profondo con sé stessi è indispensabile per risolvere conflitti interiori, per la costruzione dell’identità, la stabilità del Sé e del Sé relazionale.
La capacità di stare soli si acquisisce dalla relazione stessa, dalla relazione di fiducia che si instaura con l’altro. La capacità di stare soli, dunque, si acquisisce in presenza di qualcun altro proprio come la solitudine implica la presenza di un’altra persona.
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Riferimenti bibliografici
D.W. WINNICOTT, Sviluppo affettivo e ambiente, Roma, Editore Armando, 1974
Sintesi a cura di:
Dott.ssa Elisabetta LazazzeraTirocinante di Psicologia presso lo Studio BURDI
Tanatofobia
Metodo di approccio di psicoterapia dello Studio BURDI
per
SUPERARE LA TANATOFOBIA (LA PAURA DELLA MORTE , OVVERO LA PAURA DI VIVERE)
Cos’è la tanatofobia
La tanatofobia ovvero l’angoscia, la paura di morire, può essere un disturbo fortemente limitante per l’esistenza degli individui che lo sperimentano.
La paura della morte è un’emozione che riguarda ogni essere umano ed è fondamentalmente associata all’istinto di sopravvivenza primordiale.
Tuttavia nella vita quotidiana, alcuni meccanismi di difesa, quali la rimozione, ci consentono di collocare la morte lontano da noi permettendo che tale emozione non pervada i nostri pensieri e non condizioni in maniera significativa le decisioni, le azioni, i pensieri di ogni giorno.
Ciò fintanto che un’esperienza di malattia o la morte di una persona a noi vicina non riapre alla nostra coscienza la consapevolezza della morte, spesso ridisegnando nuove scale di priorità, nuovi significati per la nostra esistenza, insieme a difficoltosi passaggi.
Nella tanatofobia, la paura della morte genera un’angoscia opprimente che impedisce di vivere: qualsiasi azione vitale diventa potenziale portatrice di morte.
Dal punto di vista neurofisiologico la tanatofobia è paragonabile ad un processo difensivo di spegnimento, in cui rabbia, paura, senso di impotenza predominano e in cui il soggetto, incapace di andare avanti, rimane paralizzato in uno stato di immobilità e di paura, come di fronte ad un predatore.
Dal punto di vista psicanalitico, la tanatofobia è riconducibile alla pulsione di morte, così come intesa da Freud, in quanto questa genera l’azzeramento degli stimoli e la ricerca di una pace ideale, irraggiungibile, in cui si realizza la rimozione di tutte quelle situazioni in cui il soggetto può trovarsi desiderante, desideroso di ciò che potrebbe essere negato.
L’angoscia di morte in tal senso non è che l’altra faccia dell’angoscia di vivere e rivela la relazione alla propria esistenza, un’esistenza inappagante e fonte di frustrazione, in cui ci si sente incapaci di avere strategie, in cui l’esistenza è sostanzialmente subita in maniera passiva e si è perso di vista la propria importanza e la propria “competenza” nel vivere. Dominante è il senso di colpa per la mancata realizzazione di sé e l’angoscia per il senso di incompatibilità tra un sé che si è perso ed una vita che ha disatteso le sue aspettative.
Particolarmente nocivi possono essere alcuni contesti socio-culturali che propongono modelli rigidi, rappresentativi di condizioni ideali che poco corrispondono alla realtà soggettiva e alle reali, profonde, uniche aspirazioni dell’individuo, alimentando in alcuni, un profondo senso di inadeguatezza.
Come si cura la tanatofobia
Per il trattamento della tanatofobia è fondamentale costruire in un primo tempo una buona relazione terapeutica mirata a sviluppare nel soggetto la capacità di ascoltarsi profondamente e di relazionarsi alla propria esistenza come ad un’esperienza personale, che richiede continua capacità di adattamento e di elaborazione di strategie di fronte alle frustrazioni. Essa è mirata inoltre ad evidenziare e a valorizzare le competenze dell’individuo, a stimolarne la capacità di mettere in parole il proprio disagio e le proprie paure.
Altro aspetto fondamentale per il trattamento della tanatofobia è la realizzazione di un percorso di uscita dallo stato di immobilizzazione, intimamente legato alla paura.
Questo può essere operato attraverso dei percorsi terapeutici ad-hoc che prevedono la realizzazione di piccole azioni quotidiane gratificanti, in grado di stimolare nel paziente la capacità di individuare, attraverso lo sviluppo dell’attenzione, molteplici fonti di gratificazione nelle attività di ogni giorno. Ciò consente al soggetto di recuperare gradualmente il proprio senso di competenza ed adeguatezza.
Tipicamente, tra questi percorsi vi sono i protocolli mindfulness(1), che propongono la realizzazione di attività semplici, ma significative, effettuate in piena consapevolezza. Questi percorsi sfruttano inoltre la dinamica di gruppo, per rendere più agevole il mantenimento degli obiettivi e favorire l’uscita dalla solitudine in cui è sovente nutrito e alimentato il senso di paura e l’immobilità.
Nel caso della tanatofobia, come anche sottolineato dalla teoria polivagale (2), è importante promuovere nel paziente l’attuazione di meccanismi difensivi più evoluti, legati al coinvolgimento in relazioni sane di tipo supportivo in grado di generare sicurezza, rispetto a meccanismi difensivi di tipo primitivo all’origine dell’immobilizzazione e della paura.
In tal senso anche l’ipnosi può essere un valido strumento d’aiuto: l’utilizzo dell’attenzione condivisa, il tono ed il ritmo della voce, l’utilizzo di immagini metaforiche che emulano la qualità di un’esperienza di attaccamento di tipo sano, sono infatti in grado di generare sicurezza nel paziente, favorendo l’accesso alla consapevolezza delle proprie paure e ad un maggiore controllo dei propri stati ansiosi a queste connessi (3).
Sintesi a cura di
Dott.ssa Laura Cecchetto
Tirocinante di Psicologia
presso lo Studio BURDI
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(1) Tang, Y. Y. (2017). The neuroscience of mindfulness meditation: How the body and mind work together to change our behaviour. Springer.
(2) Porges, S.W. (2017). The pocket guide to the polyvagal
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