
La Lettera Terapia
Scrivere di sé può avere effetti terapeutici.
Mettere le parole nero su bianco permette un processo di rielaborazione dei pensieri: la confusione prende forma, si crea ordine e la comprensione migliora.
Attraverso la scrittura è possibile cercare significato nelle cose che accadono e che magari, anche a distanza di tempo, a volte di anni, ancora ci turbano.
La scrittura ha il vantaggio di fermare i pensieri che vagano confusi nella nostra mente, di dare una struttura e una forma. Ciò permette di comprendere e gestire meglio i disordini emotivi della vita.
Scrivere, esteriorizzare il proprio vissuto, le esperienze di vita traumatiche, i ricordi, le emozioni, i pensieri e le sensazioni, consente di elaborarli consapevolmente attraverso l’autoriflessione.
Friedrich Nietzsche sosteneva che dare un “perché” alle cose aiuta a sopportare il “come”.
Scrivere di se stessi è un po’ come prendersi cura del proprio benessere psico-fisico. Ci aiuta a mettere ordine e a ricostruire esperienze importanti che spesso ricordiamo in maniera confusa. È un esercizio di auto-aiuto, semplice, ma allo stesso tempo potente ed efficace.
La scrittura di sé, pertanto, può essere considerata una terapia strategica che aiuta a ridurre l’ansia, lo stress, ad elaborare gli eventi negativi ed alleggerire le tensioni emotive, a migliorare le relazioni e a liberare la mente da pensieri oppressivi.
Scrivere aiuta anche a prendere coscienza della natura del problema e ad avere una visione più chiara e nitida delle proprie emozioni, a far uscire la negatività, gli sconvolgimenti emotivi irrisolti che se non espressi in nessun modo, potrebbero trasformarsi in disturbi, malesseri, dolori.
È ormai noto come spesso, molti fastidi e disturbi, cefalea, mal di stomaco, tensioni muscolari ecc…non sono altro che tensioni interne non affrontate, nascoste.
È importante tirar fuori tutti i nostri pensieri, le nostre paure, angosce, dolori, sofferenze, senza pensare alla forma e alla correttezza di quello che scriviamo.
Non è necessario saper scrivere, basta avere qualcosa da raccontare.
Scrivere tutto quello che ci passa per la testa dando libero sfogo alle nostre emozioni, tutto d’un fiato, senza pause, con un ritmo incalzante come qualcosa che si affretta ad uscire.
Non ci devono essere restrizioni, cose non dette, taciute. A noi stessi possiamo e dobbiamo raccontare la verità.
Se avremo tirato fuori tutto, il nostro sguardo sarà proiettato in avanti, al presente e al futuro, senza più rimuginare sul passato.
Scrivere di sé risulta benefico perché permette una vera e propria catarsi emozionale. Non è tanto l’espressione delle nostre emozioni, quando il dare un senso a queste che migliora le cose.
Elisabetta Lazazzera
Tirocinante presso Studio BURDI
Laurea Magistrale in Psicologia Clinica e della Riabilitazione
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Nell’impossibilità, l’opportunità
Cosa è l’impossibilità? Come reagiamo quando sappiamo di non poter fare qualcosa, di non poter ottenere ciò che vorremmo, di non poter pianificare e indirizzare la nostra vita nella direzione prevista o progettata?
Abbiamo degli impedimenti, che possono sopraggiungere in un qualsiasi momento, ci sono delle resistenze che ci sbarrano la strada, come muri che si frappongono fra noi e ciò che vorremmo, impedendoci il transito.
Ci sono impedimenti di carattere mobile che, lavorandoci su, ci consentono allo stesso modo di continuare il nostro cammino, ci viene richiesto uno sforzo per abbatterli.
Ce ne sono altri che, al contrario, non dipendono da noi: le famose “cause di forza maggiore”.
La causa di forza maggiore che viviamo oggi, tutti, in un modo o nell’altro è il Covid-19.
È una “causa di forza maggiore” che ci sta impedendo di vivere come vorremmo. Ci viene richiesto di non avere contatti con le altre persone e questo ci costa quando gli altri sono le persone per noi fondamentali.
Ci viene chiesto di lavorare a casa e ancora una volta percepiamo il peso dell’isolamento.
Ci viene chiesto di essere responsabili, non solo per la nostra salute, anche per quella di chi ci sta vicino.
Percepiamo il carico di responsabilità che grava, sappiamo quello che dobbiamo fare.
Ma è pesante, è asfissiante, è logorante.
Ma mi chiedo, perché questo isolamento è così pedante?
Certamente c’è la mancanza delle persone per noi importanti, c’è la mancanza delle risate con i nostri amici e dell’abbraccio dalla mamma, nonna, amica, zia.
Ma siamo realmente, completamente soli? Con noi stessi, ci siamo noi.
Perché la compagnia che ci possiamo fare, prendendoci cura realmente di noi stessi è un peso?
Sembra che cerchiamo di rifuggire in ogni modo la possibilità di trovarci faccia a faccia con noi stessi.
Quando siamo con gli altri le attenzioni sono tutte su di loro, su ciò che ci dicono, su quello che hanno da raccontarci, sui loro problemi.
Siamo impegnati a presentarci in un certo modo per mantenere i nostri legami e perdiamo di vista il contatto con noi stessi.
Siamo completamente rapiti dalla presenza degli altri, siamo così impegnati a condurre la nostra vita cercando di non perdere nemmeno un minuto, nemmeno un secondo perché altrimenti siamo “indietro” rispetto a chi ci circonda e ci dimentichiamo chi siamo, dove stiamo andando e cosa vogliamo.
