Tanatofobia
Metodo di approccio di psicoterapia dello Studio BURDI
per
SUPERARE LA TANATOFOBIA (LA PAURA DELLA MORTE , OVVERO LA PAURA DI VIVERE)
Cos’è la tanatofobia
La tanatofobia ovvero l’angoscia, la paura di morire, può essere un disturbo fortemente limitante per l’esistenza degli individui che lo sperimentano.
La paura della morte è un’emozione che riguarda ogni essere umano ed è fondamentalmente associata all’istinto di sopravvivenza primordiale.
Tuttavia nella vita quotidiana, alcuni meccanismi di difesa, quali la rimozione, ci consentono di collocare la morte lontano da noi permettendo che tale emozione non pervada i nostri pensieri e non condizioni in maniera significativa le decisioni, le azioni, i pensieri di ogni giorno.
Ciò fintanto che un’esperienza di malattia o la morte di una persona a noi vicina non riapre alla nostra coscienza la consapevolezza della morte, spesso ridisegnando nuove scale di priorità, nuovi significati per la nostra esistenza, insieme a difficoltosi passaggi.
Nella tanatofobia, la paura della morte genera un’angoscia opprimente che impedisce di vivere: qualsiasi azione vitale diventa potenziale portatrice di morte.
Dal punto di vista neurofisiologico la tanatofobia è paragonabile ad un processo difensivo di spegnimento, in cui rabbia, paura, senso di impotenza predominano e in cui il soggetto, incapace di andare avanti, rimane paralizzato in uno stato di immobilità e di paura, come di fronte ad un predatore.
Dal punto di vista psicanalitico, la tanatofobia è riconducibile alla pulsione di morte, così come intesa da Freud, in quanto questa genera l’azzeramento degli stimoli e la ricerca di una pace ideale, irraggiungibile, in cui si realizza la rimozione di tutte quelle situazioni in cui il soggetto può trovarsi desiderante, desideroso di ciò che potrebbe essere negato.
L’angoscia di morte in tal senso non è che l’altra faccia dell’angoscia di vivere e rivela la relazione alla propria esistenza, un’esistenza inappagante e fonte di frustrazione, in cui ci si sente incapaci di avere strategie, in cui l’esistenza è sostanzialmente subita in maniera passiva e si è perso di vista la propria importanza e la propria “competenza” nel vivere. Dominante è il senso di colpa per la mancata realizzazione di sé e l’angoscia per il senso di incompatibilità tra un sé che si è perso ed una vita che ha disatteso le sue aspettative.
Particolarmente nocivi possono essere alcuni contesti socio-culturali che propongono modelli rigidi, rappresentativi di condizioni ideali che poco corrispondono alla realtà soggettiva e alle reali, profonde, uniche aspirazioni dell’individuo, alimentando in alcuni, un profondo senso di inadeguatezza.
Come si cura la tanatofobia
Per il trattamento della tanatofobia è fondamentale costruire in un primo tempo una buona relazione terapeutica mirata a sviluppare nel soggetto la capacità di ascoltarsi profondamente e di relazionarsi alla propria esistenza come ad un’esperienza personale, che richiede continua capacità di adattamento e di elaborazione di strategie di fronte alle frustrazioni. Essa è mirata inoltre ad evidenziare e a valorizzare le competenze dell’individuo, a stimolarne la capacità di mettere in parole il proprio disagio e le proprie paure.
Altro aspetto fondamentale per il trattamento della tanatofobia è la realizzazione di un percorso di uscita dallo stato di immobilizzazione, intimamente legato alla paura.
Questo può essere operato attraverso dei percorsi terapeutici ad-hoc che prevedono la realizzazione di piccole azioni quotidiane gratificanti, in grado di stimolare nel paziente la capacità di individuare, attraverso lo sviluppo dell’attenzione, molteplici fonti di gratificazione nelle attività di ogni giorno. Ciò consente al soggetto di recuperare gradualmente il proprio senso di competenza ed adeguatezza.
Tipicamente, tra questi percorsi vi sono i protocolli mindfulness(1), che propongono la realizzazione di attività semplici, ma significative, effettuate in piena consapevolezza. Questi percorsi sfruttano inoltre la dinamica di gruppo, per rendere più agevole il mantenimento degli obiettivi e favorire l’uscita dalla solitudine in cui è sovente nutrito e alimentato il senso di paura e l’immobilità.
Nel caso della tanatofobia, come anche sottolineato dalla teoria polivagale (2), è importante promuovere nel paziente l’attuazione di meccanismi difensivi più evoluti, legati al coinvolgimento in relazioni sane di tipo supportivo in grado di generare sicurezza, rispetto a meccanismi difensivi di tipo primitivo all’origine dell’immobilizzazione e della paura.
In tal senso anche l’ipnosi può essere un valido strumento d’aiuto: l’utilizzo dell’attenzione condivisa, il tono ed il ritmo della voce, l’utilizzo di immagini metaforiche che emulano la qualità di un’esperienza di attaccamento di tipo sano, sono infatti in grado di generare sicurezza nel paziente, favorendo l’accesso alla consapevolezza delle proprie paure e ad un maggiore controllo dei propri stati ansiosi a queste connessi (3).
Sintesi a cura di
Dott.ssa Laura Cecchetto
Tirocinante di Psicologia
presso lo Studio BURDI
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(1) Tang, Y. Y. (2017). The neuroscience of mindfulness meditation: How the body and mind work together to change our behaviour. Springer.
(2) Porges, S.W. (2017). The pocket guide to the polyvagal
ContinuaIl Dolore Non È Per Sempre
IL DOLORE NON È PER SEMPRE
Quante volte nella nostra vita abbiamo pensato : questa notte, questa sofferenza non passerà mai, e poi quando siamo felici, ci sembra normale, scontato, non ci diciamo che bello mi vivo adesso, il qui ed ora, troviamo sempre un qualcosa per rovinarci la festa, il nostro entusiasmo.
