
L’ Incredibile
L’ INCREDIBILE
Casi Clinici. Pillole di storie reali.
“ Sono felice di entrare nel mio Studio, perché, finalmente incontro persone sane “
Molto spesso mi viene formulato il seguente quesito: ma chi è il “matto” ? Comunemente si afferma che è colui che non si pone questa domanda e che non sa mai di esserlo, ma è convinto innanzitutto che lo siano tutti gli altri; non sa mettersi mai in discussione, si camuffa, è gentile, manipolatore e bizzarro, maniacale, stupefacente, scaltro, lascia attoniti, ha dell’ incredibile, è al limite tra lo stupore, la seduzione, il mistero, la follia e il reato, è un, supera ogni limite consentito dal buon senso.
Incontriamolo nel concreto; in queste pillole di storie vere, cercando di riconoscere in esse il confine tra malattia e normalità.
A noi le storie :
Mio marito mi ha forato le gomme dell’ auto, è geloso, per evitare che vada al lavoro e mi renda autonoma. Lui invece, cinque anni dentro, una storia con mia madre, ora si è specializzato come pusher. Posso essere depressa ?
Mia madre mi fa un prestito di 6000 euro e mi chiede gli interessi da usura.
Ho il morbo di Crohn, ho 40 anni, vivo da solo, ho il cantiere in casa, ho perso il lavoro, quasi muoio; ho chiesto alloggio a mia madre, mi ha risposto che una volta uscito di casa, non rientri più. È la tradizione per noi meridionali o non ho mai avuto una mamma ?
Sono una accumulatrice seriale. Casa è diventata un deposito di oggetti inutilizzati. Dormo in un angolo del letto, sono attaccatissima ai miei ricordi, più ingombranti di me. L’ appartamento pesa tonnellate di roba per metro quadro, non butto nulla e se provo a distaccarmene, impazzisco, mentre dai miei figli sono distaccata, li tengo a continentale distanza.
Mi ha costretta ad abortire, garantendomi un mondo ed altro, ma è scomparso.
Ho quarant’anni, mio padre ha abusato di me sessualmente dai 5 ai 12 anni, sono sempre stata un angelo, mia madre lo ha sempre saputo, ma abbiamo preferito conservarci la famiglia del mulino nero, restando insieme.
Ho scritto una lettera di addio a mia moglie e ai miei due figli, come ultima chance, prima di farla finita, ho fatto terapia. Ora ne sono fuori. Vent’anni dietro ad una diffamazione popolare, quella di essere un ricchione, solo per aver detto di no alle avance di una donnina. Non sapevo a cosa servisse la rabbia come lo so molto bene adesso.
Mio padre e mia madre si picchiavamo, avevo cinque anni, ora ne ho trenta in più. Allora avevo continuamente incubi e sognavo dei mostri, tanto che in casa creavo loro delle trappole, in pratica, versavo dello svelto sui pavimenti, e tutti scivolavano, ma per i miei, ero un folle, semplicemente un pazzo.
Mio cognato mi ha abusato dagli 8 ai 13 anni, mi diceva di volermi bene, quando il’ amore in casa mia non sapevo cosa fosse. Mi hanno dato psicofarmaci per 20 anni e i medici dicevano che era colpa delle mie crisi epilettiche. Trent’ anni dopo ho preso la bestia per le corna, l’ ho spubblicato. Ora sono una persona libera, serena e senza psicofarmaci.
Figlio unico, iscritto alla Luis da 10 anni, si son costruiti un’ intera ala di un edificio per i miei anni di fuori corso, da cinque anni mi mancava dare l’ ultimo esame per laurearmi, per farmi inconsciamente notare dai miei. Solo quando ho smesso di attenderli, sono sceso dal letto della mia depressione, con l’ aiuto della terapia, ho ricominciato da me, ho deciso di amarmi da solo, ho trovato lavoro, mi sono laureato, ho ritrovato il mio amore ed ho voluto incontrare i miei.
Figlia unica, mi hanno tenuto sotto una campana, laureata due volte, ma ero imbranata e non sapevo relazionare. Ora cammino, vivo e mi diverto, grazie a chi mi ha preso per mano e poi me l’ha lasciata.
Faceva avanti e indietro con l’ auto in un parcheggio di trastevere. Sono sceso e gli ho chiesto: esce o entra ? mi ha risposto: “a li mortacci tua e di quel bastardo che tua moglie porta nel grembo”. L’ho steso a sangue. Non potevo continuare così, ho capito che la mia rabbia dipendeva dal mio capo, l’ ho affrontato, ho cambiato lavoro ed ora sono sereno.
Mia madre tradiva mio padre, così ho fatto un pieno di donne per odiare mia madre; le ho tutte tradite, l’ una con l’ altra. Ho compreso il mio odio per lei e che le altre non centravano nulla con lei. Ho iniziato a mandarle a casa, una ad una. Ora sto conoscendo chi sono, cosa voglio e chi mi portavo dentro.
Ero chiuso da anni in una stanza, cosa ci facevo ? Aspettavo mio padre che venisse a prendermi, l’ ho visto dieci volte in vent’ anni. Quanta sofferenza e tempo perduto. L’ ho cercato e affrontato e mi ha risposto: “ma lo hai capito che non voglio esserti padre ? ”. Lo avrei picchiato, ma ho compreso ciò che lui non sa, che è malato, ho raccolto le mie forze e sono ripartito da me e da chi mi ha veramente amato.
Non ho mai conosciuto un abbraccio, una carezza o un come stai ! Dai 14 anni avevo solo la coca come il mio amore, per la mia famiglia ero una vergogna. Ora che ne sono fuori, ho la consapevolezza che per fare un figlio, bisogna starci con la testa.
Mia madre per tutta la vita mi ha ribadito che la mia nascita non era stata gradita e dovevo ringraziarla per avermi messo al mondo e che oggi dovrei esserle molto riconoscente. Grazie mamma, per la tua infinita bontà.