Perché ci pesa rallentare? Perché ci pesa prenderci cura di noi, dei nostri spazi, dei nostri pensieri, dei nostri desideri?
Forse perché in realtà non l’abbiamo mai fatto, forse perché non sappiamo come si faccia.
Viviamo nella frenesia del dover raggiungere, del dover vincere e superare chiunque ci sia affianco. Viviamo nella frenesia del dovercela fare, perché altrimenti non siamo nessuno.
E quando ce la facciamo, non sappiamo godere di quanto abbiamo raggiunto e ottenuto, perché siamo lì a pensare al passo successivo, alla prossima direzione da dover intraprendere e al prossimo obiettivo da dover raggiungere.
In questa frenesia la nostra persona e la nostra autenticità si perde, se non siamo abituati a stare con noi stessi, se non ci siamo presi del tempo per poter conoscerci, per capire chi siamo e dove vogliamo andare.
E allora perché non andare oltre la pesantezza e il grigiore di questo periodo, cercando di leggere l’impossibilità come opportunità, per ricercare il nostro vero colore?
Non stiamo parlando di far finta che intorno non ci stia succedendo niente, non è la negazione ciò a cui dobbiamo aspirare. Ma l’accettazione.
La situazione in cui viviamo oggi è questa, possiamo rimanere fermi nella campana di vetro che ci siamo creati crogiolandoci nella sofferenza e nella rabbia che stiamo provando, oppure possiamo ri-scoprirci o scoprirci e conoscerci per la prima volta.
Abbiamo del tempo che possiamo impiegare per scoprire cose di noi che ancora non sappiamo, possiamo scoprire una nuova passione o una vecchia abbandonata.
Possiamo immaginare, fantasticare, viaggiare con la mente.
Possiamo non fare nulla, possiamo assaporare la dolcezza e leggerezza del “dolce far nulla”.
Perché dobbiamo essere per forza impegnati? Perché tutto deve essere programmato?
Possiamo rendere più leggero quanto stiamo vivendo cambiando le lenti degli occhiali con cui guardiamo le cose: possiamo voler vedere anche quanto ci sta donando questo momento.
Per farlo, però, dobbiamo volerlo.
Il cambiamento lo vogliamo? Vogliamo sentirci leggeri? Vogliamo saper vedere il bello in ciò che ci circonda anche se sembra che sia tutto nero o grigio? Vogliamo il colore?
Se lo vogliamo allora sì, possiamo averlo.
Possiamo provare a cantare, a suonare, a dipingere, a leggere un libro, a stare sul divano, fermi, o a saltare per ballare o fare sport.
Possiamo fare quello che vogliamo, riscoprendo ciò che vogliamo.
Possiamo alzarci la domenica mattina e chiederci “cosa voglio fare oggi?” Voglio cucinare? Voglio dormire? Voglio scrivere?
Cosa vogliamo per noi stessi? E cosa ci serve per ottenerlo? Volontà.
Possiamo, se lo vogliamo, liberarci dalle briglie che la vita di tutti i giorni ci mette, possiamo liberarci della foschia in cui ci muoviamo ogni giorno, per tornare a vedere quanta luce c’è dentro di noi.
Non fuori.
La luce è dentro, e se le diamo la possibilità di espandersi allora lì si che sentiremo calore.
Se la soffochiamo, con doveri, impegni, se ci dimentichiamo che è lì, che va coccolata, accolta, rinforzata, sentiamo freddo.
Allora in questo momento possiamo concentrarci su noi stessi, un sano narcisismo, che ci porti a prendere cura di noi e dei nostri desideri, delle nostre passioni.
Possiamo ricentrarci rispetto alla nostra persona.
Fabiana Manghisi
Tirocinante presso lo Studio Burdi
Laurea Magistrale in Psicologia Clinico-Dinamica
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Il viaggio
È importante nella nostra vita avere obiettivi personali e professionali che danno un senso alla nostra esistenza, ci spingono a testare i nostri limiti e a sviluppare le nostre potenzialità.
Fondamentale è la motivazione, ovvero l’insieme di energie che ci spinge al raggiungimento dell’obiettivo prefissato.
Gli obiettivi ottimizzano i nostri sforzi concentrando le nostre energie, lavorano su di noi, sul passaggio dalla persona che siamo alla persona che vogliamo diventare.
La pianificazione rende gli obiettivi plausibili.
Non esiste un viaggio che non sia iniziato con la pianificazione e con il primo passo. Senza un’idea chiara di ciò che vogliamo compiere, non possiamo neanche iniziare.
Avere obiettivi ben definiti nella nostra mente ci permetterà di riconoscere con più facilità le opportunità che ci porteranno a realizzarli. Raggiungere obiettivi abbastanza ambiziosi ed entusiasmanti si concretizza in una sfida per noi stessi.
È necessario non perdere mai la propria autenticità rincorrendo obiettivi comuni e standardizzati solamente per far piacere agli altri, per convenzioni sociali.
Il viaggio verso il raggiungimento dei nostri obiettivi avviene di pari passo con l’evoluzione del nostro “io”.
Avere una buona autostima permette di affrontare positivamente il viaggio verso la realizzazione dei propri obiettivi, il raggiungimento di traguardi, l’auto-affermazione, cioè la consapevolezza di aver dato un senso alla propria vita, di essere ciò che si voleva essere e di essere diventati ciò che si voleva diventare.
