Il problema è la Soluzione. Il fallimento ci rende liberi.
Ma chi ci crediamo di essere, Umani o onnipotenti ? Chi sviluppa il delirio di onnipotenza prima o poi si trova a doversi confrontare con la magnificenza del suo essere umano errante, col suo limite, se di limite si può parlare.
Caratteristica dell’uomo è il limite, ma è davvero limitante essere uomini ? La sua identità è fallire, è il suo limite di fatto. Ma di cosa ci meravigliamo ? Nel fallimento incontriamo l’ombra della nostra realtà, come un aereo in atterraggio.
Senza il fallire non saremmo ispirati e spinti a rialzarci, non cresceremmo mai, è questa forza, che diviene ginnastica dal cadere al rialzarsi a determinare l’emancipazione verso la vittoria.
Una vittoria è frutto di migliaia di fallimenti. Ma questa è la vita, è la vita della psicologia di tutta l’età evolutiva. ( giorgio burdi )
Tempo fa mi regalarono un puzzle. 98×33 – 1000 pezzi. Era estate e, nel tempo libero, iniziai ad appassionarmi. Sono quasi passati due anni e son riuscito a mettere insieme solo il contorno esterno. Ogni tanto lo contemplo, incompiuto, sul tavolo del soggiorno.
Quando mi assalgono i sensi di colpa, ci rimetto mano…altre due, tre tessere e poi niente per settimane intere. Finito, sarebbe bellissimo e onestamente, farebbe la sua bella figura appeso all’ingresso di casa. Riporta la volta della Cappella Sistina, con l’atto della creazione dell’uomo al centro.
Nei miei vaneggiamenti, me la prendo anche con Michelangelo: magari si fosse fermato a dipingere solo i contorni di quello straordinario soffitto, ora starei apposto. Al massimo con quale tassello avanzante, ma con la coscienza in ordine.
Questa incompiutezza, da qualche giorno, però, ha iniziato a darmi fastidio. Rispecchia inconsciamente, i miei fallimenti, le cose che nella mia vita, non si sono compiute, di cui è rimasta solo la cornice. Mi indispone a tal punto che diviene forte la tentazione di smantellare tutto e nascondere il mio limite e da qualche parte, pezzi e scatola. Nessuno se ne accorgerà.
Nessuno tranne me che con le mie sconfitte devo farci i conti tutti i giorni. Parlarci, gestirmele, ridar loro un senso compiuto. Una magra consolazione, l’ho trovata su una rivista di settore: un etologo, nel 1926, dopo studi precisi e comparando ripetutamente, l’uomo con gli altri animali, giunse alla conclusione che non eravamo la specie migliore sul pianeta, ma la peggiore.
In natura siamo animali falliti dalla nascita. Difatti, per formarci completamente, come succede per tutti gli altri vertebrati, che dopo il parto si mettono già in piedi, non avremmo bisogno di nove mesi di gestazione, ma di ventuno. La nostra venuta al mondo è, in sé stessa, quindi, un fallimento biologico. Ma molto probabilmente, è proprio qui che si manifesta il miracolo della vita.
Della nostra vita. Siamo unici e superiori, perché procediamo per cadute e tentativi. Guardiamo a come iniziamo a camminare o a parlare. I primi anni di vita li passiamo incespicando e balbettando come provetti idioti, eppure grazie a questo spettacolo sconfortante, si creano in noi, quell’intelligenza e quello spirito critico, che ci distanziano anni luce, dall’agilità delle scimmie, dalla destrezza dei cavalli, dalla velocità dei felini e così via.
Il fallimento è la prova tangibile che siamo in cammino ed è l’unico modo per rientrare in contatto con noi stessi, con l’essenza della vita. Cosa saremmo senza cadute? Cosa saremmo senza ferite? Giocatori allenatissimi, ma tenuti in panchina; soldati istruiti e nascosti in trincea; studenti in perenne formazione.
Per entrare nel pratico, i grandi testimoni del nostro tempo sono quelli che hanno conosciuto, sulla propria pelle, il valore del fallimento e hanno saputo rigiocarselo a loro favore, basterebbe rileggersi le biografie di Steve Jobs, Ray Charles, Darwin, Papa Francesco, Marco Aurelio, Charles De Gaulle e se vogliamo, anche quella di Gesù stesso, che concluse la sua vicenda storica, con lo squallido fallimento della croce.
Freud studiò i fallimenti come “atti mancati”; si soffermò, in particolar modo, sul lapsus (linguae atque mentis) che costituirebbe l’espressione principe dell’inconscio, la prova che l’anima ha una vita propria.
Lacan, anni dopo, affermerà che il fallimento è un “dialogo compiuto”, una strategia messa in atto dalla psiche, per proteggere l’unica forza che ci permette di rialzarci e di andare avanti, l’unica stella verso cui guardare nelle nostre notti insonni: il desiderio.
Come si legge in uno dei suoi seminari: “La sola cosa di cui si può essere colpevoli è quella di avere rinunciato al proprio desiderio” e obiettivo (Lacan – L’etica della psicoanalisi).
Ci sono esistenze squarciate dal dolore, dalla rabbia, dal giudizio verso chi ha ferito; il fallimento permette di riappropriarsi della propria libertà, dell’indipendenza rispetto a questo “fallere”, a questo cadere.
Leonard Cohen in Anthem, canta: “C’è una crepa in ogni cosa, è da lì che entra la luce”, le nostre disavventure, le nostre colpe, anche le più gravi, ci interrogano sempre.
A suo modo, lo diceva Edgar Allan Poe nel racconto “Il cuore rivelatore” (1843): gli assassini si scoprono a causa della propria coscienza, attraverso il cuore delle vittime. Non serve seppellirle in profondità, un battito scomodante, li metterà sempre difronte alla verità.
È lo stesso percorso del fallimento che ci parla nel dolore, per riportarci a vivere. Il puzzle è rimasto lì. L’ho rispolverato, ma il mio vero desiderio è di finirlo. Sbaglierò a mettere i pezzi, sostituirò la mano di Dio con quella di Adamo, fino a trovare poi, l’incastro esatto. Chissà, forse passerà altro tempo, semmai giusto lo sconosciuto frangente d’infinito che mi è concesso per risollevarmi, prender fiato e ritornare ad essere libero.
Luca
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