Ho 21 anni, la mia passione era diventar medico, non studio più e vivo di sensi di colpa, mi sento un incapace; per i miei, sono la loro unica loro realizzazione, quanta responsabilità, tante aspettative, senza il mio impegno, loro falliscono, non posso sottrarmi a questo impegno, sono bravi, glielo devo, ma alle volte mi sento manipolato con tanto affetto, mi marcano stretto, non capiscono perché sono in depressione acuta, mi manca l’ aria e mi sono bloccato; vendo cara la pelle, non posso deluderli, non voglio diventare loro un peso, devo farcela da solo o magari soccombere se fallisco.
Sono un ragazzo semplice con una passione altrettanto semplice, diventare un musicista. Mio padre non ha mai creduto in me. Mi ha spezzato sempre la voglia di andare avanti. Mi ritrovo anni fuori corso perché “<< la musica non ti dà da mangiare, vai a lavorare >>”. Oggi ho ripreso alla grande con i miei interessi al centro del focus della mia vita.
Cosa c’è di strano e di incredibile in in queste storie vere ? Nulla per i così detti “matti” per i quali tutto è lecito e regolare, ma i “normali” allora chi sono ? Essi sono le vere vittime di certi eventi incresciosi. In queste storie non ci sono argini, ne confini, ne vinti o vincitori, tutto sembra consentito. Percepiamo che tutto deve avere un limite, quando è troppo è troppo, ma questo limite chi lo decide ? Sembra che entrambi abbiano inequivocabilmente e indiscutibilmente ragione. Ma in realtà, non è così .
Esiste una sola verità, se esiste un dolore mentale, non c’è giustizia che tenga. Cosa lo decide il confine tra benessere e malattia ? Lo decide semplicemente e senza ombre di dubbio o alcun minimo equivoco, un dato certo, molto evidente ed irrinunciabile e non equivocabile, è il saper vedere e il rispetto per l’ altro, il Rispetto, che in queste storie viene ripetutamente trascurato ed omesso, sembra spregiudicatamente che tutto debba andare per forza così.
La psicopatologia consiste nel fatto che, il problema non si pone nemmeno, perché la parola “ rispetto “ non esiste nel vocabolario della malattia mentale . A tutti capita, dagli addetti ai lavori e innanzitutto ai non, di incrociare situazioni molto spiacevoli, ai limiti dell’ incredibile e dell’ assurdo, ma la “diagnosi”, la puoi fare già tu, di persona ed in diretta, da solo; gli “altri” non ne sarebbero capaci. Su quale base base potrebbero, se sono immersi nel loro stesso problema ? Comprendere il proprio limite è rendersi conto o meno di cosa sia il “Rispetto”, e se esso è presente o mancante, decide il confine e la labilità tra la salute e la malattia mentale.
giorgio burdi
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La Mania Del Controllo
Metodo di approccio di psicoterapia dello Studio BURDI
per
SUPERARE LA MANIA (OVVERO L’ILLUSIONE) DI CONTROLLO
Cos’è la mania di controllo
La mania del controllo ovvero il bisogno di avere una continua sensazione di padronanza sulle nostre situazioni di vita e sulle persone, è in realtà strettamente correlata all’insicurezza e alla paura di non essere in grado di sostenere l’imprevisto, dove l’imprevisto viene sistematicamente rappresentato come qualcosa di negativo e minaccioso per la propria esistenza o per quella dei propri cari.
La mania del controllo ha sicuramente in parte il suo fondamento nella cultura occidentale, in cui la preoccupazione, la fretta nel raggiungimento di un obiettivo e l’angoscia per ciò che non è controllabile, sono atteggiamenti consolidati, talora riconosciuti come funzionali.
Sostanzialmente collegata alla paura della sofferenza, la necessità di controllo denota un’incapacità e una mancanza di fiducia nella propria, e in molti casi anche nell’altrui (dei propri cari), capacità di gestire le proprie emozioni, le delusioni, per cui la vita è ridotta ad un numero limitato di schemi appresi, all’interno dei quali solamente si ha l’illusione che sia possibile “sopravvivere”.
In ambito familiare possono inoltre instaurarsi collusioni dannose, in cui il ruolo di conducente-controllore viene alimentato da chi, sovrastato da sentimenti di timore e inadeguatezza, finisce per delegare la propria esistenza ad un genitore o ad un partner controllante, generando un loop vizioso e soffocante in cui controllore e controllato alimentano le reciproche prigionie.
L’illusione del controllo cela in realtà l’angoscia per una vita che, nella sua imprevedibilità viene percepita senza senso e in cui non si riesce a riporre fiducia.
Esso rivela la mancanza di un dialogo autentico con l’esistenza, dialogo in cui le prove, la delusione delle aspettative, come anche i migliori e inattesi imprevisti, possono essere dotati di senso e possono, volendolo, aprire a più ampie vedute e prospettive, a maggiore flessibilità strategica, rendendo possibile la realizzazione di obiettivi più elevati.
La mania del controllo è pertanto il sintomo di una rappresentazione ristretta e fissa della realtà, di sé stessi e degli altri, determinata dalla paura della sofferenza.
Quando la mania del controllo si manifesta dal punto di vista relazionale, l’illusione di potere e il temporaneo benessere che ne derivano, conducono alla difficoltà di instaurare interazioniprofondamente autentiche, poiché in un’ottica difensiva, tutto è sistematicamente pianificato: i propri obiettivi, i comportamenti, le reazioni degli altri.
Nella necessità di rendere gli altri e la propria realtà prevedibili, le relazioni cessano di essere stimolanti, poiché la curiosità e l’entusiasmo di esplorarsi nel rapporto hanno ceduto il passo all’evanescente, quanto illusoria sensazione di poter controllare l’altro.
Chi entra in una relazione con chi ha la mania di controllo in ambito relazionale, prova infatti spesso il disagio di chi si sente rappresentato in maniera arida, limitativa, prevedibile e funzionale, svuotato delle proprie risorse.