Sicuramente, essere affiancati e accompagnati nel nostro viaggio da un partner che alimenta le nostre passioni, che condivide i nostri obiettivi e quello in cui crediamo, è una grande ricchezza, un valore aggiunto.
Qualcuno che ha fiducia in noi e ce la trasmette, qualcuno che non sminuisce quello che facciamo o vogliamo, seppur non lo condivide appieno. Che gioisce per i nostri successi ed esalta le nostre potenzialità. Che festeggia i nostri risultati e ci invita a farlo.
Qualcuno con cui siamo squadra, con cui abbiamo la possibilità di crescere l’uno accanto all’altro in modo armonioso e felice.
Elisabetta Lazazzera
Tirocinante presso lo studio BURDI
Laurea Magistrale in Psicologia Clinica e della Riabilitazione
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Come un martello pneumatico – L’importanza della comunicazione
Come un martello pneumatico
L’importanza della comunicazione
Il modo in cui comunichiamo con gli altri e le relazioni interpersonali che instauriamo determinano la qualità della nostra vita ed influenzano la nostra salute fisica e mentale.
Comunicare significa mettere in comune: condividere pensieri, opinioni, sensazioni, sentimenti, emozioni.
Qualsiasi tipo di relazione non può prescindere dalla comunicazione.
La comunicazione è l’essenza di ogni relazione, l’incapacità di comunicare ne è invece il fallimento.
La comunicazione può guarire o ammalare un rapporto.
Una comunicazione poco efficace, sbagliata, disfunzionale, genera molto spesso incomprensioni, fraintendimenti, equivoci, problemi, tensioni, conflitti e discussioni.
La mancanza di una buona comunicazione crea spesso distanze. Se non si cerca subito un confronto, un chiarimento, una spiegazione, si rischia di essere risentiti e serbare rancori.
Il rancore è un’emozione negativa che ci riempie e ci logora, che rende infelici e fa soffrire.
Quando qualcuno ci delude con un comportamento scorretto, con delle parole offensive, mancandoci di rispetto, trasformiamo in rancore la tristezza provocata dalla delusione.
Spesso il rancore è una forma di difesa, qualcosa che inconsciamente ci evita di soffrire, ma in realtà è un’emozione non risolta, una rabbia repressa, pertanto il nostro malessere continua e perdura nel tempo.
Far finta che il rancore non esista porterà un accumulo di rancori sempre più grande e sempre più difficile da gestire.
È importante saper controllare e affrontare il rancore. È importante, soprattutto, non serbare rancore.
Bisogna chiarire le incomprensioni, confrontarsi, chiedere e pretendere spiegazioni. Comunicare in modo efficace, far capire le proprie emozioni, il proprio stato d’animo.
Bisogna chiedere risposte alle nostre domande, in maniera insistente, come un martello pneumatico, intensamente, senza lasciare spazio per tergiversare, finché non ci vengono date, finché non abbiamo capito, finché non siamo più risentiti del comportamento e delle parole altrui.
Elisabetta Lazazzera
Tirocinante presso Studio BURDI
Laurea Magistrale in Psicologia Clinica e della Riabilitazione
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La Depressione: un vaso di rabbia
La depressione, chiamata da Freud melanconia, viene definita come lutto senza fine e senza elaborazione.
Uno dei precursori maggiormente incidenti rispetto all’insorgenza della depressione è stato rintracciato nelle possibili perdite precoci durante l’infanzia.
La perdita precoce non è sempre reale e verificabile (come la morte), può essere interna e psicologica.
Un esempio è l’abbandono dello stato di dipendenza da parte del bambino, in seguito a negligenza da parte del genitore, ancora prima che il bambino sia effettivamente pronto alla separazione.
Secondo Furman, il processo di separazione- individuazione si risolve in dinamiche depressive anche quando la madre non accetta l’autonomia del bambino e si aggrappa inducendo, nel bambino, un senso di colpa per la sua emancipazione o rifiutandolo nel momento in cui torna nelle sue braccia per ricevere sicurezza e calore.
Accanto alla dinamica della perdita dell’oggetto d’amore, incidenti rispetto alla depressione appaiono anche famiglie sorde e cieche rispetto ai bisogni del bambino, famiglie noncuranti che mostrano apatia nei confronti dei figli o, ancora famiglie che scoraggiano ogni tipo di sofferenza.
Il bambino apprende di non poter esprimere il proprio dolore, di non poter chiedere aiuto perché non c’è nessuno che risponde alla richiesta con la protezione e l’affetto necessario.
La dinamica centrale della depressione sembra essere il volgimento verso l’interno del sentimento di rabbia che si manifesta sotto forma di una continua autosvalutazione messa in campo dai soggetti depressi: in realtà la rabbia è rivolta verso l’interno dal momento che il soggetto si è identificato con l’oggetto d’amore perduto (realmente o psicologicamente).
I soggetti depressi, così, dirigono verso il Sé i principali affetti negativi effettuando un vero e proprio sadismo contro il Sé.
Si tratta, infatti, di soggetti che non provano rabbia spontanea, si sentono spesso colpevoli per i loro sentimenti ostili di natura interpersonale.
Nel processo di introiezione e identificazione con l’oggetto d’amore perduto i soggetti depressivi si attribuiscono le qualità più odiose dell’oggetto in questione, mentre le parti affettuose e positive dell’oggetto vengono esclusi dal Sé e ricordate con affetto e tenerezza.