Per tutti noi, ogni giorno deve essere un compleanno, dobbiamo festeggiarci ogni istante, fare fuori d’artificio, brindare, ubriacarsi di vita per le azioni compiute, i passi fatti in avanti e anche per il dolore passato o presente, tanto poi passa, passa sempre tutto, può restare il dolore fisico, ma quello morale supera tutto.
Ma una persona si fortifica se attraversa a pieno il dolore, NON scappando da esso, ma percorrendolo e ripercorrendolo ne esce, dovrebbe tuffarcisi dentro per attraversarlo, per arrivare di braccia al bagnasciuga, dopo una sfinita nuotata.
Evidentemente siamo stati per molti anni nella nostra vita numeri due, i numeri nulli, siamo stati delle falsità, ci siamo fatti rendere passivi, e il dolore non passa da mai da solo da un giorno all altro, bisogna accarezzarsi e prendere a pugni, più tempo sei stato in secondo piano, piu hai sofferto e più tempo ci vuole per essere in primo, il numero uno.
Ma, ci vuole tempo, pazienza e presenza a se stessi per affrontare il dolore e solamente una volta superato, lo potrai credere necessario.
Solo elaborando il dolore possiamo recuperare gli anni perduti e capire che di treni persi nella nostra vita non sono poi così tanti, rispetto a quelli ancora da prendere, perché una vita nel dolore è poco conto rispetto agli attimi di vita riscoperti, perché l unico treno della nostra vita è in quest’ora istante, ADESSO , è nel il qui ed ora, miglioralo con la tua presenza.
Angelo CHIONNO
ContinuaIl Senso di Colpa Disfunzionale
Metodo di approccio di psicoterapia dello Studio BURDI
per
SUPERARE I SENSI DI COLPA DISFUNZIONALI
Il senso di colpa disfunzionale nelle relazioni e il diritto di essere felici.
Il senso di colpa è uno stato emotivo associato alla convinzione di essere all’origine di una determinata situazione negativa per sé o per gli altri.
Tale stato emotivo presuppone l’elaborazione di un giudizio di valore. Si può allora trattare di un giudizio sulla negatività di un’azione rispetto ad un valore interiorizzato o di un giudizio sulla negatività di un’azione a partire dalla percezione della sofferenza e del disagio che questa ha generato o potrebbe generare per sé o per gli altri.
Il senso di colpa implica quindi l’interazione complessa di una serie di giudizi di valore formulati sulla base della propria esperienza di vita e della propria educazione, ma anche di una serie di qualità personali, come ad esempio l’empatia, che implicala capacità di percepire e comprendere la sofferenza degli altri.
Il senso di colpa, inibendo potenziali azioni/comportamenti considerati nocivi al benessere altrui, ha dunque una funzione sociale importante in quanto incentiva un mutuo senso di responsabilità e contribuisce a regolare le relazioni in modo da rendere possibile ed utile alla sopravvivenza della comunità, la convivenza tra gli individui.
Il ruolo inibitorio del senso di colpa rispetto a pensieri ed azioni potenzialmente nocivi diventa tuttavia disfunzionale laddove il criterio di giudizio applicato è fallace e laddove un senso di responsabilizzazione eccessivo compromette la realizzazione personale.
L’individuo si trova così a reprimere pensieri ed azioni che riguardano la propria stessa sopravvivenza e la propria vitalità.
L’attitudine ad un senso di colpa disfunzionale si sviluppatipicamente in presenza di un determinato contesto sociale/ familiare che utilizza o ha utilizzato il senso di colpa come strumento di manipolazione e di controllo sull’ individuo per l’ottenimento di un comportamento voluto o per legittimare azioni/comportamenti propri illeciti di cui non si vuole o non si è in grado di assumere la responsabilità.
Non è difficile rendersi conto di quanto spesso il senso di colpa entri in gioco all’interno delle relazioni, dove in piccole o in grandi proporzioni uno o più individui si trovano a limitare la propria realizzazione, ma anche le proprie emozioni di gioia a fronte delle difficoltà o della depressione di una persona vicina.
Da notare che il senso di colpa si può manifestare non solo come emozione, sentimento di sofferenza, ma anche, nei fatti, come esperienza di auto-sabotaggio punitivo: un figlio che sabota sistematicamente le proprie relazioni sentimentali a fronte delle ansie o del senso abbandonico di un genitore dipendente, unadonna che sabota le proprie riuscite professionali a fronte del senso di inadeguatezza che potrebbe sperimentare il partner.
Da notare che il senso di colpa sottintende una sorta di locus of control interno di tipo negativo per cui il luogo, la causa della situazione negativa che accade e che potrà accadere è individuato all’interno di sé in una sorta di incapacità ad intravedere altri luoghi di responsabilità.
Chi si colpevolizza finisce così per punire sé stesso non concedendosi la libertà e gli spazi intrinsecamente necessari all’esistenza e alla realizzazione di sé: il diritto all’azione libera e creativa è negato, cosi come il diritto di essere felici.
È importante sottolineare che tale dinamica tende tanto più a radicarsi quanto più essa è coadiuvata da terzi che consapevolmente o meno, ricavano un vantaggio dall’estrema responsabilizzazione di colui che si colpevolizza.
Come si guarisce dal senso di colpa
È possibile liberarsi dei sensi di colpa disfunzionali e sistematici grazie ad un percorso psicoterapeutico adeguato.
La psicoterapia può fornire in un primo tempo gli strumenti necessari a non arenarsi sulle sensazioni provate, che tendono a mantenere l’individuo in uno stato punitivo, incoraggiando il paziente ad andare avanti e a muoversi dallo stato di immobilità psichica indotto dal senso di colpa stesso.
In un secondo tempo la psicoterapia può aiutare ad evidenziare il senso di colpa disfunzionale, identificando chiaramente le fallacie del ragionamento nelle attribuzioni di responsabilità e la sproporzione tra la gravità dell’atto/pensiero e il senso di colpa sperimentato.