Tuttavia laddove la vita si presenta inevitabilmente, ad un momento o ad un altro dell’esistenza, con il suo carico di sofferenza e imprevedibilità, la mania del controllo e la rigidità psichica a questa associata possono condurre a stati di depressione e profonda sofferenza.
Come si cura
Le persone caratterizzate dalla mania di controllo, di fronte ad uno o più eventi in cui sono confrontate con l’impossibilità di controllare, sperimentano accanto alla sofferenza per l’evento oggettivo, anche la sofferenza per l’inadeguatezza della propria strategia di vita e la disperazione ed il vuoto nell’impossibilità di costruire un nuovo paradigma esistenziale.
La psicoterapia costituisce allora un valido aiuto per andare alle radici di tale sofferenza, identificando in prima battuta con il paziente, a volte inconsapevole, la presenza dell’esigenza compulsiva di controllo e le distorsioni cognitive che si celano dietro di questa.
In seconda battuta la psicoterapia può aiutare il paziente a sviluppare la capacità di rimettere le cose in prospettiva, distabilire una relazione più costruttiva e dinamica con la vita e con gli altri, in cui coltivare l’attenzione alle opportunità che le difficoltà possono rappresentare, imparando a trarne vantaggio eristabilendo in questo modo un nuovo rapporto di fiducia con la vita stessa e nelle relazioni.
In questa prospettiva la psicoterapia aiuta il paziente a liberarsi dalla morsa degli spazi delimitati, in cui venivano riprodotti sempre gli stessi schemi di comportamento, aprendo a nuovedistese aree di vita e di movimento, in cui il paziente può concedersi gradualmente la possibilità di sperimentarsi senza paura e di recuperare la propria pulsione vitale.
Sintesi a cura
Dott.ssa Laura Cecchetto
Tirocinante di Psicologia
presso Studio BURDI
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Superare l’amaxofobia (la paura di guidare)
Metodo di approccio di psicoterapia dello Studio BURDI
per
SUPERARE L’AMAXOFOBIA (LA PAURA DI GUIDARE)
Cos’è l’amaxofobia
L’amaxofobia, o la paura di guidare, è un disturbo che può presentarsi come fobia singola o può inserirsi in un quadro psicologico più ampio, spesso correlato ad altre fobie, quali l’agorafobia, la claustrofobia e ad altri disturbi ansiosi, come l’ansia generalizzata, l’ansia sociale, l’ansia di separazione.
In alcuni casi, l’amaxofobia può essere la conseguenza di un trauma in seguito ad un incidente, vissuto in prima persona o al quale si è assistito.
E’ interessante notare che la paura di guidare non è una paura senza fondamento, esiste obiettivamente un potenziale pericolo associato alla guida di un veicolo, di cui è bene essere consapevoli, tuttavia nell’amaxofobia la paura prende delle proporzioni eccessive e invalidanti, poiché il soggetto prospetta eventi catastrofici e irreparabili, spesso irrealistici.
Essa si traduce in sintomi quali tremori, sudore, nodo alla gola, battiti accelerati, difficoltà di respirazione, associate a idee angoscianti, che possono poi sfociare in veri e propri attacchi di panico.
In generale le persone che hanno questo disturbo utilizzano delle strategie di evitamento, quali l’utilizzo di altri mezzi di trasporto o la dipendenza per gli spostamenti da amici e familiari.
Tuttavia laddove le strategie di evitamento siano difficilmente praticabili, l’amaxophobia può risultare fortemente invalidante.
In molti casi la persona, terrorizzata dalla guida, finisce per dipendere da altri soggetti per i propri spostamenti, ottenendo in tal modo (più o meno consapevolmente) la vicinanza funzionale delle persone care, oppure finisce per isolarsi e chiudersi in un perimetro di oggetti vicini e familiari, potenzialmente sicuri.
Sebbene il risultato sia lo stesso in termini di incapacità oggettiva a intraprendere la guida, in pratica l’amaxofobia può sottendere paure diverse correlate alla situazione di trovarsi da soli nella gestione del mezzo: paura di perdere il controllo, di investire e/o uccidere qualcuno, di causare un incidente grave, paura della velocità, paura di non poter fuggire, paura di attraversare viadotti o tunnel, paura di allontanarsi da casa.
Possiamo dire che vi è globalmente una distorsione cognitiva in cui vi è e una sovrastima della probabilità che un pericolo importante si presenti e una sottostima della propria capacità di gestire la situazione. Anzi, in molti casi il soggetto amaxofobo, identifica nella propria persona la fonte del pericolo stesso.
L’amaxofobia va dunque a toccare una rappresentazione, quella della propria incompetenza nella gestione di una situazione specifica che implica un ruolo di “conducente”. Per questa ragione essa ha spesso anche un valore simbolico rispetto ad altri ambiti della vita.
Infatti non è trascurabile l’impatto nell’insorgenza di tale fobia, di aspetti di attribuzione di ruolo sviluppati in particolari contesti familiari e/o culturali, che devono essere presi in considerazione in modo privilegiato nell’approccio terapeutico del disturbo stesso.
Infine, nell’amaxofobia si attiva in maniera dirompente il senso della propria fragilità esistenziale, spesso rimosso in altre attività della vita quotidiana,
Questi aspetti rivelano da un lato una problematica nell’investimento interno: l’utilizzo di un mezzo di trasporto solidale con il proprio corpo, è percepito come estensione di sé e pertanto inaffidabile, incontrollabile e potenzialmente auto ed etero-lesivo. Dall’altro evidenziano anche una problematica nell’investimento esterno, dove la frustrazione derivante dagli oggetti esterni, potrebbe essere verosimilmente all’origine del proprio senso di inadeguatezza e di incompetenza.
Come si cura
Per il trattamento dell’amaxofobia, dal punto di vista sintomatico, è di fondamentale importanza aiutare il paziente a trovare quegli strumenti idonei a ripristinare il senso di sicurezza e di fiducia in sé stesso e nella propria capacità di investirsi positivamente in una realtà più ampia del perimetro consolidato.