Un bambino che viene abbandonato da una persona per lui fondamentale proverà ostilità e tenderà a proiettare tale sentimento nel tentativo di elaborarlo.
Tramite la proiezione è il padre o la madre (l’oggetto d’amore) ad essere arrabbiato con lui.
Per il bambino questa è una situazione di tensione, è doloroso pensare che l’oggetto sia arrabbiato, è difficile da accettare, così il passaggio successivo è l’identificazione con questa parte rabbiosa dell’oggetto.
Il bambino fa a sua la parte ostile, aggressiva e rabbiosa nella speranza che ci possa essere una riappacificazione.
Da questa dinamica deriva la percezione del Sé come complessivamente cattivo, insufficiente, non meritevole. È il Sé ad essere colpevole della perdita subita.
La sensazione di essere stati rifiutati, abbandonati, viene trasformata nella convinzione inconscia di non essere meritevoli di vicinanza, di aver causato l’abbandono e di meritare il rifiuto.
Immaginiamo di aver perso una persona per noi significativa e immaginiamo di credere che la colpa di tale perdita sia nostra: tenderemo con tutte le nostre forze a recuperare il rapporto, cercando di provare affetti postivi verso la persona che abbiamo deluso e perso.
In questo contesto emotivo-affettivo è impossibile riconoscere i sentimenti di ostilità come connaturati al processo relazionale.
La possibilità di esperire affetti negativi e sentimenti ostili verso l’esterno e verso gli altri è, inoltre, bloccata da un Super-Io severo e rigido che induce al senso di colpa: si assiste ad un “autoaggressione dell’Io da parte del Super-Io”.
Così, l’insorgenza della depressione in età adulta è spesso causata da nuove esperienze di perdita, abbandono e rifiuto che riaprono la ferita originaria e che ridestano il sentimento del senso di colpa.
Nel momento in cui subiamo una perdita, il nostro mondo relazionale e il nostro mondo interno appaiono impoveriti: sperimentiamo una condizione di vuoto.
Nei soggetti depressi questo vuoto viene colmato con la rabbia, che non viene espressa nel contesto relazione e che diviene una vera autoaccusa.
La percezione della rabbia non viene annullata, è lì presente, percepita, ma rivolta esclusivamente verso il Sé. Riempie ma accusa, denigra e svaluta.
Un passo avanti verrà fatto solo quando i sentimenti e gli affetti ostili non saranno rivolti solo ed unicamente verso il sé, quando si riconoscerà la reciproca responsabilità nel processo relazione e nel suo possibile fallimento: quando avremo un elaborazione del lutto.
Quello che il soggetto depresso ha appreso è di non poter esprimere affetti negativi, di doverli contenere e reprimere. È importante che questi emergano, che appaiono nella loro dirompenza in modo da raggiungere un nuovo equilibrio che ne prevede la realizzazione attraverso modalità consone.
Le relazioni funzionali sono relazioni caratterizzate da ambivalenza: affetti positivo e negativi coesistono; gli affetti negativi che ci appaiono distruttivi possono essere costruttivi quanto quelli positivi, ci aiutano nella costruzione interpersonale di rapporti all’interno dei quali poterci esprimere e realizzare.
È la falsità o la mancanza di contatto che provocano solitudine e abbandono: esattamente come noi notiamo quando qualcuno ci cela i suoi affetti e le sue emozioni, gli altri se ne accorgono rispetto alla nostra persona.
Si tratta di apprendere un nuova modalità di espressione personale, rispetto alla quale dovremmo sentirci liberi e soddisfatti.
Esprimere la rabbia, sarà distruttivo, solo se ci interfacceremo con persone che reagiscono in modo patologico ad affetti negativi.
Contattare la rabbia, capirne la causa, esprimerla, ci consente di contattare quella sensazione di vuoto evitata, la cui accettazione ci consente di andare avanti, sperimentando nuovi affetti positivi e nuove dinamiche relazionali.
Fabiana Manghisi
Tirocinante presso lo Studio Burdi
Laurea Magistrale in Psicologia Clinico-Dinamica
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ANAFETTIVITÀ e Il diritto all’ emozione
Una delle nostre caratteristiche in quanto esseri umani è quella di essere costantemente in relazione con gli altri.
Si tratta di relazioni che possono essere più o meno significative ma che ci coinvolgono quotidianamente, e spesso si tratta della principale dinamica che ci porta a interrogarci sulla nostra persona.
Possiamo avere la tendenza a ricercare la vicinanza degli altri, o al contrario, ad evitarla con tutte le nostre forze.
Le relazioni interpersonali ci chiedono un minimo di autosvelamento, ci viene chiesto di metterci in gioco e di lasciare all’altro la possibilità di “vedere”.
Le relazioni che caratterizzano la nostra vita divengono significative non solo con il tempo, ma soprattutto con l’impegno che poniamo nel loro mantenimento e nutrimento, con l’impiego di affetti ed emozioni.
Gli affetti non sono fenomeni individuali, che in taluni momenti, possono scontrarsi l’uno con l’altro; sono fenomeni interindividuali e intercomuni che si elicitano nelle relazioni.
Quando parliamo di anaffettività facciamo riferimento ad un’incapacità nel relazionarsi con gli altri ad un livello profondo, che richiede empatia e consapevolezza personale.
Le persone anaffettive sono spesso persone non consapevoli di se stessi, dei propri stati mentali, affettivi ed emotivi e che pertanto tendono all’isolamento.
