
L’intimità è un incontro tra nudità.
L’intimità è un incontro tra nudità.
Se vogliamo intraprendere relazioni più significative, è importante interrogarsi sulla propria storia, volgere uno sguardo al passato e mettersi in gioco per sanare le ferite dell’infanzia. Solo l’attribuzione di un significato reale al dolore di esperienze passate potrà limitare le influenze insane che sopraggiungono nel presente e faciliterà stabilire forti e sani legami di unione con chi ci circonda;
Stanare i fili conduttori che trasportano i nostri messaggi emotivi permetterà di avere una maggiore consapevolezza degli stessi, consentendo di avere una gestione più adulta delle nostre reazioni; Essere coscienti dei filtri emotivi che applichiamo, dei rivestimenti e delle corazze che indossiamo contribuisce, inoltre, a renderci abili lettori e interpreti tanto dei tentativi di connessione degli altri come dei nostri;
Denudarsi significa ammettere le proprie mancanze, e comunicare i nostri limiti ci aiuta a rigenerare i pensieri e il nostro benessere generale. Impegnarsi in un processo di autocoscienza migliorerà la prospettiva da cui osserviamo e ne gioverà il nostro dialogo interno. La vera essenza di ognuno, l’interiorità che veicola i nostri comportamenti e gesti più manifesti, è colma di verità taciute, perfino a noi stessi. L’incontro più intimo tra due persone non è quello puramente sessuale, è il nudo emotivo.
Uno scambio possibile laddove decidiamo di farci conoscere così come siamo, in tutte le nostre sfaccettature, nonostante le vulnerabilità, malgrado il timore che si compie nello spogliarci di ogni falsa apparenza. Rivelarsi nell’abbattimento di ogni presunto perfezionismo, di ogni costruzione difensiva: denudarsi in favore dell’autenticità.
Nuda e cruda.
Non è facile riuscirci. Di fatto, il nudo emotivo non si innesta con facilità né con chiunque. C’è bisogno di tempo, coraggio e voglia di ascoltare attivamente, sentire e abbracciare le emozioni nella loro ambivalenza. Autocoscienza ed etero-coscienza, ovvero conoscere noi stessi e la realtà dell’altro in modo empatico.
Solo allora, allo scoperto di ogni nascondiglio e sotto la luce di una verità liberatoria, sapremo metterci a nudo nelle passioni, nei sentimenti e nella nostra storia emotiva. Il nudo emotivo comincia da noi, richiede la nostra volontà, la spinta nell’affidare paure inconfessabili e fiducia
nell’abbandono di ogni resistenza. Mettere a nudo la nostra emotività inizia da noi stessi, dall’accettazione dei nostri limiti e di ogni presunta svalutazione che ne deriva. Distaccarsi dall’idea di ciò che sia più meritevole mostrare all’altro, occultando quegli spigoli caratteriali avvertirti come sgradevoli e sconvenienti: consegnare un’immagine integra non ridimensionabile, quindi, unicamente al bello, forte, tonico e smagliante che vive in superficie. Evitare di rivelarsi alla stregua di una vetrina, sulla scia di un’inconsistente appariscenza e nel prevalere di un senso di vergogna bloccante. Questo vuol dire muovere, anzitutto, da una ricerca onesta di tipo personale.
Molto importante sarà identificarsi con i propri sentimenti, rendersi conto delle emozioni positive e negative che ci investono, gestirle al servizio dei nostri pensieri. Ascoltarci, connetterci e conoscere la nostra eredità emotiva; esplorare la nostra mente ed il corpo è imprescindibile per dar sfogo alle nostre paure, i nostri conflitti, le insicurezze, i successi, i desideri.
Conoscere a fondo il nostro bagaglio emotivo, sondare le nostre debolezze, essere coscienti di quello che ci fa male e lasciar correre è irrinunciabile per poter contemplare da vicino l’immagine proiettata dal nostro specchio emotivo, priva di censure e maschere autosabotanti.
Essere coscienti delle nostre vulnerabilità emotive non le farà scomparire, ma avere una consapevolezza più profonda di esse implica che ogni volta che compariranno nella nostra vita, potremo identificarle e agire su di esse, impedendo che affoghino i nostri legami affettivi. Sentirsi liberi nell’espressione, oltreché di capire, contestualizzare e interpretare sensazioni puramente umane.
La nostra eredità emotiva ha un forte impatto sulla nostra capacità di connetterci emotivamente con il prossimo. È proprio questo bagaglio, questa seconda pelle, la parte più autentica del nostro essere. L’empatia e la connessione con i sentimenti dell’altro ci aiuta a crescere come persone e ci dona la capacità di costruire relazioni sane e durature.
Esporsi al nostro vissuto emotivo fatto di ricordi e sensazioni contrastanti, riconoscere le proprie fragilità e imparare a mettersi a nudo nonostante le contraddizioni più accese, è consigliabile per molteplici ragioni:
Non è facile mettere a nudo una persona ferita; sarà necessario combattere contro gli abiti che le rendono inaccessibili, contro le disillusioni che le avvolgono, le paure del rifiuto, dell’abbandono, della solitudine…
Per farlo, è necessario essere intelligenti, amare la persona e ascoltare, aprire gli occhi e la propria pelle, lasciando da parte i pregiudizi e l’attitudine a valutarne comportamenti in modo prettamente superficiale. Vuol dire, quindi,
rispettarne i tempi, cogliere ogni possibile tentativo di apertura, apprezzarlo ed innescare uno scenario emotivo ideale basato in primo luogo sull’ascolto empatico e sull’intelligenza emotiva. Un ambiente rilassato in cui si potenzia la comunicazione e la comprensione con una solida base di rispetto e tolleranza.
Avere un puro incontro intimo equivale così a mettere a nudo le paure, scoprire le insicurezze e svestire tutte le emozioni di cui siamo capaci nella loro verità. Solo allora vivremo di quegli abbracci che rompono le paure e svelano i nostri occhi, nel sodalizio di una connessione che diviene un tutt’uno nel corpo e nello spirito, con e per l’altro.
Sintesi a cura di Maria Arancio
Tirocinante di Psicologia Clinica
presso Studio BURDI

Fame di Vita
La vita, si sa, è un percorso intricato straordinario. Vi è chi, forse mosso da una maggior consapevolezza o spinto da un’inspiegabile esuberanza, è in grado di vivere anche i momenti più
critici come vere e proprie occasioni di crescita personale; sfide colte come tramite di
conoscenza di sé, strumenti necessari per l’attualizzazione delle proprie risorse, ma anche per consolidare le basi in ottica di una prospettiva futura di gioia, quasi si trattasse di un azzardo verso la felicità.
Una promessa presente di riscatto e sicura prosperità. Si tratta di persone che
vivono l’esistenza nella sua pienezza, nelle sue asperità più crude, nelle sue vivaci contraddizioni e nei suoi estremi, talvolta pungenti, senza precludersi alcunché, senza decretare giudizi di valore troppo occludenti su ciò che capita nel loro personalissimo vissuto.