In particolare la psicoterapia può aiutare il paziente a riacquisire la consapevolezza delle proprie competenze
-valorizzandone il potenziale
– evidenziando le distorsioni cognitive proprie, familiari e/o culturali che possono avere favorito il consolidamento del disturbo
-stimolando il superamento progressivo di alcune limitazioni che il paziente vive nella sua quotidianità e favorendo in questo modo la qualità e la quantità degli investimenti esterni
Il lavoro psicoterapeutico può essere coadiuvato dall’ipnoterapia, la cui efficacia è stata dimostrata nel trattamento di diverse fobie specifiche. Questa permette infatti di generare sicurezza nel paziente, favorendo l’accesso alla consapevolezza delle proprie paure e ad un maggiore controllo dei propri stati ansiosi a queste connessi (1).
A supporto della psicoterapia può inoltre essere presa in considerazione la terapia in realtà virtuale, VRT (Virtual Reality Therapy), che consiste nell’immergere il paziente in un’esperienza virtuale in 3D. L’esperienza di guida così riprodotta consente al paziente di affrontare progressivamente le situazioni ansiogene in un ambiente sicuro.
Qualora l’insorgenza del disturbo fosse correlata ad un’esperienza traumatica, è bene piuttosto considerare trattamenti terapeutici specifici per il trattamento del trauma come la terapia di desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari, EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) od il Somatic experiencing(2) mirate al trattamento dello stress post-traumatico e alla riduzione della carica emotiva dei ricordi disturbanti.
Sintesi a cura di:
Dott.ssa Laura Cecchetto
Tirocinante di Psicologia presso Studio BURDI
- Spiegel, E.B. (2016) International Journal of Clinical and Experimental Hypnosis, 64(1), 45-74
- Levine, P. A. (2010). In an unspoken voice: How the body releases trauma and restores goodness. North Atlantic Books.

La Capacità di Essere Solo
LA CAPACITÀ DI ESSERE SOLO
È spesso opinione comune associare l’essere soli alla solitudine, a una condizione passiva di abbandono e profonda tristezza. L’essere soli assume così connotazioni esclusivamente negative.
La capacità di essere soli, invece, è una condizione positiva, una risorsa. È la capacità di guardarsi dentro, di raccogliersi, il saper stare con sé stessi. Guardarsi dentro aiuta a capire meglio chi siamo, a riconoscere e superare le nostre debolezze e insicurezze, le nostre paure.
L’essere soli è vitale, ci permette di guardare nelprofondo della nostra anima, di ascoltare le nostre emozioni più intime e accoglierle. Ci fa comprendere i nostri bisogni individuali e ci palesa le nostre pulsioni più nascoste.
Saper stare soli ci aiuta a sentirci gratificati da ciò che siamo, a tollerare i nostri difetti e le nostre imperfezioni, a superare i fallimenti. Ci aiuta a sciogliere nodi troppo stretti, a modellare schemi mentali rigidi. Ci permette di essere profondi con noi stessi prima di esserlo con gli altri.
La capacità di stare soli è elemento fondamentale per la costruzione di relazioni sociali: è importante prima imparare a stare bene con noi stessi per poi poter stare bene con gli altri.
D.W. Winnicott associa la capacità di essere soli al silenzio, quel «silenzio interno» che permette di ascoltare e instaurare un contatto profondo con sé stessi, di essere soli con sé stessi.
L’autore, pediatra e psicoanalista britannico, di nota esperienza clinica con bambini e adolescenti, ritiene che la capacità di un individuo di essere solo sia uno dei segni più importanti di maturità nello sviluppo affettivo.
La letteratura psicoanalitica insegna che la capacità di stare soli si sviluppa nel primo periodo di vita.
Secondo Winnicott la capacità di essere solo ha origine dall’esperienza del bambino di essere solo in presenza della madre, ha origine, dunque, dal paradosso di essere solo in presenza di un’altra persona. Definisce questa condizione «relazionalità dell’Io», un rapporto tra due persone, in cui uno o entrambi sono soli, ma la presenza di ciascuno è importante per l’altro.
Winnicott attribuisce alla relazione madre-bambino la responsabilità di sviluppare la capacità di essere solo. La madre ha pertanto un ruolo determinante, rappresenta per il bambino un ambiente sicuro, protetto, che gli permetterà di sviluppare prima «l’Io sono», le basi per la strutturazione dell’identità e dell’individualità, poi di raggiungere «l’Io sono solo», la consapevolezza del bambino della continuità della presenza della madre, del suo prendersi cura, la sicurezza di un ambiente buono e sicuro.
È fondamentale che la madre aiuti il bambino nelle fasi di scoperta della propria autonomia esistenziale supportandolo nella gestione delle proprie ansie e angosce, rendendolo nel tempo capace di rinunciare alla presenza della figura materna. È altresì importante che il bambino sia libero di esprimere le proprie pulsioni e le proprie necessità fisiche e affettive, affinché impari a riconoscerle e regolarle in autonomia.
La consapevolezza del bambino di un «ambiente interno» che lo protegge anche quando è solo, di una madre presente e supportiva, lo renderà capace di essere solo di fatto.
Diversamente, una madre che anticipa i bisogni del bambino non gli consentirà di sviluppare un Sé solido e consapevole. Allo stesso modo una madre che non risponde ai suoi bisogni, genererà in lui la paura dell’abbandono. Entrambi i casi non gli permetteranno di sviluppare la capacità di stare solo bensì alimenterannola sua paura di stare solo.
La madre, quindi, non dovrà mostrarsi né eccessivamente invadente né evitante poiché entrambe le situazioni causeranno condizioni emotive disfunzionali.Sarà necessario stabilire con il bambino una giusta relazione di prossimità che lo faccia sentire al contempo sicuro e libero, e garantire la sicurezza del ritorno dopo un allontanamento o una separazione. Questa sensazione positiva permetterà al bambino di sentirsi al sicuro anche da solo.