La regolazione emotiva ed affettiva, che quindi influenza le nostre relazioni, non è qualcosa di cui siamo muniti fin dalla nostra nascita, è una capacità che acquisiamo ed apprendiamo all’interno del contesto relazionale primario, in cui la relazione con i nostri caregivers funge da esempio e modello per le relazioni successive.
Secondo il modello dell’attaccamento di Bowlby la ricerca della vicinanza fisica, mentale ed emotiva che il neonato brama fin dalla nascita è essenziale per la sua sopravvivenza.
La qualità di questa prima relazione influenza lo sviluppo del bambino, che interiorizza, sotto forma di modelli operativi interni quelle che sono le modalità relazionali proprie di questa prima fase che influenzeranno le successive relazioni.
Secondo Bowlby si possono realizzare tre tipi di attaccamento, a cui sono associati diversi pattern relazionali e di regolazione emotiva:
- Attaccamento sicuro: il bambino, e futuro adulto, è in grado di sperimentare un ampia gamma di affetti, che comprendono anche emozioni negative come paura e rabbia e raggiunge una sempre maggiore capacità nel rispondere ai propri bisogni in un cammino che conduce all’autonomia. Il caregiver è responsivo e presente, si sintonizza con gli stati affettivi ed emotivi del bambino consentendo una progressiva consapevolezza da parte di quest’ultimo. I bambini, e gli adulti, con un attaccamento sicuro sono capaci di verbalizzare i propri stati emotivi e di comunicarli agli altri.
- Attaccamento evitante: il bambino tende ad inibire l’espressione emozionale e ad auto consolarsi in modo eccessivo. Espressione di angoscia e rabbia vengono represse ed evitate e questo conduce all’esclusione di emozioni come paura, tristezza e dolore. Alla base della vita affettiva di questi bambini, e futuri adulti, vi è distanziamento affettivo, negazione dell’importanza delle relazioni, dei bisogni del sé e degli affetti negativi. Si tratta di adulti incapaci nel riconoscere i propri stati interni, che non hanno raggiunto consapevolezza personale dal momento che nessuno, quando erano bambini, ha riconosciuto tali stati emotivi e affettivi, favorendo il cammino di consapevolezza e autonomia. Si tratta di bambini che sono rimasti in attesa di uno sguardo materno mai giunto, e che per proteggersi hanno iniziato ad evitare relazioni.
- Attaccamento ambivalente\distanziante: i bambini, e i futuri adulti, tendono a mantenere il controllo nel contesto relazione con l’esasperazione di emozioni e affetti negativi, in modo da ottenere attenzione da parte del caregiver. Si tratta di bambini che pensano di non poter ottenere una risposta adeguata dal caregiver e che per questo accentuano le proprie sofferenze e i propri bisogni. Tale esasperazione, a cui segue la risposta ricercata e attesa, non li conduce verso un’autonomia regolativa emotiva. Sono soggetti incapaci di autoconsolazione ed esplorazione del mondo esterno.
- Attaccamento disorganizzato: il mondo affettivo del bambino è altamente contradditorio e frammentato. Si tratta di soggetti che vivono emozioni intense e sono soli nella loro regolazione, non hanno potuto apprendere alcun tipo di strategia nel contesto relazionale. Questo perché il caregiver è stato allo stesso tempo fonte di sostegno e protezione ma anche di paura e angoscia. Questo ha portato il soggetto a non acquisire una strategia di regolazione emotiva adeguata, avendo paura sia della vicinanza che della lontananza.
Quella che può essere, quindi, una mancata capacità nel contatto di affetti ed emozioni, che ci consente di creare relazioni significative e durature ha una sua spiegazione.
Questi modelli relazionali non devono essere intesi come qualcosa di immodificabile: la possibilità di far esperienza di contenimento, rispecchiamento e comprensione empatica aiuta nella rivisitazione di questi modelli, consentendo una loro resa maggiormente funzionale ed adeguata.
La risoluzione non sarà istantanea e spesso ci richiederà una dura messa alla prova, dove le emozioni potranno apparirci dirompenti, esplosive e incontrollabili, ma ci servirà tempo e maggiore consapevolezza personale.
Si tratta del famoso vaso di pandora: se siamo abituati a sopprimere le nostre emozioni, i nostri affetti, appena daremo loro modo di esprimersi tenderanno a fuoriuscire con tutta la loro dirompenza.
Allo stesso modo, se abbiamo appreso di poter ottenere attenzione, affetto, cura solo esasperando i nostri stati d’animo allora la loro regolazione, in termini autonomi, senza risposte esterne ci richiederà sacrificio e accettazione del dolore legato alla separazione dall’oggetto d’amore che non abbiamo mai realmente raggiunto.
Se abbiamo appreso che la rabbia è cosa brutta, così come la tristezza, e che piuttosto che provarle, accoglierle, contenerle e abbracciarle dobbiamo evitarle, sopprimerle e censurarle il percorso che ci porterà alla loro accettazione e al loro elogio sarà lungo e complesso.
Entrare in con-tatto con le nostre emozioni, assaporarle, accettarle ci richiede un abbandono di quelle che sono le dinamiche di ipercontrollo che solitamente adottiamo verso i nostri desideri e i nostri impulsi.
Ci richiede una piena sintonia con quella che è la nostra essenza più profonda, con la possibilità di una sua piena espressione.
Abbiamo il diritto di sentire ciò che sentiamo, abbiamo il diritto di esprimere quello che proviamo e solo dopo aver dato alle nostre emozioni la possibilità di esprimersi potremo ricercare una loro adeguata regolazione, che elude quello che è il pieno controllo.