Di fondamentale importanza nel quadro del percorso psicoterapeutico è circostanziare il senso di colpa, mettendo chiaramente in evidenza in quale contesto relazionale familiare questo si è sviluppato o si sviluppa attualmente.
Ciò consente di ripristinare via via un principio di realtà più funzionale alla realizzazione personale e di liberare l’individuo delle catene che gli impediscono di vivere la propria vita.
Infine la psicoterapia si presenta come strumento per la riconquista e il consolidamento dell’auto-stima e del rispetto per sé nelle scelte relative alla propria esistenza e nelle relazioni, luogo in cui maturare la consapevolezza del fatto che la propria realizzazione può essere un punto di forza fondamentale e di benessere sia per sé che per i propri cari.
Sintesi a cura di:
Dott.ssa Laura CECCHETTO
Tirocinante di Psicologia
presso Studio BURDI
Continua
Sano Egoismo
Il sano egoismo
dal greco, io esisto
Sarà capitato a tutti qualche volta di sentire le parole “sano egoismo” e forse di rimanere perplessi dinanzi a questa strana combinazione, ma è giusto etichettare l’egoismo, una caratteristica con una connotazione negativa, “sano”?
Secondo me sì però con le dovute accortezze, vi spiego il perché sto affermando questo.
Ho realizzato ciò da una seduta di terapia di gruppo dove alcune persone hanno raccontato delle loro esperienze e tutte avevano in comune un singolo fattore: la troppa disponibilità nei confronti degli altri.
L’egoismo è, purtroppo o per fortuna, necessario per proteggerci dai nostri “nemici” e/o da situazioni che fanno trascurare la nostra persona e ci limita. La troppa disponibilità crea poi degli obblighi che ci imprigionano, rendendoci succubi di essi o peggio ancora, di malintenzionati.
È però anche vero che l’essere troppo egoisti allontana le persone da noi, quindi che tocca fare?
Bisogna essere in grado di capire quando e con chi essere egoisti perché le persone si comportano in determinati modi sempre con delle motivazioni che potrebbero essere giustificate o meno.
È di fondamentale importanza quindi cercare di capire l’altra persona cosa ha intenzione di fare, sempre tenendo le dovute distanze quindi cercando di essere disponibili ma non troppo.
Basti pensare ad una relazione tossica dove voi siete la vittima, in questo caso è giusto essere egoisti e pensare a voi stessi pena il divenire succubi del vostro “caro e amato” partner che potrebbe risultare essere un potenziale carnefice se esso è una persona molto violenta e manipolatrice.
Le terapie di gruppo mi hanno insegnato che è imporante essere empatici e disponibili ma con le dovute precauzioni e non smetterò di rimarcarlo.
Avere la giusta dose di sano egoismo significa amare se stessi, preservando la propria persona. La nostra autostima cresce, permettendoci di compiere scelte con una sicurezza che prima non avevamo o non sapevamo di avere!
Essere “egoisti” ci permette di stare bene con noi stessi e voglio sottolineare una cosa che sembra stupida ma non lo è affatto:
Avere il sano egoismo non esclude l’essere altruisti nei confronti degli altri. Basta essere giusti con noi stessi e con gli altri, niente di più semplice.
Alcune persone leggeranno ciò che ho scritto e diranno che ho sbagliato, che bisogna essere gentili con gli altri, eccetera.
Da lì capirò che quelle persone sono i cosidetti martiri, individui che mettono SEMPRE gli altri dinanzi a loro, rimanendo danneggiati nel processo per poi lamentarsi con il povero cristiano di turno.
Purtroppo alcuni devono imparare a capire qual’è il confine tra sano e malsano egoismo. Ecco cosa si intende per “sano egoismo”: una potentissima arma che come tutte deve essere usata in modo responsabile e con fermezza se necessario.
Ricordate: non c’è niente di male ad amare se stessi! Io ne so qualcosa e sono orgoglioso dei risultati che sto raggiungendo
raffaele
ContinuaLa Scalata
La scalata della vita e Walter Bonatti
A volte ci dimentichiamo che la vita prima di essere un’avventura con qualcun altro è un avventura con noi stessi, alla scoperta dei nostri limiti e verso il loro continuo superamento.
In questa avventura la precarietà della vita e molto spesso le relazioni con gli altri ci mettono alla prova e rappresentano dei veri e propri challenge.
Molto spesso siamo tentati di pensare che tali challenge non dovrebbero esserci e che il fatto che vi siano, sia la dimostrazione che abbiamo sbagliato qualcosa o che qualcun altro abbia sbagliato qualcosa.
Entriamo cosi’ in un loop di colpevolizzazione nostra o degli altri, generatore di sofferenza, dal quale non riusciamo ad uscire.
Spesso inoltre ci inganniamo pensando che per gli altri non vi siano challenge da superare.
Walter Bonatti, alpinista, fine stratega della montagna, autore di indimenticabili imprese negli anni ‘50, raccontava come di fronte ad una parete che improvvisamente si presentava liscia e senza appigli, fosse costretto ad ingegnarsi per inventare punti di aggancio, che a prima vista non sembravano tali, a ricercare nuove strade, spesso lasciandosi dondolare nel vuoto come un pendolo per ampliare la prospettiva.
Walter Bonatti nelle sue scalate era animato dalla ferma convinzione che il nuovo appiglio, il nuovo passaggio, seppur momentaneamente nascosto alla vista, fosse lì, alla sua portata, da qualche parte e gli avrebbe aperto la strada verso la vetta.
La relazione di Bonatti con la montagna è una metafora della relazione dell’uomo con la vita, in cui sforzo, solitudine, solida preparazione psico-fisica, consapevolezza degli ostacoli che si presenteranno e capacità di tollerare la sofferenza sono coltivati grazie ad una profonda fiducia nel fatto di essere destinato alle “altitudini”, in cui fantasia e creatività si dispiegano e fanno sentire l’uomo pienamente vivo.
