
La famiglia del mulino nero
La famiglia del mulino nero.
Dinamiche di famiglie inesistenti
“Sembravano la famiglia del mulino bianco”. Quante volte abbiamo sentito o pronunciato questa frase.
Quante volte è stato usato questo archetipo collettivo per indicare un sistema familiare apparentemente felice, dove tutto è perfetto.
Un luogo dove ci si ritrova e ci si ama. Quel mondo ideale dove si è invincibili e questo ci fa sentire al sicuro.
La famiglia, centro dell’esistenza dell’individuo, principale luogo di apprendimento: attraverso le relazioni familiari si apprendono i ruoli e le modalità di relazione.
Sebbene non scegliamo la nostra famiglia di origine, ce la porteremo tutta la vita con noi, come il peso di un enorme bagaglio che accompagnerà il nostro viaggio.
Se siamo fortunati nel far parte di una famiglia equilibrata, basata su relazioni sane, riusciremo a sviluppare il senso d’indipendenza, a crescere personalmente ed emotivamente, a realizzarci, ma se in essa dovessero prevalere relazioni disfunzionali, tossiche e negative, ci troveremo un carico emotivo che ci farà sentire imprigionati in ogni fase, situazione e contesto della nostra vita.
Spesso nelle famiglie tossiche ci sono legami basati sui sensi di colpa e non esclusivamente sull’affetto.
Quando la famiglia d’origine è ancora prepotentemente presente nella vita di un individuo, questo influenzerà le sue relazioni future: la scelta del partner, l’educazione dei figli.
Le difficoltà che incontriamo oggi nelle relazioni o con noi stessi sono legate a schemi relazionali provenienti dalla nostra famiglia d’origine.
La scelta del partner apparentemente casuale, in realtà consente di negare o rinforzare la rappresentazione interna di uno o di entrambi i genitori.
Spesso forziamo la relazione affinché si adatti a quella che abbiamo interiorizzato o cerchiamo disperatamente di renderla diversa finendo per riproporla uguale.
Ogni individuo pur essendo artefice della propria esistenza, metterà in scena un copione familiare. Il passato, la famiglia d’origine, influenzerà il presente e il futuro, condizionerà le scelte.
È fondamentale, pertanto, definire i confini con la famiglia d’origine, differenziarsi da essa per diventare adulti consapevoli.
Lo svincolo dalla famiglia d’origine è un passaggio fondamentale per il benessere dell’individuo, affinché lo svincolo sia efficace deve essere interiore e non solo esteriore.
Elisabetta Lazazzera
Tirocinante presso lo Studio BURDI
Laurea Magistrale in Psicologia
Clinica e della Riabilitazione
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Il problema è la risorsa
Il problema è la risorsa
Ogni giorno ci troviamo a dover affrontare piccoli e grandi problemi, ostacoli e sfide.
Spesso ci appaiono come qualcosa di insuperabile e ciò ci fa sentire impotenti, persi e disorientati.
La perdita del lavoro, una separazione, un lutto importante ecc…sono per noi quasi sempre situazioni negative e molto spesso, di conseguenza, abbiamo un approccio negativo, sfiduciato e a volte rassegnato.
Certo non possiamo evitare che nella nostra vita si presentino problemi, difficoltà, ma possiamo sicuramente scegliere che impatto avranno sulla nostra esistenza.
Il modo con il quale affrontiamo una difficoltà può renderci più forti o destabilizzarci completamente, può arricchire la nostra conoscenza, la nostra vita, o alienarci passivamente.
E se guardassimo un problema come un’opportunità, come una risorsa…utopia? No, è possibile.
È necessario, pertanto, cambiare l’approccio al problema, pensando che le difficoltà e le ostilità di oggi rappresentano la consapevolezza e l’esperienza in più di domani.
Sì, perché ogni problema, ogni ostacolo che affrontiamo e superiamo, ci dà la possibilità di migliorarci in qualcosa, di conoscere, sperimentare e imparare.