Possiamo affermare, pertanto, che la capacità di essere soli è indice di maturità emotiva.
La capacità di essere soli è vivere la solitudine in modo attivo, pienamente consapevoli della nostra individualità e unicità.
Stare con sé stessi è sinonimo di libertà. Libertà di vivere appieno le proprie emozioni che si amplificano, libertà di scavare nella nostra interiorità.
Stare bene con sé stessi permette di cercare relazioni e rapporti autentici; si desidera la compagnia altrui, ma non si è dipendenti.
La capacità di stare soli coincide con la capacità di amare senza possesso, di condividere, di essere empatici. Chi sa essere solo non ha bisogno dell’altro, bensì gode della sua presenza.
La difficoltà di stare soli e di ritrovare sé stessi, invece, minaccia qualsiasi legame, qualunque relazione. Non aver imparato a stare soli grazie alle figure primarie di riferimento e non aver coltivato un corretto equilibrio tra vicinanza e lontananza, potrebbe compromettere l’interpretazione della solitudine vivendola come rischio, come minaccia.
Una percezione interiore e relazionale disfunzionata potrebbe contribuire allo sviluppo di patologie quali il disturbo evitante di personalità, il disturbo della personalità dipendente o altri disturbi legati allo spettro ansioso.
La mancata acquisizione della competenza di stare solo rende l’individuo dipendente, non in grado di relazionarsi al Sé, ma solo all’altro annullandosi completamente. Se non si ha consapevolezza della propria individualità a prescindere dall’altro, a prescindere dal partner, si instaureranno relazioni non sane, disfunzionali.
La capacità di contatto e dialogo profondo con sé stessi è indispensabile per risolvere conflitti interiori, per la costruzione dell’identità, la stabilità del Sé e del Sé relazionale.
La capacità di stare soli si acquisisce dalla relazione stessa, dalla relazione di fiducia che si instaura con l’altro. La capacità di stare soli, dunque, si acquisisce in presenza di qualcun altro proprio come la solitudine implica la presenza di un’altra persona.
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Riferimenti bibliografici
D.W. WINNICOTT, Sviluppo affettivo e ambiente, Roma, Editore Armando, 1974
Sintesi a cura di:
Dott.ssa Elisabetta LazazzeraTirocinante di Psicologia presso lo Studio BURDI

Tanatofobia
Metodo di approccio di psicoterapia dello Studio BURDI
per
SUPERARE LA TANATOFOBIA (LA PAURA DELLA MORTE , OVVERO LA PAURA DI VIVERE)
Cos’è la tanatofobia
La tanatofobia ovvero l’angoscia, la paura di morire, può essere un disturbo fortemente limitante per l’esistenza degli individui che lo sperimentano.
La paura della morte è un’emozione che riguarda ogni essere umano ed è fondamentalmente associata all’istinto di sopravvivenza primordiale.
Tuttavia nella vita quotidiana, alcuni meccanismi di difesa, quali la rimozione, ci consentono di collocare la morte lontano da noi permettendo che tale emozione non pervada i nostri pensieri e non condizioni in maniera significativa le decisioni, le azioni, i pensieri di ogni giorno.
Ciò fintanto che un’esperienza di malattia o la morte di una persona a noi vicina non riapre alla nostra coscienza la consapevolezza della morte, spesso ridisegnando nuove scale di priorità, nuovi significati per la nostra esistenza, insieme a difficoltosi passaggi.
Nella tanatofobia, la paura della morte genera un’angoscia opprimente che impedisce di vivere: qualsiasi azione vitale diventa potenziale portatrice di morte.
Dal punto di vista neurofisiologico la tanatofobia è paragonabile ad un processo difensivo di spegnimento, in cui rabbia, paura, senso di impotenza predominano e in cui il soggetto, incapace di andare avanti, rimane paralizzato in uno stato di immobilità e di paura, come di fronte ad un predatore.
Dal punto di vista psicanalitico, la tanatofobia è riconducibile alla pulsione di morte, così come intesa da Freud, in quanto questa genera l’azzeramento degli stimoli e la ricerca di una pace ideale, irraggiungibile, in cui si realizza la rimozione di tutte quelle situazioni in cui il soggetto può trovarsi desiderante, desideroso di ciò che potrebbe essere negato.
L’angoscia di morte in tal senso non è che l’altra faccia dell’angoscia di vivere e rivela la relazione alla propria esistenza, un’esistenza inappagante e fonte di frustrazione, in cui ci si sente incapaci di avere strategie, in cui l’esistenza è sostanzialmente subita in maniera passiva e si è perso di vista la propria importanza e la propria “competenza” nel vivere. Dominante è il senso di colpa per la mancata realizzazione di sé e l’angoscia per il senso di incompatibilità tra un sé che si è perso ed una vita che ha disatteso le sue aspettative.
Particolarmente nocivi possono essere alcuni contesti socio-culturali che propongono modelli rigidi, rappresentativi di condizioni ideali che poco corrispondono alla realtà soggettiva e alle reali, profonde, uniche aspirazioni dell’individuo, alimentando in alcuni, un profondo senso di inadeguatezza.
Come si cura la tanatofobia
Per il trattamento della tanatofobia è fondamentale costruire in un primo tempo una buona relazione terapeutica mirata a sviluppare nel soggetto la capacità di ascoltarsi profondamente e di relazionarsi alla propria esistenza come ad un’esperienza personale, che richiede continua capacità di adattamento e di elaborazione di strategie di fronte alle frustrazioni. Essa è mirata inoltre ad evidenziare e a valorizzare le competenze dell’individuo, a stimolarne la capacità di mettere in parole il proprio disagio e le proprie paure.
Altro aspetto fondamentale per il trattamento della tanatofobia è la realizzazione di un percorso di uscita dallo stato di immobilizzazione, intimamente legato alla paura.