Fondamentali erano per Bonatti gli attrezzi che egli portava con sé e che sapeva adattare alle esigenze del momento.
Anche ognuno di noi nasce e cresce con una cassetta degli attrezzi, quando ci sentiamo persi è spesso perché abbiamo dimenticato di possederne una, abbiamo perso la fiducia nella nostra capacità di utilizzarla e nel fatto che lì dentro vi può essere quanto ci serve, ma soprattutto abbiamo smesso di credere che quelle “altitudini” sono sempre alla nostra portata, in modi diversi, indipendentemente dalla nostra età e dalla nostra momentanea situazione di vita.
La psicoterapia ci può aiutare a ricordare che abbiamo una cassetta degli attrezzi e a scavare nella nostra cassetta alla ricerca dello strumento giusto, che è solo nostro.
Si tratta di un percorso che se da un lato implica la consapevolezza della nostra solitudine di fronte agli ostacoli,dall’altro ci fa prendere coscienza della nostra forza e delle nostre risorse e ci aiuta a rimanere allenati per nuove sfide e a meglio riconoscere e a scegliere i nostri più validi compagni di cordata.
Anche noi come Bonatti, alpinisti della vita, dobbiamo ogni tantoalzare lo sguardo per ricordarci che la nostra vetta ci attende e, quando serve, farci dondolare come un pendolo per ampliare le prospettive, spostarci anche solo per un istante da ciò che non ci fa andare avanti, perché la prima e la più importante azione della vita è cambiare lo sguardo, avere fiducia nel fatto che sempre nuovi percorsi interiori od esteriori sono alla nostra portata per raggiungere le nostre cime.
Dobbiamo credere che la vita, come la montagna per Bonatti, ci fornisce gli ostacoli, ma anche quegli strumenti, quegli appigli,quei passaggi, tanto più perigliosi, quanto liberatori.
Dott.ssa Laura Cecchetto
Tirocinante di Psicologia presso lo Studio BURDI
Continua
Il raccordo degli accordi
Il raccordo degli accordi
Puoi chiamarlo accordo ma in realtà è puro “raccordo”.
Ti ritrovi la al centro di diverse correnti, strade, vicoli.
Le abitazioni sono pensieri, sensazioni, punti di vista, prese per mano o spinte di pugno, occhi che cercano o sguardi che allontanano.
Alcune le gradisci e altre meno, alcune le subisci e altre meno ma se non ci fossero non esisterebbe “raccordo” e non esisterebbero strade e nessuna vista, pensiero, occhi o sguardi.
Gli spazi, i tempi, le passioni, le preferenze, i sapori e i dissapori, diventano suoni.
E nel percorso non esiste stridore perchè tutto è colore,
perchè tutto è leggero, perchè ogni cosa ha il suo odore, e con la stessa semplicità attraverso il quale respiri, scegli di percorrerlo oppure no, scegli di deviarlo oppure no.
Un giorno canti mentre gli alberi svolazzano, quello dopo sorridi mentre le persiane dei palazzi si incazzano.
Tutto è suono e tu sei musica, fuori di te le note e dentro di te le corde, e poi tutto è musica e tu sei suono, fuori di te le corde e dentro di te le note… non sai e non vuoi sapere quale sia il punto d’incontro, non t’importa definire ciò che vi unisce.
Il tuo contrario è solo un palindromo e il tuo dissapore solo una scusa per invertire marcia e ripercorrervi ancora.
Non è importante conoscerne i perchè e i per come, la domanda è ignorata, la spiegazione sopravvalutata, la teoria schernita, perchè la vibrazione vince sulla partita.
“Io vibro quando sto bene.
Io vibro quando sto male.
Io vibro quando STO.
Se stai bene, se stai male, se anche tu STAI.
Ti va di vibrare un po’ con me?”
carmen de gironimo
ContinuaSuperare l’ansia anticipatoria
Metodo di approccio di psicoterapia dello Studio BURDI
per
SUPERARE L’ANSIA ANTICIPATORIA
Cos’è l’ansia anticipatoria
L’ansia anticipatoria è spesso un sintomo correlato ad altri disturbi ansiosi, come l’ansia generalizzata, l’ansia sociale, l’ansia di separazione, che può anche essere correlato a particolari tipo di personalità come ad esempio la personalità evitante o dipendente.
In generale si può definire come una forma di angoscia proiettata esclusivamente verso il futuro e più precisamente, come per altri disturbi di ansia, si manifesta come una paura di essere sorpresi da un evento “orribile” (secondo il sistema di valori di chi la prova) in grado di generare a sua volta una paura insostenibile: si tratta quindi di una paura della paura.
Il sintomo dell’ansia anticipatoria sussiste in quanto, seppur generando una grande sofferenza, fornisce una momentanea illusione di poter scampare all’evento orribile e alla paura, preoccupandosene anticipatamente.
Nel contesto culturale in cui viviamo anticipare il futuro per essere pronti alle eventualità della vita è un atteggiamento considerato normale. Immaginare di aver previsto e di essere quindi in grado di gestire le varie possibilità ha un effetto rassicurante e consente di affrontare con un certo margine di serenità sia lo svolgimento delle attività quotidiane, sia altre attività più eccezionali come fare una presentazione in pubblico, partire in viaggio, cambiare un lavoro etc.
Considerate quindi le premesse culturali che in qualche modo coadiuvano la comparsa di questo tipo di disturbi, nel caso specifico le persone che soffrono di ansia anticipatoria sono persuase del fatto che naturalmente l’eventualità più probabile nel futuro sarà anche la peggiore.
Queste persone immaginano sistematicamente che il peggio sarà ciò che sicuramente accadrà loro rimanendo in questo modo sommerse dalle sensazioni di impotenza e di orrore che scaturiscono dalle proprie proiezioni.