Quel che colpisce di questa attitudine famelica rispetto la vita sono la forza, la costanza, la
perseveranza di nell’affrontare i disagi e le sofferenze, come a farsi indole personale di tenacia, urlo di resistenza attiva e motivo di stupore per chi ritiene quelle medesime condizioni inaccettabili.
Cosa c’è di diverso, dunque, in coloro che fanno di questa felice ribellione uno stato d’animo prevalente nel fronteggiare le sfide della loro esistenza? Cosa celaquell’ inesauribile energia vitale, quell’attaccamento alla vita tanto ostinato quanto invidiato?
Ogni persona ha la propria storia, un vissuto originale che intesse la trama di espedienti, ricordi e carico emozionale irripetibile. A determinare una differenza sostanziale in un tipo di approccio positivo alla vita è quella capacità, apparentemente ignorata e schernita dai più, frutto di un lavoro incessante con se stessi: la volontà di saper accettare con gratitudine tutto ciò che si presenta, al di là del bene e del male, con una vena di dolcezza e compassione quali antidoto emotivo alle avversità.
Sperimentare personalmente il naufragio di ogni opposizione rispetto gli imprevisti dolorosi che riserva la quotidianità provoca un cambio di prospettiva radicale; si gode delle piccole cose e ci si abbonda con sano ottimismo alle sorprese della vita, rinnegando con convinzione la percezione di sé come vittime inermi dinanzi la tempesta.
Si balla perfino sotta la pioggia battente: un bell’esercizio di fiducia, una lotta contro la staticità di un percorso che sembra
prestabilito ma che vede nel nostro divenire protagonisti, un’azione irrinunciabile. Un inno, un impulso essenziale vigoroso.
Aver fame di vita, brillare di luce propria in modo intenso equivale anche a dare un significato reale ai proprie sentimenti, inglobare ogni tipo di emozione, senza timore di vivere la paura, attraversarla invece, coglierla nel profondo delle sue tenebre.
Potrà sembrare paradossale, ma dietro ad essa si nasconde un’immensa voglia di vivere. Spesso l’ansia, così come altri disturbipsicologici, appaiono esclusivamente come sintomi negativi di un malessere psichico insondabile;
ciò che rivelano, in realtà, è proprio questa pulsione vitale, tanto potente da spaventarci,
difficilmente gestibile ma fonte primaria ed autentica di felicità.
La nostra mente lavora così per scuoterci dalle fondamenta, per risvegliarci alle vibrazioni della vita, con l’intendo fondamentale di farci comprendere che stiamo escludendo dalla nostra esistenza qualcosa di cui abbiamo assolutamente bisogno. La necessità inespressa di un desiderio represso, una sessualità insoddisfacente, sentimenti che non trovano una sana manifestazione, voglia di libertà, modi particolari di essere, obiettivi non raggiunti, e altro ancora.
Trasgredire dinanzi a chi tenta di manipolare le nostre scelte o sradicare ogni tentativo di
autosabotaggio: accettarsi e compiacersi di ogni limite, nell’ottica curativa di apporre
cambiamenti reali nella nostra vita. Prenderne in mano le redini, sfoggiare il sorriso più bello solo perché grati di poter provare e sentire sulla pelle, nella mente, quell’insensata voglia di vita che tutto comprende. Quella fame che altro non è che appetito e riconoscenza per la vita, per noi stessi. Per la cura,
Sintesi a cura di Maria Arancio
Tirocinante di Psicologia Clinica
presso STUDIO BURDI

Stare Solo È Un Dono Da Apprezzare
Non mi senti, anche se urlo.
Ti ripeto da troppo tempo che ho bisogno di te, ho bisogno delle tue attenzioni.
Nel tempo ti ho mandato troppi segnali e sinceramente non capisco come sia possibile che non ti accorgi che ho bisogno che tu volga lo sguardo verso di me.
Inizio a pensare che tu non creda in me, forse credi che io non esista.
Ma davvero pensi di essere solamente tu e i tuoi pensieri superficiali?
Davvero credi che i tuoi amici e le persone che ti circondano, siano tutto il tuo mondo?
Ora, io conosco qual é la tua paura più grande… hai paura di sentirti solo.
Da quanto tempo ti sto chiamando!? In ogni modo. Ogni segnale che il tuo corpo ti ha mandato, beh, ero io che ti tendevo una mano per chiamarti.
Non sei solo. Io sono con te in ogni momento. La solitudine, come tu la intendi, non esiste, perché sentirsi soli ed Essere soli, non sono la stessa cosa. Se sei solo e ti senti solo vuol dire che non credi che io esista.
Io sono te e tu sei me. Io vivo dentro di te, per questo non potrai mai sentirti solo. Dovrai solo imparare a conoscermi e imparare a metterti in contatto con me. Quando lo farai, comprenderai la grandezza che c’è dietro il sapere che non c’è nessuno al mondo che potrà farti sentire completo e incondizionatamente amato come me.
Sai chi sono? Sai come trovarmi? Sono il tuo IO superiore e la solitudine è la mia casa, solo li potrai trovarmi.
Io conosco tutte le leggi che regolano il mondo e l’universo, Io sono l’universo e tu puoi attingere a questo sapere, solo se ti rivolgi a me.
Depressione, malattie croniche, rabbia, herpes, frustrazione, ossessione, dipendenza, tumore, le chiami malattie, ma non lo sono. È il mio unico modo per chiamarti quando volgi il tuo sguardo a cose che con la loro superficialità ti fanno perdere per strade che ti portano lontano dal tuo destino, che solo io posso conoscere.
Il tuo destino è di Essere e l’unica strada che ti ci potrà portare è imparare ad avere fede in me.
fulvio leandro
Continua
Ghosting
Ghosting
Sparire dall’ l’altro, Fuggire da sé.
Lo scenario in cui viviamo, dominato da una profondo senso di inquietudine, assenza di punti fermi ed equilibri precari, sembra convalidarsi anche a livello interpersonale con altrettanta veemenza: la nostra è l’epoca delle relazioni “mordi e fuggi”: tormentate, irrisolte, fugaci, alimentano un vuoto esistenziale tanto radicato quanto evidente.
Legami affettivi inconsistenti fanno di partner che appaiono e scompaiono una modalità comportamentale più che mai frequente. Seduttori che conquistano e abbandonano ripetutamente; uomini che cercano, si concedono e poi si dileguano rapidamente e con presunta facilità.
Questo atteggiamento viene definito Ghosting e correla una serie di problematiche legate ad aspetti di insicurezza, egocentrismo, scarsa empatia ed immaturità.
Il Ghosting è una modalità in prevalenza che si traduce nell’incapacità di stringere rapporti significativi con il prossimo: nella brusca sparizione, nell’irruente dualismo presenza-assenza, emerge quel “NO, non sei tu la mia casa”. Non mi assumo la responsabilità di stringermi affettivamente a te, di conoscerti approfonditamente. NON permetto di insinuarti nella mia vita.
Il fenomeno comportamentale, che distingue un ‘carnefice’ narcisista ed anaffettivo ed una ‘vittima’ umiliata, dipendente emotivamente, lascia intravedere tutte le sfumature psicologiche di una fragile ricerca personale volta ad un inverosimile desiderio di appartenenza, che non trova mai sano nutrimento. Relazioni strumentali fungono spesso da compensazione dinanzi un’esplorazione identitaria che spaventa e da cui si fugge.