Qualsiasi problema, anche se provoca sofferenza, dolore, ci lascia un insegnamento, qualcosa che non avremmo imparato se quel problema non ci fosse capitato, se non si fosse presentato, qualcosa che non avremmo conosciuto di noi stessi se non fossimo stati costretti ad affrontarlo.
Dovremmo ampliare il nostro raggio di osservazione evitando di soffermarci sugli aspetti negativi, cogliendo, invece, le opportunità che la situazione ci offre.
Non bisogna soffermarsi a vedere ciò che manca, ma valutare cos’è possibile realizzare con le risorse a nostra disposizione. Bisogna assumere un atteggiamento resiliente, consapevoli che la vita, l’esistenza di ognuno, è un continuo adattarsi alle situazioni, un continuo divenire.
Per affrontare un problema e trarre da esso un beneficio, una ricchezza, è necessaria la consapevolezza del qui ed ora, cioè la capacità di analizzare la situazione così come si presenta, senza pensare al passato o caricarsi di ansie per il futuro.
È importante definire il problema prima di pensare alla soluzione.
Scoprire e capire l’origine del problema è il primo passo per risolverlo. Spesso quello che crediamo essere un “problema”, non è altro che espressione di un conflitto mai risolto in noi stessi.
“La felicità non dipende dalla mancanza di problemi, ma dalla capacità di affrontarli” S.Maraboli.
Elisabetta Lazazzera
Tirocinante presso lo Studio BURDI Laurea Magistrale in Psicologia Clinica e della Riabilitazione

Goditi la vita
GODITI LA VITA
Essere edonisti di se stessi.
Ho sempre pensato che la vita fosse una continua sfida per dover dimostrare agli altri, non a se stessi, di valere.
Sforzi spesso eccessivi in cui non ci si sente mai abbastanza per chi ci sta intorno ma, chi pensa poi a noi?
Ecco, seguendo il percorso con il dottor Burdi , ho scoperto finalmente il valore del termine Pazienza.
Tutti meritano amore, tutti meritano emozioni, ma spesso tutto già ci appartiene se si scopre che per prima cosa toccherebbe avere un sano egoismo e trattarsi come giusto che ci meritiamo.
Le cose volgeranno come vogliamo noi poi, perché non dobbiamo dipendere da nessuno se non a noi stessi.
Tocca iniziare quasi con un atto di fede buttandosi veramente a voler stare bene ed uscire dall’ombra.
Spesso si facevano buone azioni sperando che ci ritornasse indietro, spesso allontanavamo le emozioni perché timorosi di gestirle, spesso ci si arrabbiava perchè incompresi e sottovalutati.
Io ero un digrignatore professionale, sapevo di valere ma nello stesso tempo ne dubitavo, causa esperienze che mi portavano a ricredere delle mie capacità, quando spesso il problema non ero io ma chi mi stava intorno, che sia famiglia-amicizia-relazioni sentimentali.
Ero arrivato a somatizzare le mie emozioni soffocate, soffrendo anche fisicamente, poichè accumulavo sempre di più tutto, perché era entrato in un circolo vizioso in cui dovevo dimostrare ma non vedevo riconoscimenti, confondevo un istinto a cui mi affidavo molto, con l’impulsività, cedendo spesso così a conclusioni sbagliate, rimuginando molto successivamente.
Quanti treni persi mi dicevo. No. Quanti ancora invece ne devo prendere ora, penso, e non ho più paura di provarci.
Perché ho imparato dal percorso della Stanza degli Specchi, proiezioni, che riconoscendosi nelle storie degli altri, si crea un’alchimia, un’empatia che prima o poi colpisce tutte le persone del gruppo, portando di conseguenza delle sensazioni di ”appartenenza”, spirito di Squadra e di cura.
Esatto, riconoscersi in sentimenti, episodi simili o emozioni provate, ti fa sentire parte di qualcosa, non più pecora nera smarrita e allora riporta alla luce quella forza che pensavi di non avere.
Ricostruirsi quindi, con Pazienza, seduta dopo seduta, per arrivare alla meta finale.