Inoltre molto spesso l’evento temuto finisce proprio per concretizzarsi a causa dell’ansia e del turbamento che pervadono la persona nel momento in cui si trova nella situazione da affrontare e il cui scenario catastrofico era stato immaginato precedentemente.
Bloccate e sofferenti dal punto di vista psicologico, per evitare la paura il paziente mette in atto una serie di strategie disfunzionali (evitamento delle situazioni, ricerca permanente del sostegno esterno etc.)che hanno come risultato quello di amplificare la sensazione di mancanza di controllo e quindi la paura stessa, inficiando fortemente la qualità della vita.
Come si cura
Per poter affrontare le problematiche invalidanti legate all’ansia anticipatoria e alla paura è bene tener conto del fatto che la paura è il risultato di un meccanismo di difesa ancestrale, messo in atto dalla componente più arcaica del nostro cervello sulla quale la parte più evoluta ha un debole controllo. Inoltre, è necessario considerare che l’ansia anticipatoria, seppur disfunzionale, è a sua volta una strategia di difesa dalla paura stessa.
Lavorare sulla razionalizzazione delle proprie paure risulta quindi molto spesso infruttuoso, mentre risalire alle cause della paura può da solo non essere sufficiente a scardinare una strategia difensiva consolidata da tempo.
Gli approcci terapeutici oggi più efficaci per il trattamento dei disturbi ansiosi, lavorano pertanto su altri aspetti che riguardano l’accettazione delle proprie emozioni e la realizzazione concreta attraverso il vissuto, di un nuovo modo di relazionarsi con la realtà che va a scardinare operativamente le vecchie strategie disfunzionali (1). Illustriamo qui brevemente i punti principali di tali approcci:
–Il riconoscimento della funzionalità del sintomo ansioso come strategia di difesa dalla paura.
Il riconoscimento della funzione strategica di ciò che si sta vivendo, consente una parziale distanziamento dal sintomo, nel nostro caso l’ansia anticipatoria, e apre in qualche modo all’esistenza di altre strategie possibili. Questo lavoro di consapevolezza può essere coadiuvato dalla compilazione di un diario di bordo, supervisionato dal terapeuta.
–Il lasciare lo spazio alla paura e entrare in contatto con le sensazioni che anche a livello fisico questa genera.
Accettare di avere paura e lasciare a questa emozione lo spazio di esistere, consente di allentare le tensioni aggravate dai tentativi infruttuosi di rimuoverla.
Particolarmente rilevanti per lo sviluppo di tale attitudine sono i protocolli terapeutici mindfulness-based.
Diversi studi di neuroscienze hanno in effetti messo in rilievo l’importanza dello sviluppo della consapevolezza delle proprie sensazioni fisiche nel momento presente e della relazione corpo/emozioni nel ripristino di un controllo da parte del cervello più evoluto, la nostra corteccia, sul cervello primitivo.
In particolare le pratiche basate sulla mindfulness sono in grado di incrementare la capacità di regolazione delle proprie emozioni (2) ed hanno un effetto positivo sulla capacità di inibire il comportamento automatico e reattivo(3),
-Il rimodellamento della percezione della realtà e di sé stessi per attuare nuove modalità di interazione
Ciò viene realizzato favorendo nel paziente la consapevolezza che vi sono diverse rappresentazioni possibili e promuovendo l’attuazione di azioni e comportamenti concreti più funzionali, attraverso suggestioni terapeutiche.
Sintesi a cura di:
Dott.ssa Laura Cecchetto
Tirocinante di Psicologia presso Studio BURDI
- Nardone, G. (2010). Paura, panico, fobie. Ponte allegrazie.
- Tang, Y. Y. (2017). The neuroscience of mindfulness meditation: How the body and mind work together to change our behaviour.
- Pozuelos, J. P., Mead, B. R., Rueda, M. R., & Malinowski, P. (2019). Short-term mindful breath awareness training improves inhibitory control and response monitoring. Progress in brainresearch, 244, 137-163.
Superare l’ipocondria
Metodo di approccio di psicoterapia dello Studio BURDI
per
SUPERARE L’IPOCONDRIA
Cos’è l’ipocondria
La caratteristica fondamentale dell’ipocondria o ansia di malattia, è la preoccupazione o la persuasione di essere gravemente malati al minimo sintomo fisico sospetto.
L’aspetto fondamentale dell’ipocondria è che tale convinzione persiste a dispetto delle rassicurazioni mediche e di esiti diagnostici negativi.
Di fatto è corretto parlare di ipocondria solo nel caso in cui le valutazioni mediche abbiano consentito di escludere la malattia reale, sebbene vi possano essere forme di ipocondria legate ad un’ansia eccessiva in presenza di un disturbo organico non grave.
Se i problemi di salute possono essere immaginari, di fatto l’angoscia che questi generano non lo è e l’ipocondria è un serio disturbo in grado di inficiare gravemente la qualità della vita di una persona.
Cause dell’ipocondria
L’ipocondria è un disturbo complesso le cui cause possono essere difficili da stabilire.
Secondo la teoria psicoanalitica di Freud(1) all’origine dell’ipocondria vi sarebbe la frustrazione legata all’impossibilità di trovare il soddisfacimento delle proprie pulsioni in oggetti esterni; ciò comporterebbe a lungo termine l’investimento in oggetti di natura interna, nel caso particolare il corpo, il soma.
La libido, parzialmente ritirata dagli oggetti esterni viene investita nel corpo, che diventa pertanto ciò che consente di mantenere e di scaricare la propria energia pulsionale.
Il ruolo vitale assunto dal corpo in questo senso determinerebbe a lungo termine la forte preoccupazione per la sua deteriorazione e la paura della malattia.
All’origine del disturbo vi sarebbe quindi prevalentemente la frustrazione derivante dagli oggetti esterni, tipicamente vissuti di trascuratezza, un ambiente familiare assente o falsamente presente nella fase dello sviluppo.