Il Ghosting è letteralmente il diventare fantasmi, sparire da un giorno all’altro inaspettatamente, interrompendo ogni forma di comunicazione senza lasciare alcuna motivazione, sulla scia di un’incredula indifferenza. Questo accade anche nel momento in cui, apparentemente, la conoscenza appare in evoluzione.
Per comprende a fondo la dinamica del Ghosting, basterebbe osservare da vicino le caratteristiche psicologiche delle ‘prede’ che subiscono il doloroso abbondono:
1) un soggetto tipo è colui che nelle relazioni tipicamente si nasconde: per timore di perdere il prediletto, evita di mostrarsi. Occultandosi, l’altro avrà l’impressione di interfacciarsi con qualcuno assente, lontano e impalpabile. Pertanto il partner non faticherà ad andare via, scomparendo;
2) diametralmente opposta ma altrettanto vittima, è colei che si sveste di ogni amor proprio per disperdersi in un eccesso di disincantata spontaneità, ingenuità, fiducia e generosità. La facile conquista avverrà tramite parole ammalianti, volte a far breccia su aspirazioni amorose non corrisposte. Il triste epilogo, anche in questo caso, culminerà con la tragica e improvvisa scomparsa dell’adorato: il piacere di una seduzione fine a se stessa, finalizzata al sesso, priva di un reale intento di relazione.
3) altra dinamica disfunzionale, altro ghosting facilitato: quando si cerca di trattenere chi non ricambia i nostri sentimenti, e ci resta vicino solo per dovere. Questo genere di responsabilità obbligata, spoglia di effettivo desiderio, si estinguerà nelle medesime modalità sopra descritte, piegando la vittima ad un languido e marcato senso di colpa e solitudine.
Una casistica, dunque, ampia e variegata quella in esame, in cui il fattor comune risiede nell’insana propensione a giudicarsi meritevoli del trattamento subito. Si avviano così, attraverso mille interrogativi auto recriminanti, manifestazioni ruminative di auto-rimprovero, rimorso o rammarico, fino addirittura a dolorose forme di auto-punizione: cosa ho di sbagliato, e cosa ho sbagliato? Perché è scomparso? Come avrei potuto conquistare davvero l’amato?
La descrizione dell’atteggiamento che assumiamo quando subiamo l’abbondono non deve tralasciare, tuttavia, le intenzioni del partner che fa Ghosting, un’anima inquieta che suo girovagare opportunista sta cercando dimora. Un porto sicuro a cui sente di voler approdare, come presunta soluzione ai suoi implacabili tormenti interiori. Una ricerca insaziabile, destinata pertanto al fallimento.
In sostanza, il fantasma del ghosting fa della fuga una forma di rifiuto decisa. Nel brusco dileguarsi si rigetta la proposta di una relazione invivibile, il non aver trovato la propria casa. Per chi ne è succube, invece, la rinuncia è spesso inaccettabile; il rifiuto accompagna generalmente il giudizio negativo di chi si sottrae all’impegno, come per preservare il proprio dolore.
Difronte il vissuto traumatico del Ghosting, è importante un lavoro terapeutico volto all’accettazione: comprendere di non potersi imporre come casa al prossimo, scrutare da vicino la propria sete d’amore, indagare le motivazioni profonde di chi sceglie di indossare la forma evanescente di un fantasma irrisolto, smascherarsi coraggiosamente
Sintesi a cura di Maria Arancio
Tirocinante di Psicologia Clinica presso STudio BURDI

La Regia
LA REGIA
IL MITO DELLA CAVERNA
Alcuni anni fa, Philip K. Dick scrisse: “la realtà è ciò che non scompare anche se smetti di crederci”. Ma come possiamo essere sicuri che ciò che osserviamo sia la realtà? Dopotutto, gran parte di ciò che sperimentiamo è il prodotto della nostra percezione ed è mediato dalle nostre esperienze interne.
Circa 2.400 anni fa, Platone propose lo stesso dilemma e cercò di spiegarlo attraverso il mito della caverna, Platone-Repubblica, 514 a-517 a (parla Socrate in prima persona, il suo interlocutore è Glaucone): un gruppo di uomini condannati alla nascita a rimanere incatenati nelle profondità di una grotta. Non riuscirono mai ad uscire da essa, e neppure ebbero la capacità di guardare al passato e capire l’origine delle catene o vedere cosa succedeva dietro di loro, fuori dalla caverna. guardavano solo le pareti della caverna. Ogni tanto, davanti all’ingresso della caverna passavano altre persone e animali. Gli uomini incatenati potevano solo vedere le loro ombre e sentire gli echi, che venivano proiettati sulle pareti della caverna. I prigionieri percepivano queste ombre e gli davano dei nomi, credendo di percepire cose reali, poiché non erano consapevoli che si trattava solo di proiezioni della realtà. Tuttavia, un bel giorno, uno dei prigionieri viene liberato. Questi esce alla luce, ma il sole lo acceca, scopre che tutto ciò che lo circonda è caotico dal momento che non riesce a dargli un significato. Quando gli spiegano che le cose che vede sono reali e che le ombre sono solo riflessi, non può crederci. Finalmente si adatta e decide di tornare alla caverna per raccontare al resto dei prigionieri la sua fantastica scoperta.
In un certo senso, una parte di noi sono quei prigionieri incatenati nella caverna. Una parte di noi si sente a proprio agio con gli stereotipi e le credenze familiari, con tradizioni che ci fanno sentire al sicuro. Quando vediamo un raggio di luce che ci costringe ad analizzare queste cose da un’altra prospettiva, abbiamo paura e possiamo comportarci come i prigionieri, negando la nuova realtà.
Tuttavia, abituato alla luce del sole, i suoi occhi hanno ora difficoltà a distinguere le ombre nel buio, così il resto degli uomini incatenati credono che il viaggio all’esterno lo abbia reso stupido e cieco. Pertanto, non gli credono e si oppongono ad essere liberati, ricorrendo anche alla violenza.
È vero che i cambiamenti di paradigma possono generare paura, perché ci tolgono i parametri di riferimento facendoci mettere in discussione alcune delle credenze che abbiamo sempre considerato verità assolute, ma se desideriamo veramente crescere, non dobbiamo afferrarci a nessun modo assoluto di vedere il mondo, dobbiamo aprirci al flusso di idee e prospettive nuove.
Liberarsi dalle catene, quando queste continuano a tenere legati gli altri, è di solito un processo emotivamente complesso. Non è facile ribellarsi quando c’è una dinamica sociale consolidata di cui facciamo parte da molto tempo.
Alan Watts disse che: “la maggioranza delle persone non solo si sentono a proprio agio con la loro ignoranza, ma sono ostili a chiunque gliela faccia notare”. È la stessa idea che Platone ha cercato di trasmettere con il suo mito, infatti, non dobbiamo dimenticare che alcune delle sue idee sono state considerate troppo pericolose per lo status quo dell’epoca e gli causarono più di un problema.