Sono contento quindi di poter pensare che questa mia personale esperienza, questo mio percorso, possa un giorno far rispecchiare qualcuno per poter dire ”Just Do It”, per essere una testimonianza in grado di colpire empaticamente chi vuole veramente cambiare, in meglio. Una volta per tutte.
Siamo noi stessi la cura, siamo noi a doverci credere per prima e saremo noi un giorno a ringraziare noi stessi per non aver mai mollato.”
p.
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Il “peso” di certe relazioni
Il “peso” di certe relazioni
Due immagini apparentemente opposte,ma con una cosa in comune: L’ ossessione per il cibo. Siamo soliti giudicare un corpo, senza capire che c’è tanto altro al di là del peso.
I disturbi dell’alimentazione sono al giorno d’oggi molto frequenti,si manifestano sotto forma di modificazioni del peso, che può essere eccessivo (obesità), eccessivamente ridotto (anoressia).
Questi disturbi sono un sintomo di un malessere sociale a livello dell’identità e delle relazioni affettive.
Chi soffre di questo tipo di disturbo spesso sviluppa una vera e propria ossessione nei riguardi del cibo e del peso: mangiare, non mangiare, mangiare troppo, eliminare il cibo, nascondere gli incarti, mangiare di nascosto, mangiare per tristezza, rabbia o solitudine…
Soffrire di un disturbo dell’alimentazione sconvolge la vita di una persona e ne limita le sue capacità relazionali, lavorative e sociali. Per la persona che soffre di una disturbo dell’alimentazione tutto ruota attorno al cibo e alla paura di ingrassare.
Cose che prima sembravano banali ora diventano difficili e motivo di ansia, come andare in pizzeria, pub ect. I DCA possono essere concomitanti ad altri disturbi: in particolare depressione, i disturbi d’ansia, l’abuso di alcool o di sostanze, il DOC disturbo ossessivo-compulsivo e i disturbi di personalità.
Quindi prima di giudicare, pensiamoci, c’è tanto altro al di là del peso ! C’è il peso o la leggerezza delle pseudo relazioni affettive. Se solo sapessimo i mostri, paure che hanno dentro, prima di sparare giudizi.
Regina
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Lettera dal corona virus all’ umanità
Lettera dal corona virus all’ umanità.
Disperato appello alla Vita
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Il problema è la Soluzione. Il fallimento ci rende liberi.
Il problema è la Soluzione. Il fallimento ci rende liberi.
Ma chi ci crediamo di essere, Umani o onnipotenti ? Chi sviluppa il delirio di onnipotenza prima o poi si trova a doversi confrontare con la magnificenza del suo essere umano errante, col suo limite, se di limite si può parlare.
Caratteristica dell’uomo è il limite, ma è davvero limitante essere uomini ? La sua identità è fallire, è il suo limite di fatto. Ma di cosa ci meravigliamo ? Nel fallimento incontriamo l’ombra della nostra realtà, come un aereo in atterraggio.
Senza il fallire non saremmo ispirati e spinti a rialzarci, non cresceremmo mai, è questa forza, che diviene ginnastica dal cadere al rialzarsi a determinare l’emancipazione verso la vittoria.
Una vittoria è frutto di migliaia di fallimenti. Ma questa è la vita, è la vita della psicologia di tutta l’età evolutiva. ( giorgio burdi )
Tempo fa mi regalarono un puzzle. 98×33 – 1000 pezzi. Era estate e, nel tempo libero, iniziai ad appassionarmi. Sono quasi passati due anni e son riuscito a mettere insieme solo il contorno esterno. Ogni tanto lo contemplo, incompiuto, sul tavolo del soggiorno.
Quando mi assalgono i sensi di colpa, ci rimetto mano…altre due, tre tessere e poi niente per settimane intere. Finito, sarebbe bellissimo e onestamente, farebbe la sua bella figura appeso all’ingresso di casa. Riporta la volta della Cappella Sistina, con l’atto della creazione dell’uomo al centro.