Da notare che l’ipocondria può essere accentuata in situazioni di allontanamento dagli oggetti familiari e può riguardare il proprio corpo o quello delle persone care, dei figli.
Quest’ultimo aspetto è particolarmente rilevante in quanto pone l’accento sulla possibile trasmissione familiare/transgenerazionale dell’ipocondria e del modello di relazione oggettuale tipicamente ipocondriaco.
Ciò delinea pertanto tra le possibili cause dell’ipocondria, anche quella di un disturbo mutuato da figure parentali o figure significative dell’ambiente familiare.
Infine il ri-orientamento dell’investimento oggettuale da esterno ad interno, può insorgere anche come conseguenza di un trauma, legato ad una minaccia esistenziale personale o assistita in una fase precoce dello sviluppo: l’aver sofferto di una malattia o l’aver assistito alla malattia grave o al decesso di una persona cara.
La consapevolezza precoce della morte e della precarietà esistenziale, in assenza degli strumenti per fronteggiare le angosce che queste generano, possono tradursi in un ritiro dell’investimento esterno e in un ripiegamento sull’oggetto interno, il corpo, nel tentativo di ripristinare una forma di controllo che di fatto rimane permanentemente insoddisfatta.
Sintomi dell’ipocondria
L’ipocondria si manifesta in maniera costante con l’eccessiva preoccupazione per la presenza di dolori di vario tipo (crampi muscolari, dolori viscerali etc.) o alterazioni fisiche di lieve entità (macchie sospette, raffreddori etc.), ma si può manifestare anche sotto forma di vere e proprie crisi di angoscia.
La minima manifestazione fisica è interpretata dall’ipocondriaco come sintomo di una malattia grave, potenzialmente mortale.
Spesso è proprio la paura di essere malati a generare alcune reazioni fisiche (giramenti di testa, palpitazioni), fino alla crisi di angoscia acuta o all’attacco di panico.
Per essere rassicurato il paziente ipocondriaco consulta spesso siti internet e blog che trattano le tematiche della salute o si sottopone a ripetuti controlli medici.
Sebbene più raramente, alcune persone ipocondriache evitano i medici, con il rischio di non rilevare e non curare una malattia reale.
Per chi soffre di ipocondria, il timore della malattia costituisce un elemento essenziale della propria identità, attraverso cui questa si esprime, per cui spesso i sintomi diventano una forma di risposta agli stress esistenziali.
Cura dell’ipocondria
La presa di coscienza del disturbo è da considerarsi già un primo passo del processo terapeutico.
La psicoterapia può aiutare in prima istanza il paziente a controllare la sintomatologia, attraverso il rispetto di una serie di regole e l’applicazione di alcune strategie.
In seconda istanza la psicoterapia può consentire al paziente di assumere una nuova consapevolezza del disturbo in relazione alla propria storia personale e familiare, e ad individuare quali elementi della propria vita presente siano in grado di alimentare o ridurre i sintomi, agendo su di questi.
In alcuni casi la psicoterapia, può operare nel senso di una maggiore familiarità con l’idea della malattia e dell’ineluttabilità della morte, incoraggiando ad esempio il paziente a recarsi al cimitero per esporsi alla realtà e ridurre le ruminazioni che di fatto non sono in grado di evitare il pericolo.
Relativamente alle regole e alle strategie di controllo dei sintomi è molto importante che il paziente impari a sottrarsi alla consultazione compulsiva di pagine di informazione e blog sulla salute in internet, e a resistere al desiderio, magari rimandandolo, di effettuare ripetute attività di autoverifica del proprio stato di salute, come sentirsi il polso, controllare la temperatura etc. che non fanno altro che alimentare l’ansia, il timore della malattia e la prospettiva di scenari catastrofici.
Nel quadro del lavoro terapeutico è di importanza strategica lo sviluppo nel paziente di un atteggiamento di osservatore rispetto al decorso dei sintomi, in particolare imparando a riconoscere quando questi si acuiscono, in corrispondenza di quali eventi/situazioni. Può essere utile eventualmente annotare quotidianamente alcune di queste osservazioni. Diventare l’osservatore attivo e non passivo del proprio sintomo, consente infatti di iniziare a mettere una certa distanza tra sé e il sentimento di paura che questo genera.
Questa qualità di osservazione può essere favorita in particolare, oltre che dal dialogo psicoterapeutico, dai protocolli Mindfulness per la riduzione dell’ansia e dello stress (Mindfulness Based Stress Reduction), che hanno ottenuto notevoli riscontri anche nel trattamento dell’ipocondria (2).
Anche la pratica di attività fisica costituisce un valido aiuto nel processo terapeutico. Questa infatti può contribuire a ritrovare sensazioni fisiche reali e a recuperare una relazione di fiducia con il corpo e una visione di questo come veicolo di benessere e non solo di malattia. Particolarmente indicate sono la pratica dello yoga e delle arti marziali (3), che richiedono un’elevata consapevolezza e padronanza del corpo, alcune di queste attività sono incluse di fatto nel quadro dei protocolli Mindfulness.
In generale è importante adottare una buona igiene di vita e trovare altri centri di interesse oltre alla salute, fissandosi ad esempio degli obiettivi diversificati.
Infine laddove l’ipocondria si potesse correlare ad un vissuto traumatico, è utile il ricorso alla terapia di Desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari, EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) una terapia mirata al trattamento dello stress post traumatico basata sull’utilizzo di movimenti oculari ed altre tecniche di stimolazione con lo scopo di ridurre la carica emotiva di ricordi disturbanti.
Sintesi a cura di:
Dott.ssa Laura Cecchetto
Tirocinante di Psicologia presso Studio BURDI
1.S.Freud: Introduzione al Narcisismo, Opere, Boringhieri, Vol 7
- Chappell, A. S. (2018). Toward a lifestyle medicine approach to illness anxiety disorder (formerly hypochondriasis). American Journal of Lifestyle Medicine, 12(5), 365-369.