A volte trascuriamo questo dettaglio, quindi cerchiamo di illuminare le persone con la nostra conoscenza, ma quelle persone non sono pronte ad assimilare la nuova prospettiva. Le porte della mente non si possono spalancare entrambe in un attimo quando sono rimaste chiuse per un lungo periodo di tempo, perché potremmo persino esporci a una reazione violenta. La soluzione non è arrendersi, ma aprire gradualmente dei piccoli varchi.
Platone-Repubblica, 514 a-517 a (parla Socrate in prima persona, il suo interlocutore è Glaucone):
(…) In séguito, continuai, paragona la nostra natura, per ciò che riguarda educazione e mancanza di educazione, a un’immagine come questa. Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza della caverna, pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo, sí da dover restare fermi e da poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d’un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo questa pensa di vedere costruito un muricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini.
-Vedo, rispose.
-mmagina di vedere uomini che portano lungo il muricciolo oggetti di ogni sorta sporgenti dal margine, e statue e altre figure di pietra e di legno, in qualunque modo lavorate; e, come è naturale, alcuni portatori parlano, altri tacciono.
– Strana immagine è la tua, disse, e strani sono quei prigionieri.
– Somigliano a noi, risposi; credi che tali persone possano vedere, anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta loro di fronte?
– E come possono, replicò, se sono costretti a tenere immobile il capo per tutta la vita?
– E per gli oggetti trasportati non è lo stesso?
– Sicuramente.
– Se quei prigionieri potessero conversare tra loro, non credi che penserebbero di chiamare oggetti reali le loro visioni?
– Per forza.
– E se la prigione avesse pure un’eco dalla parete di fronte? Ogni volta che uno dei passanti facesse sentire la sua voce, credi che la giudicherebbero diversa da quella dell’ombra che passa?
– Io no, per Zeus! rispose.
– Per tali persone insomma, feci io, la verità non può essere altro che le ombre degli oggetti artificiali.
– Per forza, ammise.
– Esamina ora, ripresi, come potrebbero sciogliersi dalle catene e guarire dall’incoscienza. Ammetti che capitasse loro naturalmente un caso come questo: che uno fosse sciolto, costretto improvvisamente ad alzarsi, a girare attorno il capo, a camminare e levare lo sguardo alla luce; e che così facendo provasse dolore e il barbaglio lo rendesse incapace di scorgere quegli oggetti di cui prima vedeva le ombre. Che cosa credi che risponderebbe, se gli si dicesse che prima vedeva vacuità prive di senso, ma che ora, essendo più vicino a ciò che è ed essendo rivolto verso oggetti aventi più essere, può vedere meglio? e se, mostrandogli anche ciascuno degli oggetti che passano, gli si domandasse e lo si costringesse a rispondere che cosa è? Non credi che rimarrebbe dubbioso e giudicherebbe più vere le cose che vedeva prima di quelle che gli fossero mostrate adesso?
– Certo, rispose.
– E se lo si costringesse a guardare la luce stessa, non sentirebbe male agli occhi e non fuggirebbe volgendosi verso gli oggetti di cui può sostenere la vista? e non li giudicherebbe realmente più chiari di quelli che gli fossero mostrati?
– È così, rispose.
– Se poi, continuai, lo si trascinasse via di lì a forza, su per l’ascesa scabra ed erta, e non lo si lasciasse prima di averlo tratto alla luce del sole, non ne soffrirebbe e non s’irriterebbe di essere trascinato? E, giunto alla luce, essendo i suoi occhi abbagliati, non potrebbe vedere nemmeno una delle cose che ora sono dette vere.
– Non potrebbe, certo, rispose, almeno all’improvviso.
– Dovrebbe, credo, abituarvisi, se vuole vedere il mondo superiore. E prima osserverà, molto facilmente, le ombre e poi le immagini degli esseri umani e degli altri oggetti nei loro riflessi nell’acqua, e infine gli oggetti stessi; da questi poi, volgendo lo sguardo alla luce delle stelle e della luna, potrà contemplare di notte i corpi celesti e il cielo stesso più facilmente che durante il giorno il sole e la luce del sole.
– Come no?
– Alla fine, credo, potrà osservare e contemplare quale è veramente il sole, non le sue immagini nelle acque o su altra superficie, ma il sole in se stesso, nella regione che gli è propria.
– Per forza, disse.
– Dopo di che, parlando del sole, potrebbe già concludere che è esso a produrre le stagioni e gli anni e a governare tutte le cose del mondo visibile, e ad essere causa, in certo modo, di tutto quello che egli e i suoi compagni vedevano.
– È chiaro, rispose, che con simili esperienze concluderà cosí.
– E ricordandosi della sua prima dimora e della sapienza che aveva colà e di quei suoi compagni di prigionia, non credi che si sentirebbe felice del mutamento e proverebbe pietà per loro?
– Certo.
– Quanto agli onori ed elogi che eventualmente si scambiavano allora, e ai primi riservati a chi fosse più acuto nell’osservare gli oggetti che passavano e più rammentasse quanti ne solevano sfilare prima e poi e insieme, indovinandone perciò il successivo, credi che li ambirebbe e che invidierebbe quelli che tra i prigionieri avessero onori e potenza? o che si troverebbe nella condizione detta da Omero e preferirebbe “altrui per salario servir da contadino, uomo sia pur senza sostanza”, e patire di tutto piuttosto che avere quelle opinioni e vivere in quel modo?
– Così penso anch’io, rispose; accetterebbe di patire di tutto piuttosto che vivere in quel modo.
– Rifletti ora anche su quest’altro punto, feci io. Se il nostro uomo ridiscendesse e si rimettesse a sedere sul medesimo sedile, non avrebbe gli occhi pieni di tenebra, venendo all’improvviso dal sole?
– Sì, certo, rispose.
– E se dovesse discernere nuovamente quelle ombre e contendere con coloro che sono rimasti sempre prigionieri, nel periodo in cui ha la vista offuscata, prima che gli occhi tornino allo stato normale? e se questo periodo in cui rifà l’abitudine fosse piuttosto lungo? Non sarebbe egli allora oggetto di riso? e non si direbbe di lui che dalla sua ascesa torna con gli occhi rovinati e che non vale neppure la pena di tentare di andar su? E chi prendesse a sciogliere e a condurre su quei prigionieri, forse che non l’ucciderebbero, se potessero averlo tra le mani e ammazzarlo?
– Certamente, rispose. […]
(Platone, Opere, vol. II)
Ho trovato queste parole di una straordinaria efficacia e, soprattutto, di una straordinaria attualità, eppure appartengono a millenni fa!
Leggendole mi è parso semplice fare una riflessione.
Vi sono comportamenti che sovente ripetiamo, quasi sempre inconsciamente, nel tempo e che paradossalmente hanno quale unico scopo quello di replicare, come in un’opera teatrale vista e rivista mille volte, come <<disco rotto>>, con una pervicacia cronica situazioni, dinamiche e circostanze che spesso conducono all’unico risultato di produrre sofferenza, un serial killer nascosto dentro di noi che dirige la regia di un film il cui epilogo è sempre lo stesso: il nostro massacro.
