Il Rigetto
Il rigetto
Chi non ha sperimentato esperienze predatorie? Siano esse nelle relazioni amicali, parentali, amorose o affettive in genere. Siano esse più’ o meno traumatiche.
Non ci siamo saputi difendere. I nostri confini sono stati violati. Quei confini che ci definiscono e ci distinguono dagli altri. Il perimetro della nostra essenza, della nostra dignità, del nostro valore. Ma che sono anche un filtro, una membrana, una lente attraverso la quale guardiamo l’esterno. Una membrana che può’ essere più’ o meno porosa, una lente che può’ essere più o meno aberrante, ma che comunque interviene come una cornice di senso sulla nostra capacità di accogliere, elaborare e catalogare quello che ci giunge dall’esterno, il corpo estraneo.
Spesso noi stessi non conosciamo quei confini. E d’improvviso diventiamo testimoni di una reazione cicatriziale interna alla nostra anima, un sieroma infinito, nei confronti di quel corpo estraneo, di quell’atto “violento”, di quel ”altro da noi” che continuiamo ad accogliere. E’ la nostra anima, la nostra essenza, che cerca di isolare questa struttura disconosciuta, di rigettarla.. Ma a volte la membrana è troppo sottile, è carta velina bagnata. E il rigetto non avviene: Il confine manca.
Curare l’anima passa attraverso la costruzione dei nostri confini, per definire chi siamo e in cosa siamo diversi. Per dire “no” a ciò che non siamo. E “si” a cio’ che siamo. Ricostruire l’anima passa attraverso lo stabilire che li’, oltre quella soglia, non si può andare. Nessuno può’ farlo. L’individuazione del nostro punto di rottura, poi, ci protegge dai corpi estranei. Il punto di rottura corrisponde a quello che Giorgio Burdi chiamerebbe il “nostro Numero Uno”, che grida e dice “basta è finita!”. Il più delle volte questo grido non supera il volume delle nostre fragilità. È solo un eco… e ci sembra che tutto ciò che facciamo siano solo azioni automatiche. Diveniamo spettatori delle nostre reazioni e il mondo esterno non sembra reale. Qui la nostra essenza si disintegra. Quello che credevamo di essere viene sgretolato dai nostri comportamenti dissonanti, che sono spinti dal solo bisogno di affetto, di essere visti…E arriviamo ad odiarci, perché nonostante tutto siamo li. Quel “nonostante tutto” pesa tantissimo, ma non è sufficiente a farci fuggire.
E allora, rimbocchiamoci le maniche. Risoluti. Cosa dovrebbe succedere per dire “Basta!!!”? Uniamo le nostre fragilità a sostegno della definizione del nostro confine. Perché se non abbiamo chiare anche le nostre fragilità, se non le accogliamo, faremo sempre vincere il dolore. Non ci sarà mai una rivolta. Non sarà mai il numero Uno a guidare le nostre scelte. Decidiamolo ora qual’e’ il punto di rottura. E non importa se oggi il nostro cuore non sa sostenerlo. Ma da oggi in poi lavoreremo per sostenerlo, e forse non saremo neanche costretti ad arrivarci al nostro punto di rottura: Se lo abbiamo chiaro in mente, abbiamo anche gli allarmi di quando ci stiamo per arrivare.
…e finalmente, immaginando come ci sentiremo oltre quel punto, sentiremo che quella sensazione li’ non è una sensazione che non sappiamo sostenere. Finalmente vibriamo solidi. Le nostre decisioni sono perloppiù irrevocabili. La nostra visione va via in un istante!
valeria carofiglio
ContinuaIl Caricabatterie
Il caricabatterie
Ci sono situazioni di apparente comfort, di volubile tranquillità, illusoria serenità che ci fanno schiavi incatenati ad una perversa finzione allucinatoria.
Sono situazioni che a occhio esterno parrebbero ovvie, schematiche, un due più due, una banconota da due euro, uno scherzo di poco gusto, ma quando è il sentimento a essere protagonista diventa difficile vedere nitidamente.
Intrappolati in una oasi nel deserto ci abbeveriamo delle nostre stesse allucinazioni, dissetandoci di acqua che altro non è che sabbia, ci immergiamo le mani, i gomiti, il viso e con la bocca la cerchiamo, convinti di riuscire a vederla, assaporarla, finiamo con il convincerci che c’è, finiamo con il dare forma, peso, altezza alle nostre allucinazioni.
Finiamo per dare un cuore, sentirlo pulsare, quando in realtà è solo il nostro a battere per entrambi, un cuore per due persone.. pensa a quanta fatica dovrebbe fare per pulsare per entrambi, per ossigenare entrambi, per dare la forza, il sostegno la vitalità a due corpi.
Spesso facciamo l’assurdo errore di scambiare il nostro cuore per un caricabatterie universale.
Ci incastriamo in situazioni sfidanti, in una partita di gioco d’azzardo dove il monte premi però è molto più basso del costo della partita. Reiterando le nostre mosse, perdendo e perdendo ancora, nonostante l’ovvietà. Nonostante qualche piccola vincita, la perdita è nettamente superiore.
È un errore questo, che spesso può accadere quando ci si ritrova ad avere a che fare con i sentimenti… ci incaponiamo con situazioni che non fioriscono, con energie che non vibrano, con melodie che stonano, in una modalità schizoide e saturante.
Perché mai un pianista dovrebbe voler suonare un pianoforte non accordato?
Potrebbe certamente provare ad accordarlo una volta, ma se non dovesse funzionare non si esibirebbe ai suoi concerti con quel pianoforte…
Eppure succede che anche quando ci rendiamo conto che un sentimento non funziona, ci incaponiamo, proviamo e riproviamo, ci facciamo male, ma non riusciamo a lasciarlo andare.
Sappiamo che non fa per noi, che ci sta scaricando, privando di energia, di luminosità, perfino quando il dolore ci sovrasta gli restiamo ancorati in una modalità psicotica.
Finiamo con il suonare e risuonare le melodie con note stonate, magari mettendoci anche dei tappi alle orecchie pur di non sentire il rumore assordante.
Ci mettiamo delle bende agli occhi per non vedere il marcio, tappi per non sentire il frastuono, e cerchiamo invano di far funzionare ripetutamente qualcosa che non va.
Quanto sarebbe più facile a questo punto lasciar andare tutto? Lasciar andare il macigno, sentirsi più leggeri, più in sintonia con se stessi, senza più dover cercare di ricaricare incessantemente un qualcosa che è destinato a scaricarsi in eterno?
Quanto sarebbe più facile smettere di sorreggere una costruzione traballante, essendo consapevoli che non appena saremo noi a staccare anche per pochi istanti una mano, questa inevitabilmente crollerà?
Come possiamo sperare di poter mantenere, ricaricare in eterno qualcosa che non ha la possibilità di autoalimentarsi o co-alimentarsi.
Quando si parla di sentimenti, legami, relazioni si parla di condivisione, di unione, di scambio, di vita, passioni, di reciprocità.
Un’unione presuppone equilibrio di forze, sinergia, nutrimento per entrambi, punti di incontro non imposti, un venirsi incontro spontaneo, una comunicazione sincrona.
Un caricarsi a vicenda, un posto in cui le energie ce le si scambia, ce le si dona reciprocamente.
Una relazione è a due, a due corpi, a due anime, a due forze.
Quando è solo uno che alimenta per due è un caricabatterie.
benedetta racanelli
tirocinante di psicologia
presso lo studio burdi