Controllare implica una sorta di onnipotenza verso noi stessi e verso il mondo esterno, che ci limita nell’esprimerci in virtù di quelle che sono spesso imposizioni esterne che facciamo nostre.
Regolare le nostre emozioni ci consente di esprimerle, sempre, nel miglio modo possibile, in modo che non siano problematiche per noi e per gli altri senza però rinunciare alla loro affermazione.
Fabiana Manghisi
Tirocinante presso lo Studio Burdi
Laurea Magistrale in Psicologia Clinico-Dinamica
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GLI IMPULSI – Libertà di espressione
Quando pensiamo all’impulso siamo soliti pensare a qualcosa di negativo, incontrollabile e pauroso.
Qualcosa che ci mette a disagio perché, spesso, ci mette faccia a faccia con i nostri desideri più profondi e le nostre voglie taciute.
L’elemento di paura e distacco è dovuto dalla tendenza alla negazione dei nostri impulsi e dei nostri desideri.
Abbiamo imparato fin da piccoli che spesso poco importa ciò che vogliamo fare, pensare, ottenere; abbiamo imparato che importa ciò che ci si aspetta da noi; impariamo che per ottenere amore, approvazione, affetto dobbiamo cercare di eludere aspetti della nostra persona e della nostra volontà in modo da accontentare.
Questo ci porta spesso a non ascoltarci, ad essere sordi verso il nostro Sé profondo, ci porta a dar voce al nostro Sé apparente, che si è formato sulla ricerca dell’accettazione altrui.
Il Sé che indossiamo come maschera e che ci illudiamo ci rispecchi, che presentiamo agli altri e che cerchiamo di mantenere integro con tutte le nostre forze.
Per far ciò dobbiamo necessariamente mettere a tacere il nostro impulso e desiderio più profondo e vero; lo mettiamo lì in un angolo sperando di averlo imbavagliato al meglio.
Ma sappiamo che è lì, che trama e cuce anche se in silenzio. Sentiamo che sbatte i piedi come un bambino che chiede ascolto e attenzione.
Il bambino non ascoltato, prima o poi arriva ad urlare per dimostrare la sua esistenza. Così i nostri impulsi.
L’irruenza e l’incontrollabilità dei nostri desideri e impulsi deriva dal fatto che non siamo abituati ad ascoltarli e realizzarli, per aderire alle richieste altrui, che interiorizziamo e facciamo nostre.
Per paura di mostrare chi siamo davvero, cosa possiamo ottenere e dove, inevitabilmente, non possiamo arrivare evitiamo il contatto, l’esperienza e ci “accartocciamo” su noi stessi.
Se non ci imbarchiamo in eventi ed esperienze non possiamo rimanerne delusi ed evitiamo di esporci alla disapprovazione o alla costrizione di essere ciò che non siamo.
Tratteniamo tutto all’interno, non lasciamo fluire e ci ingolfiamo. Siamo tesi, arrabbiati, tristi… siamo pieni, pesanti.
La chiave, in questo, è la consapevolezza del diritto a poter essere chi scegliamo e vogliamo essere: essere consapevoli della nostra persona ci permette di capire le nostre potenzialità e i nostri limiti, inevitabili.
Ci permette di vivere senza la paura del fallimento, con la possibilità di dar voce alla nostra volontà e ai nostri desideri, che non sono quel bambino che scalpita e si dispera ma sono pozzo a cui attingere per la dimensione di piacere che dovremmo ricercare nelle nostre azioni e nei nostri progetti.
Ascoltarci e capirci non è cosa semplice. È sforzo continuo, è esercizio e tentativo.
Ascoltarci significa permetterci di sbagliare e di essere felici, arrabbiati, scontrosi, affettuosi. È dar vita a ciò che proviamo con una canzone, con un dipinto, con una lettera.
È creazione e creatività.
Siamo arte, se solo ci dessimo la possibilità di essere, senza la ricerca spasmodica di specifiche modalità di espressione.
Fabiana Manghisi
Tirocinante presso lo Studio Burdi
Laurea Magistrale in Psicologia Clinico-Dinamica
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I bordi della pizza – preservare i confini personali
Fin dai nostri primi momenti di vita, in quanto esseri umani, siamo posti in relazione con Altri, che sono per noi fonte di sopravvivenza.
Queste relazioni ci consentono di vivere perché tramite queste rispondiamo ai nostri bisogni essenziali, ma ben presto divengono molto di più: sono fonte di riconoscimento, amore, protezione, affetto e cura.
Divengono braccia che accolgono e mani che accarezzano.
Ma cosa accade quando la stretta dell’abbraccio è troppo forte e ci si confonde l’un con l’altro?
Cosa succede quando non ci viene permesso di differenziarci e di divenire un Sé pieno, saldo e coeso?
Giungono sentimenti di confusione, indefinitezza e colpa che sperimentiamo ogni qual volta cerchiamo di far esperienza del mondo che è oltre la stretta di quell’abbraccio.
Giungono quando ci rendiamo conto che siamo fusi con l’Altro, che ci ama, ma che allo stesso tempo non ci lascia liberi.
E vivere questa libertà diviene una colpa, che evitiamo convincendoci che in fin dei conti quell’abbraccio non è poi così stretto, che è un abbraccio necessario per proteggerci, per essere al sicuro. E rimaniamo lì, in un calore che sì è tale, ma che allo stesso tempo ci soffoca.