La domanda che ci si pone per avere risposta al perché di una tale condizione non arriva e solo apparentemente continuiamo a porci seriamente. Eppure, situazioni similari continuano a riproporsi nella nostra vita.
Tutto questo fino a quando persino la sofferenza ha toccato il fondo e ci costringe a fermarci ed a soffermarci sull’unica verità che conti: che siamo proprio noi a custodire quella risposta, anzi, e per meglio dire, a nasconderla per paura di guardare in faccia la vera fonte di tanto dolore.
Chi si nasconde veramente dietro le persone a cui noi consentiamo di farci del male persino quando loro non lo vogliono o non se ne rendono conto o sono semplicemente se stesse nella loro incommensurabile ma inconsapevole sciatteria e pochezza umana ma che senza rendersene conto hanno intercettato il nostro tallone di Achille andando a toccare quella piaga che per ragioni inspiegabili non si è mai rimarginata?
E’ questo il momento in cui siamo scoperti, siamo in trincea, ma soldati nudi, senza armi, senza elmetto, chiaro bersaglio del nostro nemico interiore, privi di comando, pronti solo a morire. Il re è nudo!
Al cospetto di una simile, terrificante, immagine di sé c’è solo una soluzione, credetemi non ve ne sono altre! Occorre fermarsi interiormente, conquistare il proprio tempo e cominciare lo scavo.
Iniziare a scavare è solo l’inizio di un viaggio nelle tenebre più profonde del proprio essere dove tante immagini si aggirano confuse, mostruose e minacciose, rese tali anche e soprattutto dalla nostra mancanza di volontà nel volerle riconoscere, identificarle, dare loro un nome e cognome, affrontarle, materializzarle.
Ma tu sei forte, fortissimo e scavi e scavi, con le mani, nude anch’esse, che si distruggono a sangue, ti fermi, respiri, ti arrendi ma qualcosa ti dice che vuoi guardare in faccia il tuo mostro, i tuoi mostri. Hai paura, tanta, sudi per la fatica dello scavo, per la paura dell’ignoto che ti aspetta, per le conseguenze di questa decisione che ti cambierà la vita ma non sai in che modo, bene, male, peggio! Chissà! In cuor tuo sai che le conseguenze di questa decisione saranno epiche e difficili da gestire e la domanda inconfessata: <<ne sarò capace?>>; <<sarò capace e forte abbastanza per affrontare i conflitti che ne seguiranno>>; <<saprò difendermi>>, <<in fondo subire è meglio che affrontare la battaglia!>> A volte, troppo spesso, non voler sapere è meglio perché ci sottrae alla guerra, al conflitto ed alla scoperta di ciò che siamo, dei nostri limiti: <<ce la farò ad affrontare la guerra?>> ed intimamente ti dici: <<no!, non ce la farò>>. E lo scavo si arresta. Questa è la vera sconfitta. E le repliche si ripetono, il <<disco rotto>> ricomincia e tu senti che stai scoppiando, nella tua vita nulla va per il verso giusto, sei avvilito, affranto, sconfitto, appunto! Ma in mezzo a questo mare in tempesta l’istinto di sopravvivenza ti riporta a prendere respiro e ci riprovi, questa volta con più determinazione e decidi di prendere il toro per i coglioni!
La conclusione di questa ricerca non è tanto ciò che trovi ma il non demordere mai dalla ricerca e, soprattutto, nell’individuare il <<disco rotto>> e fare appello a tutte le tue energie per interrompere quella musica che non sopporti più, come in un film dell’orrore perché il vero obiettivo diventerà riconoscere quel disco rotto ogni volta che si ripresenterà. A quel punto, forse, e dico forse, non ti interesserà più avere l’identikit che ti causa malessere, che ti costringe a subire ciò che ti schiaccia quanto cambiare musica ascoltandone una nuova, quella della tua bellezza interiore, nella Libertà e nella Luce del tuo Essere!
Non potrai dire ancora di avere vinto perché quello sforzo dovrà essere rinnovato ogni volta che quel meccanismo si ripresenterà ma avrai scoperto qualcosa di fondamentale: di avere la forza per affrontare il mostro che si nasconde dentro di te perché ciò che ci circonda non è bello o brutto in sé ma il modo in cui noi lo vediamo e lo affrontiamo.
“Possiamo perdonare un bambino che ha paura del buio. La vera tragedia della vita è quando gli uomini hanno paura della luce”
– Platone –
Laura C.
Continua
La Sindrome di Stoccolma
Quando la vittima diventa complice: analisi della sindrome di Stoccolma
La sindrome di Stoccolma è una reazione psicologica che si verifica quando una persona viene tenuta prigioniera. In questa situazione, la vittima sviluppa una connessione emotiva con il rapitore e può anche iniziare a provare simpatia nei suoi confronti.
Oltre alla situazione originale di rapimento, la sindrome di Stoccolma può manifestarsi in altri tipi di traumi in cui c’è un legame tra l’aggressore e la persona abusata.
Molti professionisti della salute mentale considerano questi sentimenti positivi un meccanismo di adattamento che usa per sopravvivere a lunghi periodi di abuso o trauma.
Come ha preso il nome la sindrome di Stoccolma?
Questa sindrome prende il nome dall’incidente di una rapina in banca avvenuta nel 1973 a Stoccolma, in Svezia. Durante i sei giorni di stallo con la polizia, molti impiegati della banca presi in ostaggio svilupparono una simpatia nei confronti dei loro rapitori.
Dopo essere stati liberati, alcuni di loro si rifiutarono di testimoniare contro i rapinatori in tribunale e persino raccolsero fondi per la loro difesa.
Un criminologo e psichiatra che ha studiato questo evento ha coniato il termine “sindrome di Stoccolma” per descrivere il sentimento di affinità che alcuni ostaggi sviluppano verso i loro rapitori.
Sintomi e cause
La sindrome di Stoccolma è una reazione psicologica a un evento traumatico in cui una persona sviluppa una connessione emotiva con il suo aggressore. I sintomi possono includere:
Ci sono diverse teorie sulla causa della sindrome di Stoccolma, ma in generale si crede che sia il risultato di un meccanismo di difesa psicologico utilizzato dalle vittime per sopravvivere a un evento traumatico.
Questo meccanismo di difesa può essere potenziato da vari fattori, come la durata del periodo di ostaggio, l’isolamento sociale, la minaccia alla sicurezza fisica e il controllo coercitivo esercitato dall’aggressore.
In generale, la sindrome di Stoccolma si verifica più comunemente in situazioni di prigionia, sequestro, rapimento o violenza domestica, ma può anche verificarsi in altre forme di abuso emotivo o fisico.
Gestione e trattamento
La sindrome di Stoccolma può avere un impatto significativo sulla vita delle persone che ne soffrono. Poiché questa condizione può portare ad affinità e sentimenti positivi verso i rapitori o gli aggressori, può essere difficile per la persona affetta riconoscere la pericolosità del loro aggressore e allontanarsi dalla situazione abusiva.
Ciò può portare a un pericolo fisico e psicologico a lungo termine per la persona coinvolta.
Inoltre, la sindrome di Stoccolma può causare sintomi simili a quelli del disturbo da stress post-traumatico (PTSD), come flashback, ansia, irritabilità e difficoltà a concentrarsi, che possono influenzare negativamente la qualità della vita.
