Il senso di colpa
Il senso di colpa è come una valigia che ci portiamo dietro fin dal momento in cui veniamo al mondo. Forse è colpa della storia, forse della religione, o magari è una questione di genetica o antropologia. Il punto è che approdiamo a questo mondo con un bagaglio di senso di colpa. La predisposizione naturale, combinata con gli eventi della vita, lascia ampio spazio alla sua crescita.
L’infanzia è un momento cruciale in cui sperimentiamo i primi sguardi, le prime esplorazioni, le prime sensazioni, i primi pianti, ma soprattutto i primi piaceri. Talvolta ci comportiamo male, facciamo una cosa invece di un’altra, cambiamo idea attratti dalle bellezze del mondo; spesso commettiamo errori, ma da bambini non proviamo senso di colpa per le nostre azioni, anche quando sono oggettivamente sbagliate. Il senso di colpa, infatti, nasce dalle pressioni della società.
Da piccoli siamo liberi: liberi di toccarci, di sperimentare i piaceri semplici della vita, di essere quasi selvaggi. Non esiste senso di colpa, perché non esistono giudizio, pudore o vergogna. La società, però, ci impone un carico enorme di pressioni. I bambini esplorano il piacere perché non conoscono i tabù imposti dalla cultura, dalla religione e dai dogmi.
In età adulta, l’esperienza del sesso assume sfumature e particolarità. Il sesso si manifesta in molte forme, e una di queste è fare l’amore con se stessi. Noi siamo la prima forma di vita che possiamo e dobbiamo apprezzare. Un possibile “undicesimo comandamento” potrebbe essere: Ama te stesso prima di amare gli altri.
La domanda è: come posso amare qualcuno se non conosco l’amore per me stesso? Mi spiego meglio. Come posso apprezzare una certa tonalità di colore se non l’ho mai vista?
Ad essere onesti, amare se stessi non è affatto semplice. “Sestesso” è un concetto ambiguo e sfuggente, difficile da comprendere. Spesso il nostro “io” è proiettato sugli altri: nei genitori, nell’amica, nel partner. Ci identifichiamo in modo equivoco, perdendo il contatto con la nostra vera essenza. Sarebbe necessario fermarsi, riflettere e porsi la domanda: Chi è il mio io? Una domanda difficile da affrontare e ancora più difficile da rispondere.
Si dice spesso che bisogna perdersi per ritrovarsi, e questa, per quanto sembri una frase fatta, è una verità profonda. Riconosciamo noi stessi solo quando abbiamo toccato il fondo, quando tutto sembra privo di significato, quando non desideriamo più risalire, ma soltanto rimanere lì, fermi, avvolti nel nulla. Solo in quei momenti estremi, quando una mano amica o una forza interiore si muovono per scuoterci, troviamo il nostro vero “io”. È allora che scopriamo il fulcro della nostra esistenza.
Sharon Di Mauro
Tirocinante in Psicologia
Università Statale di Foggia
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