Nei miei vaneggiamenti, me la prendo anche con Michelangelo: magari si fosse fermato a dipingere solo i contorni di quello straordinario soffitto, ora starei apposto. Al massimo con quale tassello avanzante, ma con la coscienza in ordine.
Questa incompiutezza, da qualche giorno, però, ha iniziato a darmi fastidio. Rispecchia inconsciamente, i miei fallimenti, le cose che nella mia vita, non si sono compiute, di cui è rimasta solo la cornice. Mi indispone a tal punto che diviene forte la tentazione di smantellare tutto e nascondere il mio limite e da qualche parte, pezzi e scatola. Nessuno se ne accorgerà.
Nessuno tranne me che con le mie sconfitte devo farci i conti tutti i giorni. Parlarci, gestirmele, ridar loro un senso compiuto. Una magra consolazione, l’ho trovata su una rivista di settore: un etologo, nel 1926, dopo studi precisi e comparando ripetutamente, l’uomo con gli altri animali, giunse alla conclusione che non eravamo la specie migliore sul pianeta, ma la peggiore.
In natura siamo animali falliti dalla nascita. Difatti, per formarci completamente, come succede per tutti gli altri vertebrati, che dopo il parto si mettono già in piedi, non avremmo bisogno di nove mesi di gestazione, ma di ventuno. La nostra venuta al mondo è, in sé stessa, quindi, un fallimento biologico. Ma molto probabilmente, è proprio qui che si manifesta il miracolo della vita.
Della nostra vita. Siamo unici e superiori, perché procediamo per cadute e tentativi. Guardiamo a come iniziamo a camminare o a parlare. I primi anni di vita li passiamo incespicando e balbettando come provetti idioti, eppure grazie a questo spettacolo sconfortante, si creano in noi, quell’intelligenza e quello spirito critico, che ci distanziano anni luce, dall’agilità delle scimmie, dalla destrezza dei cavalli, dalla velocità dei felini e così via.
Il fallimento è la prova tangibile che siamo in cammino ed è l’unico modo per rientrare in contatto con noi stessi, con l’essenza della vita. Cosa saremmo senza cadute? Cosa saremmo senza ferite? Giocatori allenatissimi, ma tenuti in panchina; soldati istruiti e nascosti in trincea; studenti in perenne formazione.
Per entrare nel pratico, i grandi testimoni del nostro tempo sono quelli che hanno conosciuto, sulla propria pelle, il valore del fallimento e hanno saputo rigiocarselo a loro favore, basterebbe rileggersi le biografie di Steve Jobs, Ray Charles, Darwin, Papa Francesco, Marco Aurelio, Charles De Gaulle e se vogliamo, anche quella di Gesù stesso, che concluse la sua vicenda storica, con lo squallido fallimento della croce.
Freud studiò i fallimenti come “atti mancati”; si soffermò, in particolar modo, sul lapsus (linguae atque mentis) che costituirebbe l’espressione principe dell’inconscio, la prova che l’anima ha una vita propria.
Lacan, anni dopo, affermerà che il fallimento è un “dialogo compiuto”, una strategia messa in atto dalla psiche, per proteggere l’unica forza che ci permette di rialzarci e di andare avanti, l’unica stella verso cui guardare nelle nostre notti insonni: il desiderio.
Come si legge in uno dei suoi seminari: “La sola cosa di cui si può essere colpevoli è quella di avere rinunciato al proprio desiderio” e obiettivo (Lacan – L’etica della psicoanalisi).
Ci sono esistenze squarciate dal dolore, dalla rabbia, dal giudizio verso chi ha ferito; il fallimento permette di riappropriarsi della propria libertà, dell’indipendenza rispetto a questo “fallere”, a questo cadere.
Leonard Cohen in Anthem, canta: “C’è una crepa in ogni cosa, è da lì che entra la luce”, le nostre disavventure, le nostre colpe, anche le più gravi, ci interrogano sempre.
A suo modo, lo diceva Edgar Allan Poe nel racconto “Il cuore rivelatore” (1843): gli assassini si scoprono a causa della propria coscienza, attraverso il cuore delle vittime. Non serve seppellirle in profondità, un battito scomodante, li metterà sempre difronte alla verità.