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ContinuaL’abbraccio
La struttura ossea del carattere
Quando abbracci, non ti slanci semplicemente verso una persona,
ma abbracci la sua storia. Abbracci il suo vissuto, la sua sofferenza, le sue fatiche, la sua caparbietà la capacità di cadere e di rialzarsi, quando abbracci una persona abbracci la sua anima, la sua vicinanza a se, alla sua umanità, tocchi a pelle l’ empatia, ma fa vibrare anche te, ti rende migliore, ti lascia tanto più vicino a te. C’è la divinità in un abbraccio.
È un effetto che non lo raccogli solo con chi ti è più vicino, ma innanzitutto con chi non conosci, è tanto più diverso da te, un abbraccio distrugge le distanze, quelle ideologiche, religiose, quelle del buono o del cattivo, del ricco o del barbone, anzi quello più lontano lo avverti tanto più vicino perché la lontananza in un abbraccio azzera i formalismi, sperimenti l’ essenziale, la nudità di essere umani.
L’ abbraccio è irrefrenabile, non è programmabile, tranne nei convenevoli, nasce da una potenzialità calamitosa emotiva, azzera in un istante l’ impossibile, l’ irraggiungibile, i due si ritrovano in uno, diventa un incontro in un numero uno compassionevole. Esso rappresenta la più elevata partecipazione extra verbale alla vita dell’ altro, si fa incastro, sentire profondo, supporto, presa in carico, condivisione, l’ abbraccio è ricevere la sensazione della squadra intorno a se.
L’ abbraccio, più duraturo è, più produce serotonina, ossitocina, gli ormoni del piacere e dell’ amore, rappresenta l’ anti stress, un mio rilassante ed un conforto naturale. Una terapia del dolore.
Esso più dell’ alimentazione, del denaro o del tetto, rappresenta il cibo della rassicurazione, del non essere solo, dell’ auto stima, del patto nelle relazioni. Una persona senza abbracci, sviluppa cattiveria, fobia sociale, anaffettività, si imbarazza e si vergogna per la sua inadeguatezza.
Senza gli abbracci si snatura in una dispercezione ed una distorsione del se corporeo, ci ci si guarda ed osserva di meno, avvia processi dismorgobici. L’ abbraccio possiede una radice onto genetica auto aggregante, è pulsionale ed istintivo; responsabile dell’ abbraccio è la sostanza reticolare del nostro snc, che ricerca insistentemente gratificazioni;
Il bimbo che piange per essere preso in braccio, istintivamente richiede rassicurazioni; nella fase della prima infanzia, le rassicurazioni mancate, dell’ abbraccio, predispongono, nel richiederle per tutta l’ esistenza o al distacco.
Secondo Bion, l’abbraccio rappresenta quel contenitore che placa frustrazioni ed angosce, che in esso verrebbero scaricate e condivise, generando il senso di pacatezza e protezione.
L’ abbraccio rappresenta una forma di dedizione all’ altro, è il punto di confine e di neutralità tra egoismo ed altruismo, la partecipazione diviene congiunzione e disgregazione della solitudine.
La sensazione fobica e fastidiosa della solitudine è la difficoltà di incontrare se stesso, percepito come estraneo a sé, verso il quale avverte la vergogna e l’ imbarazzo tipico per l’ estraneo.
Il primo estraneo che il bambino potrebbe aver subito è la madre o/e il padre distanti, tali da percepire l’ estraneità rispetto a se stessi e pertanto percepire la propria solitudine.
L’ abbraccio, pertanto, in psicologia rappresenta quel primo cibo mentale, l’ amore per sé, fortificante come gli elettroliti, le proteine e i carboidrati, tali da costituire la struttura ossea robusta del carattere del soggetto.
giorgio burdi
Psicologo Bari – Psicoterapeuta Bari
SUPERARE LA DISMORFOBIA
Metodo di approccio di psicoterapia dello Studio BURDI
per
SUPERARE LA DISMORFOFOBIA
Cos’è la dismorfofobia
La dismorfofobia è un disturbo ossessivo dell’immagine corporea spesso poco conosciuto e dunque poco diagnosticato, che presenta aspetti comuni ad altri disturbi dello spettro ossessivo compulsivo.
Il corpo è al centro delle preoccupazioni, in particolare si ha fissazione su una o su più parti del corpo che sono percepite e considerate come imperfette, difettose.
Le preoccupazioni riguardano principalmente il viso, ma possono riguardare anche altre parti del corpo, diverse nel corso del tempo.
Ad esempio i pazienti possono temere una perdita di capelli, le rughe, le cicatrici, una peluria eccessiva, oppure possono focalizzarsi sulla forma e le dimensioni del naso, della bocca, dei denti, delle orecchie, del seno etc.
Il difetto, che può essere oggettivamente insignificante, viene percepito in maniera esagerata e catastrofica. Si riscontra infatti nei pazienti un fenomeno di alterazione della percezione, come se la parte del corpo incriminata fosse sproporzionalmente ingrandita e tirata fuori dal contesto del resto del corpo, il cosiddetto effetto zoom. Di conseguenza anche le preoccupazioni che questa suscita risultano sproporzionate rispetto alla realtà e finiscono per invadere i pensieri e la vita del paziente fino a diventare invalidanti.
Poiché vi è la convinzione che la propria percezione sia corretta, i pazienti sono ossessionati dalla paura che gli altri possano vedere il difetto, con conseguenze che potrebbero essere catastrofiche, quali la ridicolizzazione o addirittura l’abbandono.
Per neutralizzare l’angoscia generata da tali paure il paziente è portato a mettere in atto una serie di strategie e di comportamenti, come ad esempio l’osservare, il correggere o il nascondere compulsivamente il difetto o l’evitare le relazioni con gli altri, strategie che riducendo le occasioni di confronto con la realtà, hanno spesso come risultato quello di alimentare ulteriormente la sofferenza e la paura.