Questo può essere operato attraverso dei percorsi terapeutici ad-hoc che prevedono la realizzazione di piccole azioni quotidiane gratificanti, in grado di stimolare nel paziente la capacità di individuare, attraverso lo sviluppo dell’attenzione, molteplici fonti di gratificazione nelle attività di ogni giorno. Ciò consente al soggetto di recuperare gradualmente il proprio senso di competenza ed adeguatezza.
Tipicamente, tra questi percorsi vi sono i protocolli mindfulness(1), che propongono la realizzazione di attività semplici, ma significative, effettuate in piena consapevolezza. Questi percorsi sfruttano inoltre la dinamica di gruppo, per rendere più agevole il mantenimento degli obiettivi e favorire l’uscita dalla solitudine in cui è sovente nutrito e alimentato il senso di paura e l’immobilità.
Nel caso della tanatofobia, come anche sottolineato dalla teoria polivagale (2), è importante promuovere nel paziente l’attuazione di meccanismi difensivi più evoluti, legati al coinvolgimento in relazioni sane di tipo supportivo in grado di generare sicurezza, rispetto a meccanismi difensivi di tipo primitivo all’origine dell’immobilizzazione e della paura.
In tal senso anche l’ipnosi può essere un valido strumento d’aiuto: l’utilizzo dell’attenzione condivisa, il tono ed il ritmo della voce, l’utilizzo di immagini metaforiche che emulano la qualità di un’esperienza di attaccamento di tipo sano, sono infatti in grado di generare sicurezza nel paziente, favorendo l’accesso alla consapevolezza delle proprie paure e ad un maggiore controllo dei propri stati ansiosi a queste connessi (3).
Sintesi a cura di
Dott.ssa Laura Cecchetto
Tirocinante di Psicologia
presso lo Studio BURDI
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(1) Tang, Y. Y. (2017). The neuroscience of mindfulness meditation: How the body and mind work together to change our behaviour. Springer.
(2) Porges, S.W. (2017). The pocket guide to the polyvagal
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Il Dolore Non È Per Sempre
IL DOLORE NON È PER SEMPRE
Quante volte nella nostra vita abbiamo pensato : questa notte, questa sofferenza non passerà mai, e poi quando siamo felici, ci sembra normale, scontato, non ci diciamo che bello mi vivo adesso, il qui ed ora, troviamo sempre un qualcosa per rovinarci la festa, il nostro entusiasmo.
Per tutti noi, ogni giorno deve essere un compleanno, dobbiamo festeggiarci ogni istante, fare fuori d’artificio, brindare, ubriacarsi di vita per le azioni compiute, i passi fatti in avanti e anche per il dolore passato o presente, tanto poi passa, passa sempre tutto, può restare il dolore fisico, ma quello morale supera tutto.
Ma una persona si fortifica se attraversa a pieno il dolore, NON scappando da esso, ma percorrendolo e ripercorrendolo ne esce, dovrebbe tuffarcisi dentro per attraversarlo, per arrivare di braccia al bagnasciuga, dopo una sfinita nuotata.
Evidentemente siamo stati per molti anni nella nostra vita numeri due, i numeri nulli, siamo stati delle falsità, ci siamo fatti rendere passivi, e il dolore non passa da mai da solo da un giorno all altro, bisogna accarezzarsi e prendere a pugni, più tempo sei stato in secondo piano, piu hai sofferto e più tempo ci vuole per essere in primo, il numero uno.
Ma, ci vuole tempo, pazienza e presenza a se stessi per affrontare il dolore e solamente una volta superato, lo potrai credere necessario.
Solo elaborando il dolore possiamo recuperare gli anni perduti e capire che di treni persi nella nostra vita non sono poi così tanti, rispetto a quelli ancora da prendere, perché una vita nel dolore è poco conto rispetto agli attimi di vita riscoperti, perché l unico treno della nostra vita è in quest’ora istante, ADESSO , è nel il qui ed ora, miglioralo con la tua presenza.
Angelo CHIONNO
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Il Senso di Colpa Disfunzionale
Metodo di approccio di psicoterapia dello Studio BURDI
per
SUPERARE I SENSI DI COLPA DISFUNZIONALI
Il senso di colpa disfunzionale nelle relazioni e il diritto di essere felici.
Il senso di colpa è uno stato emotivo associato alla convinzione di essere all’origine di una determinata situazione negativa per sé o per gli altri.
Tale stato emotivo presuppone l’elaborazione di un giudizio di valore. Si può allora trattare di un giudizio sulla negatività di un’azione rispetto ad un valore interiorizzato o di un giudizio sulla negatività di un’azione a partire dalla percezione della sofferenza e del disagio che questa ha generato o potrebbe generare per sé o per gli altri.
Il senso di colpa implica quindi l’interazione complessa di una serie di giudizi di valore formulati sulla base della propria esperienza di vita e della propria educazione, ma anche di una serie di qualità personali, come ad esempio l’empatia, che implicala capacità di percepire e comprendere la sofferenza degli altri.
Il senso di colpa, inibendo potenziali azioni/comportamenti considerati nocivi al benessere altrui, ha dunque una funzione sociale importante in quanto incentiva un mutuo senso di responsabilità e contribuisce a regolare le relazioni in modo da rendere possibile ed utile alla sopravvivenza della comunità, la convivenza tra gli individui.
Il ruolo inibitorio del senso di colpa rispetto a pensieri ed azioni potenzialmente nocivi diventa tuttavia disfunzionale laddove il criterio di giudizio applicato è fallace e laddove un senso di responsabilizzazione eccessivo compromette la realizzazione personale.
L’individuo si trova così a reprimere pensieri ed azioni che riguardano la propria stessa sopravvivenza e la propria vitalità.
L’attitudine ad un senso di colpa disfunzionale si sviluppatipicamente in presenza di un determinato contesto sociale/ familiare che utilizza o ha utilizzato il senso di colpa come strumento di manipolazione e di controllo sull’ individuo per l’ottenimento di un comportamento voluto o per legittimare azioni/comportamenti propri illeciti di cui non si vuole o non si è in grado di assumere la responsabilità.