È lo stesso percorso del fallimento che ci parla nel dolore, per riportarci a vivere. Il puzzle è rimasto lì. L’ho rispolverato, ma il mio vero desiderio è di finirlo. Sbaglierò a mettere i pezzi, sostituirò la mano di Dio con quella di Adamo, fino a trovare poi, l’incastro esatto. Chissà, forse passerà altro tempo, semmai giusto lo sconosciuto frangente d’infinito che mi è concesso per risollevarmi, prender fiato e ritornare ad essere libero.
Luca
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La vita amorosa: tra desiderio e turbamento
La vita amorosa
tra desiderio e turbamento
C’è un bisogno innato nell’uomo di misurarsi col limite e con il conflitto tanto da cercarlo, da voler toccare il fondo, nella convinzione che solo in un momento così basso un uomo rivela, a se stesso e agli altri, esprime tutta la propria ricchezza interiore costretto ad entrare nel profondo di se.
Un’altra testimonianza di questo incoercibile bisogno riguarda il versante dell’esperienza amorosa, quello che potremmo definire ’l’abisso degli amori perturbanti’.
Egli avverte il bisogno ineluttabile di inseguire amori letteralmente sconvolgenti, che attraggano e sgomentino se stesso sulla base di una ipotetica serenità e su una ricerca di emozionabilità che lascino intravedere una felicità immensa, spaventosa per il pensiero, perché svela una felicità che la vita non poteva seguirla.
La donna incarna nella realtà esterna un’immagine che ogni uomo porta da sempre dentro di sé, l’immagine della sua anima.
Come un uomo incarna nella realtà esterna una fisicità che ogni donna porta in se come immagine di sicurezza. È in questo binomio l’origine dell’ attrazione amorosa.
Amare significa proiettare questa immagine su una creatura reale. Bisogna passare attraverso questa esperienza per capire a fondo il pericolo dell’amore, l’opportunità che esso ci offre è di sperimentare un turbine di emozioni profonde e contraddittorie, che difficilmente potrebbero emergere in altre circostanze.
La felicità a cui si accede è, spaventosa’, per una condizione considerata invidiabile per le diversità che sono allo stesso tempo, affascinanti e tremende e che conducono nel campo del ’perturbante’ dell’esperienza amorosa.
Il perturbante rivela ciò che è tenuto nascosto e trasforma il noto in ignoto, il reale in fantasma inquietante. I fantasmi, i mostri che popolano la narrativa, non sono che personificazioni del nostro mondo interiore invisibile, immaginativo, è tutto ciò che sarebbe dovuto rimanere nascosto, segreto, e che invece affiora alla coscienza attraverso il perturbante.
Ci turbiamo per ciò che supponiamo esistere come fantasma e che vediamo a tratti e solo il tempo della relazione darà ragione di esistere.
Nell’esperienza amorosa dell’uomo l’apparizione della donna risveglia tutto un universo di emozioni, di intuizioni profonde, di corrispondenze misteriose, di trasformazioni interiori, che lo turbano e che, mentre lo affascinano, lo aprono alla vertigine, al presentimento inquietante che la vicenda amorosa trasporti, chi la vive, in una regione sconosciuta e irta di pericoli: Da quando si ama ci si sente felice, ma, nello stesso tempo, perduto… per l’ altro.
La passione, per la donna o per l’uomo, avvicina a questo abisso perturbante, e così è per ognuno di noi. Quando una figura femminile o maschile si installa da protagonista nella nostra immaginazione, finisce col monopolizzare non solo le nostre emozioni e i nostri desideri, ma rappresenta l’ emancipazione e l’annientamento di se.