Le persone con sindrome di Stoccolma possono anche sviluppare sentimenti negativi nei confronti delle figure autoritarie, come la polizia, il che può causare problemi nelle relazioni sociali e lavorative.
Tuttavia, con il trattamento adeguato, la sindrome di Stoccolma può essere gestita e gli effetti a lungo termine possono essere ridotti.
La sindrome di Stoccolma può essere trattata da un professionista della salute mentale attraverso diverse opzioni di trattamento.
Una di queste opzioni è la psicoterapia, che può aiutare a esplorare i pensieri e i sentimenti legati alla situazione traumatica e sviluppare strategie per affrontare gli effetti a lungo termine della sindrome di Stoccolma. In alcuni casi, i farmaci possono essere utili per gestire i sintomi associati alla sindrome di Stoccolma, come la depressione, l’ansia e l’insonnia.
In generale, la gestione e il trattamento della sindrome di Stoccolma dipendono dalla gravità dei sintomi e dalla situazione specifica in cui la persona si trova.
Valentina Cicerone.
Tirocinante di psicologia.
presso Studio Burdi

La porno dipendenza
La visione di contenuti sessualmente espliciti o pornografia è diventata sempre più comune.
Tuttavia, molte persone non prevedono o si aspettano che l’uso della pornografia influenzerà negativamente le loro vite.
In particolare, il rapporto di coppia può essere influenzato negativamente dalla pornografia.
Sebbene alcune ricerche suggeriscano che l’uso della pornografia in coppia possa avere risultati positivi, come la volontà di provare nuovi comportamenti sessuali o una maggiore intimità sessuale, altre ricerche hanno scoperto molti più potenziali impatti negativi.
Questi impatti negativi possono includere problemi di comunicazione, insoddisfazione sessuale, infedeltà emotiva, ridotta fiducia e problemi di autostima.
Se una relazione è stata ferita dalla pornografia, ci sono passi che possono essere presi per guarire la relazione.
Questi passi possono includere la comunicazione aperta e onesta tra i partner, la ricerca di aiuto professionale come la terapia di coppia e l’impegno a lavorare insieme per superare le conseguenze negative dell’uso della pornografia.
Impatti negativi
La pornografia può avere conseguenze negative sia per l’utente che per il suo partner intimo. I possibili effetti dannosi per l’utente possono includere la dipendenza, l’isolamento, l’aumento dell’aggressività, le convinzioni e le percezioni distorte sulle relazioni e sulla sessualità, i sentimenti negativi su se stessi e la trascuratezza di altre aree della loro vita.
Questi effetti possono anche influenzare negativamente i rapporti familiari e di coppia.
Nel contesto delle relazioni intime di coppia, la pornografia può avere impatti negativi, tra cui:
- La difficoltà dell’utente ad eccitarsi sessualmente senza pornografia.
- La riduzione del numero di esperienze sessuali con il partner.
- L’aumento dei comportamenti di infedeltà.
- La sensazione di minaccia sessuale del partner.
- Il giudizio su alcune attività sessuali desiderate dall’utente.
- La minore soddisfazione sessuale e la vicinanza emotiva.
- La diminuzione della fiducia nella relazione.
- La minore stabilità della relazione.
- La comunicazione meno positiva e la maggiore aggressività psicologica tra i partner.
- La preoccupazione per l’esposizione dei bambini al materiale pornografico.
Passi per la guarigione di una relazione ferita dalla pornografia
Guarire una relazione ferita dalla pornografia può essere un processo lungo e complesso, ma ci sono passi che le coppie possono seguire per iniziare il percorso di guarigione.
In primo luogo, è importante che entrambi i partner siano disposti ad affrontare il problema e ad impegnarsi nella riparazione della relazione. Ciò richiede onestà e apertura nella comunicazione, così come la volontà di ascoltare l’altro senza giudicare.
In secondo luogo, è necessario identificare il ruolo che la pornografia ha avuto nella relazione, comprese le conseguenze che ha avuto su entrambi i partner. Questo può essere doloroso, ma è importante per una comprensione completa della situazione.
In terzo luogo, le coppie possono cercare l’aiuto di un terapeuta specializzato in questioni relative alla pornografia e alla sessualità.
Un terapeuta può aiutare a sviluppare un piano di guarigione personalizzato, che può includere la costruzione di una relazione più intima e significativa, la riscoperta di interessi comuni e attività condivise e la creazione di nuove routine intime.
Infine, è importante continuare a lavorare sulla relazione e sulla comunicazione, anche dopo aver fatto progressi significativi.
La guarigione richiede tempo, impegno e pazienza, ma può portare a una relazione più forte e soddisfacente.
Potenziali effetti positivi dell’utilizzo della pornografia in coppia
È importante sottolineare che l’utilizzo della pornografia in coppia può anche avere effetti positivi sulla relazione.
Quando entrambi i partner sono aperti e consenzienti nell’utilizzo della pornografia, può fungere da una fonte di ispirazione per esplorare nuove fantasie e desideri sessuali insieme.
Inoltre, l’utilizzo della pornografia può aiutare a migliorare la comunicazione sessuale all’interno della coppia, aprendo la discussione su ciò che piace e ciò che non piace.
In alcuni casi, l’utilizzo della pornografia può anche aumentare la complicità e l’intimità emotiva all’interno della coppia, creando uno spazio sicuro in cui entrambi i partner si sentono liberi di esplorare la loro sessualità.
Tuttavia, è importante che l’uso della pornografia in coppia sia sempre consensuale e rispettoso dei desideri e dei limiti di entrambi i partner.
Conclusioni
In conclusione, la pornografia può avere un impatto significativo sulle relazioni intime e può portare a sentimenti di distanza, mancanza di fiducia e disagio.
Tuttavia, con la giusta attenzione e impegno, è possibile guarire una relazione ferita dalla pornografia.
È importante che entrambi i partner siano disposti ad affrontare il problema insieme, comunicare apertamente e cercare l’aiuto di un professionista se necessario.
Valentina Cicerone
Tirocinante di psicologia preso
Studio BURDI

Il Feticismo del Piede
Il feticismo del piede è un tipico interesse sessuale che coinvolge l’ attenzione e l’attrazione per i piedi. Le persone che hanno questa preferenza possono sentirsi eccitate guardando i piedi, le dita dei piedi e le caviglie. Tuttavia, la specificità di questo tipo di feticismo può variare da individuo a individuo.
Possono trovare attraenti i piedi decorati con unghie dipinte, gioielli o altri ornamenti, mentre altre possono trovare eccitante il massaggio o l’adorazione dei piedi.
Quanto è comune?
Il feticismo del piede è un tipo di preferenza sessuale che viene comunemente discusso e compreso rispetto ad altri tipi di feticci. Infatti, viene considerato un nodo sessuale tradizionale. Uno studio ha rivelato che i feticci legati alle parti del corpo umano sono tra i più diffusi, e tra questi, il feticismo del piede, o podofilia, rappresenta quasi il 50% delle preferenze.
Perché questa attrazione sessuale per i piedi?