Vivere simbioticamente ci richiede la piena giustificazione per l’altro, la piena sottomissione dei nostri desideri e della nostra libertà per il mantenimento di una relazione conosciuta solo nei termini di un annullamento personale.
Sottrarsi a quell’abbraccio significa voltare le spalle e abbandonare l’altro, perché non conosciamo altra via per la relazione, perché è l’unica che abbiamo mai conosciuto.
Lo stato di fusione ci porta non solo a rinunciare a noi stessi, ma a caricarci di pesi, ansie, preoccupazioni che non sono nostri, che non ci appartengono e verso le quali dovremmo proteggerci.
È un modello relazionale che acquisiamo a partire da quando siamo bambini, nel nostro contesto familiare, spesso caratterizzato da confini flebili, in cui tutti i membri della famiglia sono coinvolti nelle vicende senza una piena differenziazione dei ruoli: il genitore amico che chiede aiuto al figlio per la risoluzione di un conflitto coniugale, il figlio come confidente di ansie e preoccupazioni.
Quello che apprendiamo è che abbiamo un ruolo salvifico per i nostri genitori e per l’intero sistema famigliare e se da un lato questo può essere motivo di adulazione personale dall’altro ci carica di una responsabilità che non sappiamo come gestire, che ci richiede la perfezione e l’onnipotenza.
Il processo di separazione e di individuazione fa parte del processo evolutivo che ci consente di divenire adulti: segna il passaggio da uno stato iniziale in cui non vi è differenziazione con la madre ad uno in cui si realizza un sé separato, autonomo, con la consapevolezza delle proprie caratteristiche individuali.
Essere consapevoli dei confini della nostra persona, guardarli e demarcarli non significa ergere un muro verso le persone per noi significative. Ponendo dei confini non stiamo abbandonando nessuno: ci stiamo proteggendo.
Vivere in un continuo stato di invischiamento è debilitante. Poniamo in secondo piano, se non terzo, la nostra persona, i nostri obiettivi, i nostri desideri.
Possiamo pensare ai confini personali come ad un recinto: stabiliamo noi l’altezza, stabiliamo quando deve essere aperto e quando chiuso.
Porre dei confini ci consente di guardare prima noi stessi, di sentire ciò di cui abbiamo bisogno in un dato momento e comportarci di conseguenza. Possiamo essere liberi di stabilire quali ansie e preoccupazioni ci appartengono e quali no.
Ci diamo la possibilità di arricchirci della presenza dell’altro, senza essere necessariamente e inevitabilmente sopraffatti. Questo significa essere anche maggiormente disponibili, riuscire a comprendere meglio proprio perché non si è in uno stato di confusione e indifferenziazione.
“Non è possibile vivere solo di problemi, ogni tanto è necessario anche voler mangiare una pizza insieme, distrarsi”: la dimensione della condivisione, del piacere della presenza dell’Altro è ciò che ci rende vivi, ciò he ci rende umani. Possiamo realmente goderne quando sappiamo chi siamo, quando sappiamo stare con l’Altro senza che questo significhi per noi perdita o sopraffazione.
Anche la pizza ha dei bordi, a volte sottili, a volte spessi. Ma ha pur sempre dei bordi.
Fabiana Manghisi
Tirocinante presso lo Studio Burdi
Laurea Magistrale in Psicologia Clinico-Dinamica
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IL NODO – Sciogliere i problemi con la consapevolezza.
Non poche volte, nell’attesa che le sedute inizino, la mia attenzione si è fermata su un pendolo di Newton ingarbugliato e messo sulla mensola più alta della libreria dello studio. Quasi nascosto, tra i trattati di psicologia e le opere di Carl Gustav Jung, dev’essere caduto più volte o è, forse, il risultato del nervosismo di qualche paziente. Comunque, per me è un simbolo: l’immagine dell’intervento della vita, sulle precise teorie della conservazione del moto e dell’energia, codificate dal citato fisico inglese.
I cavi delle palline sono annodati tra loro e bisognerebbe perderci un po’ di tempo, per risistemarli nella loro posizione originale e farne ripartire oscillazione e ticchettio. Mi perdoneranno i filosofi naturalisti, ma quel marchingegno per come sta combinato, appartiene ormai a tutt’altra scienza, quella che studia e permette il lavoro continuo, intimo e personale, a colui che ha scelto di intraprendere seriamente, il percorso psicoanalitico. Il viaggio dentro se stessi capace di individuare e sciogliere quei nodi che presente o passato hanno stretto da qualche parte, nell’anima, attraverso le vie della consapevolezza; l’unica strada che ci permette di guardare al limite, al blocco che strenuamente ci terrorizza, come occasione di libertà e rinascita; di accettazione e superamento.
Quella consapevolezza (cum-sapere), è il permesso che diamo a noi stessi, di considerare attentamente ciò che viviamo. Il punto più alto che risulta dalle coordinate della nostra coscienza e della conoscenza che ricaviamo dal mondo. Per questo motivo è un cammino orientato, uno studio senza sosta, un impegno preciso. Solo la consapevolezza spiega i nostri nodi per farceli, poi, districare. Essa impone un primo movimento, il primo passo della danza della nostra alba, è saper dare un nome a quel dannato intreccio, sempre scoordinato delle nostre attese, visto che piantarsi nella pace sconta sempre i solchi del dolore: dipendenze, nevrosi, paure, défaillances amorose e sessuali hanno tutte, alla radice, un nodo su cui il problema rivive nella memoria (come un nodo al fazzoletto) e detta a noi, continuamente, sentimenti ed emozioni (come un nodo in gola).