Non è difficile rendersi conto di quanto spesso il senso di colpa entri in gioco all’interno delle relazioni, dove in piccole o in grandi proporzioni uno o più individui si trovano a limitare la propria realizzazione, ma anche le proprie emozioni di gioia a fronte delle difficoltà o della depressione di una persona vicina.
Da notare che il senso di colpa si può manifestare non solo come emozione, sentimento di sofferenza, ma anche, nei fatti, come esperienza di auto-sabotaggio punitivo: un figlio che sabota sistematicamente le proprie relazioni sentimentali a fronte delle ansie o del senso abbandonico di un genitore dipendente, unadonna che sabota le proprie riuscite professionali a fronte del senso di inadeguatezza che potrebbe sperimentare il partner.
Da notare che il senso di colpa sottintende una sorta di locus of control interno di tipo negativo per cui il luogo, la causa della situazione negativa che accade e che potrà accadere è individuato all’interno di sé in una sorta di incapacità ad intravedere altri luoghi di responsabilità.
Chi si colpevolizza finisce così per punire sé stesso non concedendosi la libertà e gli spazi intrinsecamente necessari all’esistenza e alla realizzazione di sé: il diritto all’azione libera e creativa è negato, cosi come il diritto di essere felici.
È importante sottolineare che tale dinamica tende tanto più a radicarsi quanto più essa è coadiuvata da terzi che consapevolmente o meno, ricavano un vantaggio dall’estrema responsabilizzazione di colui che si colpevolizza.
Come si guarisce dal senso di colpa
È possibile liberarsi dei sensi di colpa disfunzionali e sistematici grazie ad un percorso psicoterapeutico adeguato.
La psicoterapia può fornire in un primo tempo gli strumenti necessari a non arenarsi sulle sensazioni provate, che tendono a mantenere l’individuo in uno stato punitivo, incoraggiando il paziente ad andare avanti e a muoversi dallo stato di immobilità psichica indotto dal senso di colpa stesso.
In un secondo tempo la psicoterapia può aiutare ad evidenziare il senso di colpa disfunzionale, identificando chiaramente le fallacie del ragionamento nelle attribuzioni di responsabilità e la sproporzione tra la gravità dell’atto/pensiero e il senso di colpa sperimentato.
Di fondamentale importanza nel quadro del percorso psicoterapeutico è circostanziare il senso di colpa, mettendo chiaramente in evidenza in quale contesto relazionale familiare questo si è sviluppato o si sviluppa attualmente.
Ciò consente di ripristinare via via un principio di realtà più funzionale alla realizzazione personale e di liberare l’individuo delle catene che gli impediscono di vivere la propria vita.
Infine la psicoterapia si presenta come strumento per la riconquista e il consolidamento dell’auto-stima e del rispetto per sé nelle scelte relative alla propria esistenza e nelle relazioni, luogo in cui maturare la consapevolezza del fatto che la propria realizzazione può essere un punto di forza fondamentale e di benessere sia per sé che per i propri cari.
Sintesi a cura di:
Dott.ssa Laura CECCHETTO
Tirocinante di Psicologia
presso Studio BURDI
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Sano Egoismo
Il sano egoismo
dal greco, io esisto
Sarà capitato a tutti qualche volta di sentire le parole “sano egoismo” e forse di rimanere perplessi dinanzi a questa strana combinazione, ma è giusto etichettare l’egoismo, una caratteristica con una connotazione negativa, “sano”?
Secondo me sì però con le dovute accortezze, vi spiego il perché sto affermando questo.
Ho realizzato ciò da una seduta di terapia di gruppo dove alcune persone hanno raccontato delle loro esperienze e tutte avevano in comune un singolo fattore: la troppa disponibilità nei confronti degli altri.
L’egoismo è, purtroppo o per fortuna, necessario per proteggerci dai nostri “nemici” e/o da situazioni che fanno trascurare la nostra persona e ci limita. La troppa disponibilità crea poi degli obblighi che ci imprigionano, rendendoci succubi di essi o peggio ancora, di malintenzionati.
È però anche vero che l’essere troppo egoisti allontana le persone da noi, quindi che tocca fare?
Bisogna essere in grado di capire quando e con chi essere egoisti perché le persone si comportano in determinati modi sempre con delle motivazioni che potrebbero essere giustificate o meno.
È di fondamentale importanza quindi cercare di capire l’altra persona cosa ha intenzione di fare, sempre tenendo le dovute distanze quindi cercando di essere disponibili ma non troppo.
Basti pensare ad una relazione tossica dove voi siete la vittima, in questo caso è giusto essere egoisti e pensare a voi stessi pena il divenire succubi del vostro “caro e amato” partner che potrebbe risultare essere un potenziale carnefice se esso è una persona molto violenta e manipolatrice.
Le terapie di gruppo mi hanno insegnato che è imporante essere empatici e disponibili ma con le dovute precauzioni e non smetterò di rimarcarlo.
Avere la giusta dose di sano egoismo significa amare se stessi, preservando la propria persona. La nostra autostima cresce, permettendoci di compiere scelte con una sicurezza che prima non avevamo o non sapevamo di avere!
Essere “egoisti” ci permette di stare bene con noi stessi e voglio sottolineare una cosa che sembra stupida ma non lo è affatto:
Avere il sano egoismo non esclude l’essere altruisti nei confronti degli altri. Basta essere giusti con noi stessi e con gli altri, niente di più semplice.
Alcune persone leggeranno ciò che ho scritto e diranno che ho sbagliato, che bisogna essere gentili con gli altri, eccetera.
Da lì capirò che quelle persone sono i cosidetti martiri, individui che mettono SEMPRE gli altri dinanzi a loro, rimanendo danneggiati nel processo per poi lamentarsi con il povero cristiano di turno.
Purtroppo alcuni devono imparare a capire qual’è il confine tra sano e malsano egoismo. Ecco cosa si intende per “sano egoismo”: una potentissima arma che come tutte deve essere usata in modo responsabile e con fermezza se necessario.