Cause
Dal punto di vista psicologico si ritiene che il disturbo della dismorfofobia sia legato a problematiche dello sviluppo identitario della persona.
Possiamo dire che l’identità di una persona sia il risultato del temperamento e delle relazioni, delle esperienze di vita che si intrecciano inesorabilmente dando un risultato unico.
Nel caso della dismorfofobia la propria apparenza acquisisce un peso sproporzionato nella definizione della propria identità. I pazienti sono eccessivamente esigenti verso se stessi, in un’estenuante e frustrante ricerca di perfezione e di ideali fisici impossibili. Spesso timidi e ansiosi, essi temono l’intimità e la prossimità affettiva. Quest’ultimo aspetto legato alla fondamentale paura di essere respinti o abbandonati può essere abilmente celato da un apparente disinteresse o distacco emotivo nelle relazioni affettive.
E’ inoltre presente una fondamentale scarsa stima di sé, i pazienti inoltre sottovalutano spesso la propria bellezza e sopravvalutano quella degli altri.
Si ritiene che all’origine del disturbo possano esservi delle esperienze ad elevato impatto emotivo vissute nella fase dello sviluppo, come cadute o umiliazioni in pubblico, ripetute considerazioni e battute subite riguardo il proprio aspetto fisico.
Rilevanti per il disturbo sono anche traumi di tipo relazionale o relazioni poco gratificanti all’interno e/o fuori dal nucleo familiare, l’aver sperimentato ripetutamente un non sentirsi abbastanza che, proiettato nel dettaglio fisico difettoso, fondamentalmente incorreggibile, continua a perpetuare la frustrazione e l’insoddisfazione.
Oltre alle cause psicologiche della dismorfofobia, non vanno trascurati i fattori culturali che esercitano una forte pressione verso un modello di bellezza unico ed irrealistico e i fattori di tipo neurobiologico che possono coadiuvare il disturbo.
In particolare alcune ricerche hanno evidenziato nel caso della dismorfofobia l’esistenza di deficit a livello del trattamento visivo globale dell’immagine e a livello dell’interpretazione delle espressioni facciali e delle emozioni altrui, fattori che contribuiscono ad alimentare la persistenza del disturbo.
Sintomi:
Il paziente passa generalmente diverse ore al giorno a preoccuparsi dei propri presunti difetti e spesso pensa di essere osservato e ridicolizzato per questo dagli altri.
La maggior parte dei pazienti si guarda spesso allo specchio, alcuni lo evitano, altri alternano i due comportamenti.
Altro tipo di comportamento compulsivo è il confronto del proprio aspetto con quello degli altri, e l’uso, per mascherare i difetti, di cosmetici, cappelli o indumenti ampi e coprenti.
Molti intraprendono trattamenti dermatologici o chirurgici non risolutivi che al contrario spesso producono il risultato di intensificare le preoccupazioni.
Le persone affette da dismorfofobia sono a disagio a causa del proprio aspetto fisico e possono evitare per questo di uscire in pubblico. Le attività scolastiche, lavorative e sociali ne possono risultare parzialmente o gravemente compromesse. Alcune persone escono solo di notte, alcune non escono affatto.
Sono spesso presenti sentimenti ed emozioni caratterizzate da ansia e depressione, più a meno pronunciate. Nei casi più gravi possono manifestarsi comportamenti suicidari.
Il grado di consapevolezza del disturbo è generalmente assente. La maggior parte dei pazienti è sinceramente convinta che la parte del corpo incriminata sia non attraente o addirittura ripugnante. Nei casi più gravi si possono osservare anche derive verso convinzioni deliranti.
Cura
Per il trattamento della dismorfofobia è necessario lavorare su diverse dimensioni del disturbo, quella cognitiva, quella emotiva e quella motivazionale.
Il lavoro sulle consapevolezze di ordine cognitivo/percettivo
Per la cura della dismorfofobia è essenziale lavorare con il paziente sulla presa di coscienza del disturbo, in particolare sulla componente relativa alla percezione visiva alterata del proprio corpo e sugli errori cognitivi che questa visione comporta, errori che si riflettono sulla rappresentazione distorta di sé, degli altri e della realtà.
In particolare il contesto terapeutico deve aiutare il paziente a familiarizzare con il concetto di realtà oggettiva e rappresentazione della realtà e a prendere coscienza della differenza tra le due, nei vari ambiti dell’esistenza ed in particolar modo nell’ambito del disturbo.
In particolare il processo comprende l’identificazione delle distorsioni cognitive, la messa in dubbio delle percezioni e delle credenze che il paziente ha sul proprio aspetto fisico, l’acquisizione di una visione più equilibrata (effetto di riduzione dello zoom patologico) e l’apertura a nuove possibilità.
Il lavoro sulle consapevolezze di ordine attitudinale/emotivo
Altri aspetti fondamentali nella cura della dismorfofobia sono:
il coming out delle componenti attitudinali ed emotive sottese alla percezione distorta, fonte di sofferenza, quali la scarsa stima di sé, la paura di essere giudicati e abbandonati;
la presa di coscienza delle radici di tali attitudini/emozioni, tramite la ricostruzione della storia del loro sviluppo.
La definizione delle motivazioni al cambiamento
Il riconoscimento del fatto che l’eccessivo perfezionismo e l’ipersensibilità al cambiamento, eretti come baluardo di protezione dal giudizio altrui e dall’abbandono, trascinano inesorabilmente il paziente in un loop che alimenta il proprio senso di inadeguatezza e legittima in qualche modo il potenziale tanto temuto abbandono, rappresenta un fattore motivazionale essenziale per il cambiamento da operare nell’ambito terapeutico.
E’ importante che queste ed ulteriori motivazioni siano definite chiaramente dal paziente con l’aiuto del terapeuta e che le eventuali progressive conquiste siano valorizzate via via nell’ambito del percorso.
Sintesi a cura di:
Dott.ssa Laura Cecchetto
Tirocinante di Psicologia presso Studio BURDI