Proprio come con le preferenze di abbigliamento o gli stili musicali, i nodi sessuali variano da persona a persona. Per chi ha un feticismo del piede, questa parte del corpo può essere estremamente eccitante.
Ma cosa c’è di tanto attraente nei piedi?
Molti esperti hanno offerto alcune teorie per spiegare questa attrazione. Una delle ragioni potrebbe essere biologica: i piedi sono ricchi di terminazioni nervose, il che significa che toccarli, massaggiarli o solleticarli può essere molto piacevole.
Inoltre, alcune persone potrebbero trovare il gioco dei piedi come un’esperienza intima e sensuale. Allo stesso tempo, per altri, il feticismo del piede potrebbe avere un aspetto psicologico.
I piedi sono spesso considerati come una parte “umile” del corpo, e questo può creare una dinamica di potere in cui la sottomissione e l’umiliazione possono essere vissute come estremamente eccitanti.
tipi comuni di feticismo dei piedi
Il feticismo dei piedi è una forma comune di feticismo sessuale e può manifestarsi in molti modi diversi:

Il feticcio dei piedi in una relazione
Il feticcio dei piedi è un interesse sessuale comune tra molte persone, ma ancora spesso considerato tabù dalla società.
Molte persone si vergognano di avere questo feticcio, ma in realtà non c’è nulla di cui sentirsi in colpa. È importante sottolineare che il feticcio dei piedi non è una patologia, né un disturbo mentale, ma un’attrazione sessuale che può essere completamente sana e normale.
Tuttavia, quando si tratta di introdurre questo interesse all’interno di una relazione, può essere difficile per molte persone trovare il coraggio di parlare apertamente del proprio desiderio.
Come con qualsiasi altra fantasia sessuale, è fondamentale discutere in modo aperto e onesto e trovare un compromesso che funzioni per entrambi.
In conclusione, il feticcio dei piedi è un interesse sessuale comune e normale che non dovrebbe essere fonte di vergogna o giudizio. Con una comunicazione aperta e rispettosa all’interno di una relazione, può essere un modo divertente e soddisfacente per esplorare la propria sessualità.
Cosa fare se il feticismo diventa un problema?
Il feticismo diventa un problema quando diventa una fonte di stress, ansia o interferisce con la vita quotidiana della persona. Ciò può accadere se il feticismo diventa un’ossessione che domina la vita della persona e interferisce con le sue relazioni interpersonali, il lavoro e le attività quotidiane.
Inoltre, se la persona non riesce a controllare il proprio comportamento feticista o se il feticismo causa angoscia o disagio psicologico, può essere utile cercare aiuto professionale.
In generale, il feticismo non rappresenta un rischio per la salute mentale, e può essere considerato come una forma di piacere, intimità e gioco tra partner consenzienti.
Tuttavia, in alcuni casi, il soggetto può provare sentimenti contrastanti riguardo alla propria deviazione psicologica, e desiderare di eliminarla. In questi casi, la psicoterapia può essere un’opzione interessante per analizzare il passato, il presente, la personalità e le relazioni dell’individuo.
Inoltre, per coloro che provano tali sentimenti contrastanti, è possibile cercare ausilio esterno per migliorare la relazione sentimentale e l’intimità con il proprio partner.
Valentina Cicerone
Tirocinante di psicologia presso lo
Studio BURDI

Disforia di genere: quando l’identità non corrisponde al corpo
Cos’è la disforia di genere?
La disforia di genere è una condizione in cui si sperimenta un conflitto tra il proprio sesso assegnato alla nascita e il genere con cui ci si identifica. Questa situazione può causare un grande disagio e far sentire a disagio la persona nel proprio corpo.
Le persone che vivono la disforia di genere potrebbero sentirsi inclini a esprimere il proprio genere in modo diverso da quello imposto dalla società. Questo potrebbe significare adottare un abbigliamento differente, utilizzare i pronomi e frequentare i bagni pubblici associati al proprio genere preferito, sottoporsi ad interventi medici o chirurgici specifici, o una combinazione di queste opzioni.
La disforia di genere non è una malattia mentale, ma alcune persone possono sviluppare problemi di salute mentale a causa della disforia di genere.
Segni di disforia di genere
La disforia di genere può manifestarsi in segni visibili nell’aspetto, nel comportamento o negli interessi delle persone che ne soffrono.
Inoltre, coloro che sperimentano la disforia di genere possono mostrare segni di disagio o di angoscia, come bassa autostima, ritirarsi o isolarsi socialmente, depressione o ansia, correre rischi inutili o trascurare il proprio benessere personale.
I sintomi della disforia di genere possono variare da persona a persona, ma in generale, possono essere divisi in due categorie principali: sintomi psicologici e sintomi fisici.
I sintomi psicologici possono includere:
- Una forte e persistente sensazione di disagio o sconforto legato al proprio sesso biologico assegnato alla nascita.
- Sentirsi disconnessi o estranei dal proprio corpo o dal proprio genere.
- Un forte desiderio di esprimersi come il genere opposto a quello assegnato alla nascita.
- Sentirsi ansiosi, depressi o emotivamente instabili a causa della propria identità di genere.
- Ritirarsi o isolarsi socialmente per paura di essere giudicati o non accettati.
I sintomi fisici possono includere:
- La volontà di modificare il proprio aspetto fisico per adattarlo al genere con cui si identificano. Ciò può includere la ricerca di interventi chirurgici, ormonali o altri metodi per modificare le caratteristiche sessuali primarie o secondarie.
- L’utilizzo di abiti o accessori che riflettono il genere opposto a quello assegnato alla nascita.
- L’evitare di mostrare parti del corpo che sono associati al genere assegnato alla nascita (ad esempio, i pettorali per una persona assegnata come maschio alla nascita).
È importante sottolineare che non tutte le persone con disforia di genere sperimentano tutti questi sintomi e che la gravità dei sintomi può variare da leggera a grave. Inoltre, questi sintomi possono presentarsi in qualsiasi momento della vita, ma spesso iniziano a manifestarsi in età precoce.
Cosa causa la disforia di genere?
Non si conosce ancora con precisione la causa esatta della disforia di genere.
Lo sviluppo del genere umano è un processo complesso e ci sono ancora molte cose che non sono completamente note o comprese.
Inoltre, è importante sottolineare che la disforia di genere non è correlata all’orientamento sessuale. Le persone che ne soffrono possono identificarsi come eterosessuali, omosessuali, bisessuali o di qualsiasi altro orientamento sessuale.
Trattamento
Il trattamento della disforia di genere dipende dalle esigenze e dalle preferenze individuali della persona che ne soffre. Alcune persone scelgono di non cercare alcun tipo di trattamento, mentre altre possono optare per un approccio medico, psicologico o una combinazione di entrambi.
Il trattamento medico può includere la terapia ormonale, che prevede l’utilizzo di ormoni per alterare le caratteristiche sessuali primarie e secondarie del corpo. In alcuni casi, possono essere prescritti farmaci per sopprimere le caratteristiche sessuali primarie o secondarie indesiderate.