“La donna, nella sua bellezza tremenda, è insieme possibilità trasformatrice e vortice, promessa e minaccia divoratrice, vita e morte. Il suo essere delizioso ha fatto sorgere nell’ animo qualcosa d’immenso nel quale potersi perdere, perdere se stesso, le contingenti progettualità, ella rappresenta la follia, un sogno appetibile ed insensato che non sa dove posarsi; perché il suo candore lo induce a credere che sia pericoloso, che sia misterioso e terribile avventurarsi nella sua vita” (Bousquet, Lettere a Fany [epistolario inedito], 1927-37, 13).
È un errore allontanare certe immagini seduttive, ma inquietanti, che si affacciano alla nostra mente.
Esse possono essere le immagini ancestrali della nostra bella o frustrata infanzia che ci riportano in vita la figura della mamma forte, delicata, misteriosa e, concreta e bella.
Abbiamo bisogno di accoglierle, dar loro voce. Nella terminologia junghiana, si tratta di confrontarci con le ombre dell’ inquietudine con la parte più oscura del nostro essere, con l’aspetto “notturno” della nostra personalità, con la carica dirompente delle emozioni per poter crescere, per scorrere dall’ oblio, al colore di certe bellezze.
L’educazione che abbiamo ricevuto ci impone un controllo continuo delle nostre dinamiche d’ombra, e in definitiva delle nostre emozioni, sin dall’infanzia. Il bambino viene apprezzato in relazione allo sviluppo delle sue capacità cognitive, alla razionalità e all’efficienza, mentre la sua vita emozionale non solo viene sottovalutata, ma spesso biasimata o addirittura punita.
Nella repressione di queste istanze si celano, naturalmente, le paure dell’adulto. Il bambino si accosta al mondo delle emozioni, per lui in larga parte ancora poco conosciute, con molta più naturalezza e spontaneità dell’adulto, solo attraverso il gioco riesce ad accedere a una comprensione ’naturale’ dei misteri della vita.
Il sesso, la morte, la nascita sono eventi che nell’adulto si associano a emozioni perturbanti, mai completamente sondate e analizzate.
La condizione amorosa intacca la corazza difensiva dell’Io, permettendo all’uomo di giocarsi in tutte le proprie sfaccettature, anche le più imbarazzanti, così come avviene nel lavoro analitico.
Nella terapia, è l’Eros la forza che smantella le difese del paziente e gli permette di sentirsi vivo sulle difese degli imbarazzi.
Lungo la pratica analitica di consente di riconoscere subito l’atteggiamento specifico difensivo del paziente.
La difesa consiste il più delle volte nella razionalizzazione e giustificazione degli eventi, cioè nel riordinarli secondo un tracciato logico che li rende coerenti e razionali al mondo, così da illudersi di poterli controllare.
L’analista dentro di sé sorride, perché sa bene che la funzione di certe elucubrazioni mentali è proprio quella di imbrigliare emozioni e sentimenti a processi di razionalizzazioni che, lasciati emergere liberamente, potrebbero produrre effetti rovinosi; ma sa anche che quel timore è infondato perché nel setting si stabilisce un vincolo profondo che unisce analista e paziente, una coppia di cui l’uno, addestrato a navigare in mari burrascosi, riesce a guidare, l’ altro timoroso portato a lasciarsi condurre dalla diffidenza alla fiducia in se.
giorgio burdi
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Istruzioni per rendersi Felice
Istruzioni per rendersi Felici
Qualche giorno fa, gironzolando tra i reparti della Feltrinelli di Pisa, la ragazza che frequento esprime il desiderio di volermi regalare un libro.
Premetto che non sono un lettore seriale, uno di quelli che continuamente aggiorna la wishlist dei libri che leggerà, e che pertanto ci metterebbe due nanosecondi a scegliere un titolo da farsi regalare.
Decido quindi di prendermi qualche minuto per riflettere e intanto mi guardo attorno alla ricerca di qualcosa che catturi la mia attenzione. Dopo poco ci ritroviamo nel reparto di Filosofia e Psicologia ed è proprio qui che l’occhio mi cade su un nome: Paul Watzlawick.
In un attimo mi ricordo di quando, un mesetto prima, il mio terapeuta mi aveva consigliato la lettura del ben noto Pragmatica della Comunicazione ma il libro che focalizza la mia attenzione ha un titolo diverso: Istruzioni per rendersi infelici. La sinossi recita: “Nulla è più difficile da sopportare di un serie di giorni felici”.