Ricordate: non c’è niente di male ad amare se stessi! Io ne so qualcosa e sono orgoglioso dei risultati che sto raggiungendo
raffaele
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La Scalata
La scalata della vita e Walter Bonatti
A volte ci dimentichiamo che la vita prima di essere un’avventura con qualcun altro è un avventura con noi stessi, alla scoperta dei nostri limiti e verso il loro continuo superamento.
In questa avventura la precarietà della vita e molto spesso le relazioni con gli altri ci mettono alla prova e rappresentano dei veri e propri challenge.
Molto spesso siamo tentati di pensare che tali challenge non dovrebbero esserci e che il fatto che vi siano, sia la dimostrazione che abbiamo sbagliato qualcosa o che qualcun altro abbia sbagliato qualcosa.
Entriamo cosi’ in un loop di colpevolizzazione nostra o degli altri, generatore di sofferenza, dal quale non riusciamo ad uscire.
Spesso inoltre ci inganniamo pensando che per gli altri non vi siano challenge da superare.
Walter Bonatti, alpinista, fine stratega della montagna, autore di indimenticabili imprese negli anni ‘50, raccontava come di fronte ad una parete che improvvisamente si presentava liscia e senza appigli, fosse costretto ad ingegnarsi per inventare punti di aggancio, che a prima vista non sembravano tali, a ricercare nuove strade, spesso lasciandosi dondolare nel vuoto come un pendolo per ampliare la prospettiva.
Walter Bonatti nelle sue scalate era animato dalla ferma convinzione che il nuovo appiglio, il nuovo passaggio, seppur momentaneamente nascosto alla vista, fosse lì, alla sua portata, da qualche parte e gli avrebbe aperto la strada verso la vetta.
La relazione di Bonatti con la montagna è una metafora della relazione dell’uomo con la vita, in cui sforzo, solitudine, solida preparazione psico-fisica, consapevolezza degli ostacoli che si presenteranno e capacità di tollerare la sofferenza sono coltivati grazie ad una profonda fiducia nel fatto di essere destinato alle “altitudini”, in cui fantasia e creatività si dispiegano e fanno sentire l’uomo pienamente vivo.
Fondamentali erano per Bonatti gli attrezzi che egli portava con sé e che sapeva adattare alle esigenze del momento.
Anche ognuno di noi nasce e cresce con una cassetta degli attrezzi, quando ci sentiamo persi è spesso perché abbiamo dimenticato di possederne una, abbiamo perso la fiducia nella nostra capacità di utilizzarla e nel fatto che lì dentro vi può essere quanto ci serve, ma soprattutto abbiamo smesso di credere che quelle “altitudini” sono sempre alla nostra portata, in modi diversi, indipendentemente dalla nostra età e dalla nostra momentanea situazione di vita.
La psicoterapia ci può aiutare a ricordare che abbiamo una cassetta degli attrezzi e a scavare nella nostra cassetta alla ricerca dello strumento giusto, che è solo nostro.
Si tratta di un percorso che se da un lato implica la consapevolezza della nostra solitudine di fronte agli ostacoli,dall’altro ci fa prendere coscienza della nostra forza e delle nostre risorse e ci aiuta a rimanere allenati per nuove sfide e a meglio riconoscere e a scegliere i nostri più validi compagni di cordata.
Anche noi come Bonatti, alpinisti della vita, dobbiamo ogni tantoalzare lo sguardo per ricordarci che la nostra vetta ci attende e, quando serve, farci dondolare come un pendolo per ampliare le prospettive, spostarci anche solo per un istante da ciò che non ci fa andare avanti, perché la prima e la più importante azione della vita è cambiare lo sguardo, avere fiducia nel fatto che sempre nuovi percorsi interiori od esteriori sono alla nostra portata per raggiungere le nostre cime.
Dobbiamo credere che la vita, come la montagna per Bonatti, ci fornisce gli ostacoli, ma anche quegli strumenti, quegli appigli,quei passaggi, tanto più perigliosi, quanto liberatori.
Dott.ssa Laura Cecchetto
Tirocinante di Psicologia presso lo Studio BURDI
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Il raccordo degli accordi
Il raccordo degli accordi
Puoi chiamarlo accordo ma in realtà è puro “raccordo”.
Ti ritrovi la al centro di diverse correnti, strade, vicoli.
Le abitazioni sono pensieri, sensazioni, punti di vista, prese per mano o spinte di pugno, occhi che cercano o sguardi che allontanano.
Alcune le gradisci e altre meno, alcune le subisci e altre meno ma se non ci fossero non esisterebbe “raccordo” e non esisterebbero strade e nessuna vista, pensiero, occhi o sguardi.
Gli spazi, i tempi, le passioni, le preferenze, i sapori e i dissapori, diventano suoni.
E nel percorso non esiste stridore perchè tutto è colore,
perchè tutto è leggero, perchè ogni cosa ha il suo odore, e con la stessa semplicità attraverso il quale respiri, scegli di percorrerlo oppure no, scegli di deviarlo oppure no.
Un giorno canti mentre gli alberi svolazzano, quello dopo sorridi mentre le persiane dei palazzi si incazzano.
Tutto è suono e tu sei musica, fuori di te le note e dentro di te le corde, e poi tutto è musica e tu sei suono, fuori di te le corde e dentro di te le note… non sai e non vuoi sapere quale sia il punto d’incontro, non t’importa definire ciò che vi unisce.
Il tuo contrario è solo un palindromo e il tuo dissapore solo una scusa per invertire marcia e ripercorrervi ancora.
Non è importante conoscerne i perchè e i per come, la domanda è ignorata, la spiegazione sopravvalutata, la teoria schernita, perchè la vibrazione vince sulla partita.
“Io vibro quando sto bene.
Io vibro quando sto male.
Io vibro quando STO.
Se stai bene, se stai male, se anche tu STAI.
Ti va di vibrare un po’ con me?”
carmen de gironimo
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