E più un nodo risulterà serrato, più avrà bisogno degli strumenti che soltanto terapeuta e analisi potranno fornire, nonché della pazienza di chi sa amarsi.
Ma non ci sono scorciatoie? Alternative? Un viaggio low-cost, un’offerta last minute, un’“all can you think”? Certo, su quelle che si conoscono, ne spiccano due, opposte tra loro, ma ugualmente deleterie.
- La soluzione alessandrina.
Come nel mito di Alessandro Magno, se un nodo non può essere sciolto, lo si taglia.
Risultato: ci si libera, ma non si ottiene il risultato desiderato. L’oracolo, nel mito, prometteva a chi scioglieva il nodo, il dominio assoluto e imperituro su tutte le terre dell’Asia. Alessandro si fermò all’Indie e morì giovane.
Applicazione pratica: affrontare il problema, seppellendolo in noi stessi, non lo risolve.
- L’opzione Flaubert (c’cang, mang. Tr.: chi muta, banchetta)
L’ultimo romanzo (incompiuto) di Gustave Flaubert si chiama Bouvard e Pécuchet (1881). Parla di due copisti che incapaci di gestire le loro difficoltà, non fanno altro che cambiare continuamente mestiere, rendendosi fallimentari (e ridicoli) in ogni attività. Ad un passo dal suicidio, decidono, dopo altri paradossali ingaggi, di tornare alla loro occupazione originaria.
Risultato: cambiar vita e abitudini non risolve i conflitti personali, anzi moltiplica solo i giri sul nodo scorsoio del rimorso.
Applicazione pratica: si perde più tempo nel distrarsi che nel diventare consapevoli.
Mentre scrivevo, spontaneamente mi è venuta in mente una canzone che ha come titolo: “Il nodo” (Raf-Pacifico), il ritornello recita: “Da lontano il nodo non cede per niente/un serpente che stringe e respira/anche quando mi nomini a mente si sente./Da lontano quel nodo non cede non molla/come colla ogni giorno più dura/anche quando mi nomini a mente si sente”.
Il nodo a cui viene fatto riferimento, ovviamente, dipinge momenti felici che non ci sono più, ma che continuano a rivivere nella mente dell’autore, in maniera imprevedibile. Nel nostro viaggio, potremmo trovare anche “nodi buoni” messi lì dagli eventi o da chissà quale addio. Forse, hanno la stessa irruenza dei nodi che contavano i marinai per definire la velocità delle navi e che oggi restituiscono a tutti, la forza dei venti. Ci sono nodi che vanno sciolti necessariamente e ci sono nodi che vanno tenuti così e che, forse, ci stanno indicando che la vita la stiamo solcando a una buona velocità. Quella vita che è nostra. Solo la nostra.
luca
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I PENSIERI INTRUSIVI
I pensieri ossessivi sono costituiti da idee, immagini o impulsi non volontari che si ripresentano più volte nella mente di un individuo; possono riguardare paure persistenti di venire feriti, paure irragionevoli di ammalarsi o ancora, eccessiva ricerca della perfezione.
I pensieri ossessivi possono essere paragonati a dei punti, piccoli, che quasi non vediamo ma che appena notiamo, concentrandoci, divengono sempre più grandi e imponenti. Sono pensieri “pesanti”, inabilitanti, che sottraggono energie e ci lasciano senza fiato.
Sono pensieri che ci riguardano e ci coinvolgono, quasi a sedurci con la loro litania e intrusività.
Ma cosa celano questi pensieri? E perché hanno così tanto potere sulla nostra mente?
Ci sottraggono dal peso della responsabilità di una decisione. Ci fanno sentire in balia dell’avvenire con alcuna presa sul mondo e sulla nostra vita; siamo una barca, in mezzo al mare, che naviga senza comando al timone.
I pensieri ossessivi ci permettono di non vedere tutto quello che chiede responsabilità: una separazione, un distacco, l’accettazione di un fallimento.
Sono pensieri che ci lasciano in uno stato di indefinitezza che lascia aperte tutte le possibilità senza che nessuna venga mai realmente compiuta.
Ma la nostra vita oltre che di pensieri è fatti di eventi che solo noi possiamo realmente concretizzare; ma per questo dobbiamo riporre fiducia nelle nostre risorse e nelle nostre capacità.
I nostri pensieri intrusivi non sono “noi”, non sono il nostro essere e la nostra essenza. Sono il miglior espediente che abbiamo trovato per far fronte al senso di colpa.
Ma l’espediente ci limita e non ci potenzia, ci deruba della nostra vitalità e delle possibili infinite vie di espressione.
Chi siamo realmente oltre i nostri pensieri? Ma soprattutto, chi vogliamo essere? Cosa scegliamo di essere per noi stessi?
La nostra più grande potenzialità è la scelta.
Ma è proprio la scelta, spesso, a spaventarci e a metterci all’angolo perché abbiamo paura di deludere, di deluderci; pensiamo di non essere abbastanza e di non essere capaci.
In realtà solo noi possiamo scegliere chi essere, come esserlo, come esprimerci e quando farlo. Si tratta della più grande ricchezza che possediamo e che dobbiamo solo scoprire prendendoci cura dei nostri limiti, abbracciando le nostre infinite risorse che consentono di riprenderci il timone, liberi di navigare nella direzione preferita.
Fabiana Manghisi
Tirocinante presso lo Studio BURDI
Laurea Magistrale in Psicologia Clinico-Dinamica
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