Due minuti dopo sono fuori per le strade della Novella Tebe con il mio regalo a braccetto. Lo sapevate? Terenzio Varrone contava ben 289 definizioni di felicità e così pure Agostino.
Aristotele sosteneva che tutti gli uomini vogliono essere felici ma cercare una definizione univoca di felicità significa infilarsi in un ginepraio. E poi, si sa, la materia delle grandi creazioni è quasi sempre stata fornita, al contrario, da infelicità, disgrazie, tragedie, crimini, colpe, pericoli, follia e quindi, per quanto sia doloroso da ammettere, che cosa saremmo senza la nostra infelicità?
Anche però nel coltivare la propria infelicità, bisogna avere metodo e qui l’autore si sente di correre in soccorso di coloro che vogliono cimentarsi in questa “missione” evidenziando quanto la letteratura sia carente nel fornire indicazioni precise a riguardo e quanto, al contrario, sia sommersa da una marea di istruzioni per essere felici.
Insomma, <<tutti possono essere infelici, ma è il rendersi infelici che va imparato, e a ciò non basta sicuramente qualche sventura personale>>.
Ok, a questo punto dovrebbe apparire chiaro l’espediente narrativo basato sul paradosso adottato dall’autore. Cosa c’è di meglio di una serie di istruzioni che, l’esperienza clinica insegna, conducano inesorabilmente all’infelicità, quando, al contrario, si è alla ricerca di ripristinare il proprio equilibrio? Di un atteggiamento sano alla vita? Quanto, al pari di ciò che la terapia ci esorta a fare, può essere utile conoscere cosa scongiurare?
Watzlawick, usa tutta l’ironia e la competenza che gli deriva dall’immensa esperienza clinica per stilare un instructable di atteggiamenti che se perpetrati ci garantiranno senz’altro una enorme dose di infelicità.
In poco più di cento pagine si affrontano gli argomenti più disparati: il rapporto con sé stessi, con il passato, le insidie dietro un uso improprio del linguaggio, suggestioni, sabotaggi, paradossi, giochi, amore.
Ad esempio, se vi dicessero “prima di tutto, sii fedele a te stesso”, pensereste che quel qualcuno abbia a cuore che coltiviate la vostra personalità. Ma quali insidie si nascondono dietro un atteggiamento del genere? E se foste esortati ad essere sinceri, riconoscereste il paradosso logico che accompagna l’esortazione? E ancora, quale atteggiamento con il passato rende rovinoso il nostro presente?
La vita è un gioco? E la vita di coppia? E se sì, è un gioco a somma zero o un gioco a somma diversa da zero? Conoscete la differenza?
Questo articolo non è il contesto adatto per una disamina approfondita degli argomenti trattati ma semplicemente l’invito a leggere un buon libro.
Chi è in un percorso di terapia sa quanto il lavoro da fare possa a tratti risultare duro (ancorché necessario) ma sa anche che è per la maggior parte delle volte composto da istruzioni semplici, purché si abbia una direzione chiara su cosa praticare e su cosa evitare. Ecco, per l’appunto, molto spesso proprio su cosa evitare.
D.
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CHANGE: L’ Arte di migliorarsi
CHANGE
L’ Arte di cambiare per star bene
Uno studio recente della Duke University ha attestato che il bruco comprende di esser giunto al momento della muta, quando avverte una sorta di “fame d’aria”. Il suo corpo inizia a diventare più grosso, ma l’apparato respiratorio e, in particolar modo, la trachea non varia assolutamente di dimensione. Si è verificato che il momento del cambiamento prende avvio, così, da un sintomo fastidioso.
In parallelo, Otto Rank, negli anni venti del secolo scorso, parlò, in termini psicanalitici del trauma della nascita: la prima cosa conosciuta, dal neonato, è il dolore del mutamento, del passaggio dalla sicurezza dell’utero materno all’ostilità e alla freddezza del mondo.