La terapia chirurgica può anche essere un’opzione per alcune persone che desiderano modificare le loro caratteristiche sessuali primarie, come ad esempio la mastectomia per le donne transessuali o la chirurgia di ricostruzione del seno per gli uomini transessuali.
Oltre alla terapia medica, la terapia psicologica può essere utilizzata per aiutare le persone a gestire i sintomi della disforia di genere e ad affrontare le sfide che possono incontrare nella loro vita quotidiana. La terapia può includere la terapia cognitivo-comportamentale, la terapia di sostegno e la terapia familiare.
Valentina Cicerone
Tirocinante di psicologia preso
Studio BURDI

Appunti Per Amarsi
“Abbiate il cuore vicino e i battiti lontani”
(Tonino Bello)
Mio padre ha sempre vantato una sicura discendenza dagli svevi, la dimostrava non solo nei capelli rossi della famiglia, ma, anche da un generico carattere istintivo e inquieto. Così, quando alle medie, incrociai sui libri, Federico II, re fulvo e testardo, iniziai a crederci anch’io e a definirmi in un lignaggio, mai verificato, ma, che alla fine mi tornava utile, visto che giustificava alcuni tuoi battiti affrettati e incerti.
So che mi credi, quando ti dico che avrei voluto una mia storia, forse un po’ più lineare e che mi sento inutile, nei mille tentativi di ritracciamento di rotta. Scrivo a te, per questo; per un’incomprensione lontanissima e inguaribile, e che ci ha visti compagni, nel tentativo di voler dare nome vero, a chi insieme, abbiamo tentato d’amare.
Dovresti conoscere quella strana dinamica che porta volti carissimi e preziosi a divenire, d’un tratto, anonimi e distanti. Sai spiegarmi come succede? Qual è l’attimo preciso in cui ogni attesa scivola in un luogo che non conosciamo e disincanta ogni emozione buona? Lo devi sapere, per forza, perché gli stessi battiti che ci dichiarano amanti agli altri, sono gli stessi che, negli addii, ci smarriscono sui sentieri di chi vorremmo rincorrere e fermare.
Dare e avere, avere e dare. Ritorni che dovrebbero essere semplici e invece, tutto assomiglia, sempre più, ad un bilancio impari, quasi fallimentare, dove quello che si è impegnato o si è dato, è sempre eccedente rispetto all’incassato. Un calcolo, così avvilente, che alla fine, viene ribassata anche la moneta di scambio e l’incontro diventa chiamata, la chiamata, messaggio, il messaggio, un like, un like, per buona pace di tutti, un generico astratto pensiero. Fine delle trasmissioni.
Dare e avere. Ricordi? Al liceo, rincorremmo due autobus, perché l’amata di allora non era scesa alla fermata fissata. Perdemmo la serata a rifarci i percorsi, per scoprire, alla fine, che non era mai salita su nessuno dei tram. Il programma era cambiato, ma non ci aveva avvisato. Eppure il dare e avere si scontorna, incredibilmente, su queste traiettorie: c’è uno che dà e trova nel suo cuore risorse e forze continue e c’è un altro destinato a ricevere. Ammesso che non le scansi…
Lo scarto tra innamoramento e amore si gioca qua: quando l’altro declina sé stesso, verso la reciprocità. Se non ci fosse questa, ogni rapporto potrebbe diventare un’emorragia mortale. Scrivo a te, per un’incomprensione che non siamo riusciti mai a sanare. Semmai, invidiosi di altri che riuscirono nell’impresa e noi già stancati da tentativi e sogni insonni di intere mezze estati: “Perfino quando la scelta è concorde, la guerra, la morte, la malattia assediano l’amore lo rendono momentaneo come un suono, furtivo come un’ombra…” dice Shakespeare.
So che la stanchezza ha una lingua sveglia e ci si convince facilmente di essere stanchi per rincorrere, per spiegare, per scusare, stanchi di trovare voce e giustificazioni ai silenzi degli altri. Stanchi non della loro indifferenza, ma, peggio, della loro superficialità. Non sempre sono amori non ricambiati, anche normali amicizie o rapporti troppo carichi di aspettative. Aspettative…sembra uno sbaglio anche l’uso di questo sostantivo, perché seppur il linguaggio degli amanti, per dirla alla Barthes, risieda nell’attesa, essa non si dischiude a noi, come vorremmo. Forse perché immaginiamo che l’altro ci debba un’ala, per volare.
Qualche volta ti scuoto, quasi fossi un antico orologio a corda e temo che qualcosa si sia rotto; il tanto dato ha allentato i giri delle molle e la lancetta dei minuti è rassegnata a non coprire più, con esattezza, i segni del tempo. Nella stessa misura, i miei pensieri non coincidono, esattamente, con chi inseguo. So che è cosa normale, ma, perché, poi, i giorni dell’avvicinamento e dell’addio hanno lo stesso sapore dolceagro e solo i pianti della notte ne segnano la differenza?
Così, stanco di questi soliloqui e assenze, ho imparato a cercare te.
Lontano da ogni volto, da ogni nome, da ogni desiderio, parlo a te, quasi io fossi un reduce che scopre quanto è importante vivere, nel malandato tragitto verso casa. Ora, vorrei convincerti e dirti che non abbiamo sbagliato nulla; che ogni battito dato non è andato perso, se è servito a capire non tanto la gente, quanto noi stessi. Oltre quei momenti la nostalgia sembrava andare nella direzione opposta alla volontà. Traditi da chiunque. Lasciati a recitare parole che nessuno poi, ha sentito, se non io e te; discorsi lunghissimi che riprendevano fiato in una canzone. In un film. In una foto, a tratti, sempre più sfuocata ed estranea. Seduti a maledire quella mela che resterà a metà! A grattarne via i semi, magari tornasse utile alla fame dei rimorsi. Almeno a quella.
“Tέτλαθι δή, κραδίη” “Sopporta, cuore!”. Ulisse si faceva forza con questo detto, consapevole che, alla fine della sua Odissea solo la propria personale pazienza si sarebbe opposta al destino voluto dagli dei. Diversi ellenisti hanno fatto tradotto il verbo principale non con sopporta, ma, con: compi fino in fondo, realizzati pienamente.
Scrivo a te, mentre tra le mani sembra ci sia poco. Vorrei riportarti a istanti in cui tutto sapeva di una felicità, senza scadenze. La vita si esprime in una lingua che traduciamo piano. Vorrei amare te (amare me), prima di cercare altre mani; prima di abbracciare più forte quelli a cui dimostro poco affetto. Sopporta, o meglio, realizzati! In fondo, siamo sulla strada buona se non siam restati a richiedere, ciò che non c’è stato dato indietro. Se sei diventato grande, mentre ti scartavano, perché giudicato insufficiente. Se davanti alle cattiverie, ti son rimasti propositi di nobiltà.
Se non ti sei arreso. Ed oggi è facile, perché perfino gli sguardi e le intese si son fatte fragilissime. Le risposte a questo le avrà il cervello. Noi possiamo opporre resistenza, cercando ancora Bellezza. Non altrove, ma, prima, dentro di noi.
Poi, semmai, ci avvicinerà un altro cuore e insieme sapremo che potremo chiamarlo amore.
Luca Anaclerio
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