Il cambiamento comporta dolore. Lo si trova inciso nella legge naturale ed intraprendere un cammino psicoterapeutico è trovarsi faccia a faccia con la propria sofferenza, perfino con la remissione di alcuni sintomi, se non con il riaffacciarsi del disturbo che ci ha spinto a chiedere aiuto allo specialista.
Curare la ferita fa male, ma il dolore non può costringerci a restare bendati a vita.
È un primo passaggio del cambiamento, su cui parecchi ciarlatani marciano, proponendo ai pazienti, nuove e miracolose cure per la completa dissoluzione delle difficoltà che li affliggono. Basta girare le strade di internet per fare esperienza delle soluzioni più disparate: dalla sicura virilità ottenuta grazie a antiche bacche indiane, alle portentose boccette di ossigeno dell’Himalaya, alla dieta anti-ansia, all’elisir di lunghezza e così via.
Ci marciano anche i dottori usciti dalla cosiddetta Università della vita che con un solo seminario sul monte Vattelappesca, per cifre esorbitanti, rimuovono dall’inconscio ogni impurità e atavica calcificazione. Ognuno è libero di cambiare continuamente terapia, ma egli stesso noterà che, a breve o lungo termine, seppur sotto un’altra luce, le cose continueranno a non cambiare. I comportamenti di “auto-sabotaggio” servono solo a dilatare i tempi di una terapia efficace e risolutiva.
La resistenza al cambiamento va vissuta e ricompresa solo nell’ottica di quello che si è acquisito durante le singole sedute di psicoterapia, non può essere altrimenti, anzi, questa breve insofferenza è l’unico riscontro tangibile che si sta procedendo verso una positiva ristrutturazione del pensiero, una strada nuova rispetto alle soluzioni provvisorie che la mente ha saputo darsi fin qui.
Bisogna scavare, assestarsi, “generare risposte emotive alternative” (come dice la terapia emozionale di Greenberg) per consolidare il processo iniziato con lo psicoterapeuta.
Accogliere il dolore del cambiamento è imparare a non arrendersi, a mettersi in gioco; è imparare a rialzarsi, a sfidare paure e timori con la pratica della semplicità, ovvero, trovando dentro di noi, la risposta ai sintomi delle varie difficoltà, siano esse ansie, fobie, problemi di coppia, tristezze, lutti o difficoltà sessuali.
Non cerchiamo in eterno ciò che ci potrebbe far rivivere. Ad ogni uomo basta vivere. Per ogni vita c’è un solo uomo.
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Mediare significa, accordare le parti, non si tratta di un semplice accordarsi attraverso un comune dialogo, ma attraverso l’ausilio di metodologie specialistiche con studiosi del conflitto di coppia e giuristi, quali lo Psicoterapeuta e l’ Avvocato Mediatore Famigliare.
La mediazione familiare è una disciplina, che prevede studi specifici, che analizza, si prende cura ed è rivolta a migliorare, in modo pragmatico, le relazioni di coppia orientate alla separazione o al divorzio, al fine di rasserenare la qualità della vita di ogni componente, di migliorare la relazione con i figli, ed inoltre, accordarsi sulla gestione patrimoniale.
Obiettivi e Benefici
La Mediazione Famigliare:
attenua notevolmente i conflitti della coppia separanda, separata o divorziata;
conduce ad un accordo soddisfacente;
riduce la frustrazione degli avvocati delle parti, avendo la funzione di ammortizzatore dei conflitti, smorzati attraverso gli strumenti della mediazione familiare;
semplifica, snellisce e da rapidità al lavoro del Giudice, nello stilare il provvedimento;
esonera i figli dai conflitti e ripristina una comunicazione decisamente più civile fra gli ex;
aiuta i figli all’adattamento alla nuova condizione e previene eventuali alienazioni parentali;
non può costituire prova testimoniale, perché è super partes, ed è incompatibile con il ruolo del Consulente Tecnico di Parte. Pertanto la Mediazione Famigliare non può essere una CTP.
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