LA REGIA
IL MITO DELLA CAVERNA
Alcuni anni fa, Philip K. Dick scrisse: “la realtà è ciò che non scompare anche se smetti di crederci”. Ma come possiamo essere sicuri che ciò che osserviamo sia la realtà? Dopotutto, gran parte di ciò che sperimentiamo è il prodotto della nostra percezione ed è mediato dalle nostre esperienze interne.
Circa 2.400 anni fa, Platone propose lo stesso dilemma e cercò di spiegarlo attraverso il mito della caverna, Platone-Repubblica, 514 a-517 a (parla Socrate in prima persona, il suo interlocutore è Glaucone): un gruppo di uomini condannati alla nascita a rimanere incatenati nelle profondità di una grotta. Non riuscirono mai ad uscire da essa, e neppure ebbero la capacità di guardare al passato e capire l’origine delle catene o vedere cosa succedeva dietro di loro, fuori dalla caverna. guardavano solo le pareti della caverna. Ogni tanto, davanti all’ingresso della caverna passavano altre persone e animali. Gli uomini incatenati potevano solo vedere le loro ombre e sentire gli echi, che venivano proiettati sulle pareti della caverna. I prigionieri percepivano queste ombre e gli davano dei nomi, credendo di percepire cose reali, poiché non erano consapevoli che si trattava solo di proiezioni della realtà. Tuttavia, un bel giorno, uno dei prigionieri viene liberato. Questi esce alla luce, ma il sole lo acceca, scopre che tutto ciò che lo circonda è caotico dal momento che non riesce a dargli un significato. Quando gli spiegano che le cose che vede sono reali e che le ombre sono solo riflessi, non può crederci. Finalmente si adatta e decide di tornare alla caverna per raccontare al resto dei prigionieri la sua fantastica scoperta.
In un certo senso, una parte di noi sono quei prigionieri incatenati nella caverna. Una parte di noi si sente a proprio agio con gli stereotipi e le credenze familiari, con tradizioni che ci fanno sentire al sicuro. Quando vediamo un raggio di luce che ci costringe ad analizzare queste cose da un’altra prospettiva, abbiamo paura e possiamo comportarci come i prigionieri, negando la nuova realtà.
Tuttavia, abituato alla luce del sole, i suoi occhi hanno ora difficoltà a distinguere le ombre nel buio, così il resto degli uomini incatenati credono che il viaggio all’esterno lo abbia reso stupido e cieco. Pertanto, non gli credono e si oppongono ad essere liberati, ricorrendo anche alla violenza.
È vero che i cambiamenti di paradigma possono generare paura, perché ci tolgono i parametri di riferimento facendoci mettere in discussione alcune delle credenze che abbiamo sempre considerato verità assolute, ma se desideriamo veramente crescere, non dobbiamo afferrarci a nessun modo assoluto di vedere il mondo, dobbiamo aprirci al flusso di idee e prospettive nuove.
Liberarsi dalle catene, quando queste continuano a tenere legati gli altri, è di solito un processo emotivamente complesso. Non è facile ribellarsi quando c’è una dinamica sociale consolidata di cui facciamo parte da molto tempo.
Alan Watts disse che: “la maggioranza delle persone non solo si sentono a proprio agio con la loro ignoranza, ma sono ostili a chiunque gliela faccia notare”. È la stessa idea che Platone ha cercato di trasmettere con il suo mito, infatti, non dobbiamo dimenticare che alcune delle sue idee sono state considerate troppo pericolose per lo status quo dell’epoca e gli causarono più di un problema.
A volte trascuriamo questo dettaglio, quindi cerchiamo di illuminare le persone con la nostra conoscenza, ma quelle persone non sono pronte ad assimilare la nuova prospettiva. Le porte della mente non si possono spalancare entrambe in un attimo quando sono rimaste chiuse per un lungo periodo di tempo, perché potremmo persino esporci a una reazione violenta. La soluzione non è arrendersi, ma aprire gradualmente dei piccoli varchi.
Platone-Repubblica, 514 a-517 a (parla Socrate in prima persona, il suo interlocutore è Glaucone):
(…) In séguito, continuai, paragona la nostra natura, per ciò che riguarda educazione e mancanza di educazione, a un’immagine come questa. Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza della caverna, pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo, sí da dover restare fermi e da poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d’un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo questa pensa di vedere costruito un muricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini.
-Vedo, rispose.
-mmagina di vedere uomini che portano lungo il muricciolo oggetti di ogni sorta sporgenti dal margine, e statue e altre figure di pietra e di legno, in qualunque modo lavorate; e, come è naturale, alcuni portatori parlano, altri tacciono.
– Strana immagine è la tua, disse, e strani sono quei prigionieri.
– Somigliano a noi, risposi; credi che tali persone possano vedere, anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta loro di fronte?
– E come possono, replicò, se sono costretti a tenere immobile il capo per tutta la vita?
– E per gli oggetti trasportati non è lo stesso?
– Sicuramente.
– Se quei prigionieri potessero conversare tra loro, non credi che penserebbero di chiamare oggetti reali le loro visioni?
– Per forza.
– E se la prigione avesse pure un’eco dalla parete di fronte? Ogni volta che uno dei passanti facesse sentire la sua voce, credi che la giudicherebbero diversa da quella dell’ombra che passa?
– Io no, per Zeus! rispose.
– Per tali persone insomma, feci io, la verità non può essere altro che le ombre degli oggetti artificiali.
– Per forza, ammise.
– Esamina ora, ripresi, come potrebbero sciogliersi dalle catene e guarire dall’incoscienza. Ammetti che capitasse loro naturalmente un caso come questo: che uno fosse sciolto, costretto improvvisamente ad alzarsi, a girare attorno il capo, a camminare e levare lo sguardo alla luce; e che così facendo provasse dolore e il barbaglio lo rendesse incapace di scorgere quegli oggetti di cui prima vedeva le ombre. Che cosa credi che risponderebbe, se gli si dicesse che prima vedeva vacuità prive di senso, ma che ora, essendo più vicino a ciò che è ed essendo rivolto verso oggetti aventi più essere, può vedere meglio? e se, mostrandogli anche ciascuno degli oggetti che passano, gli si domandasse e lo si costringesse a rispondere che cosa è? Non credi che rimarrebbe dubbioso e giudicherebbe più vere le cose che vedeva prima di quelle che gli fossero mostrate adesso?
– Certo, rispose.
– E se lo si costringesse a guardare la luce stessa, non sentirebbe male agli occhi e non fuggirebbe volgendosi verso gli oggetti di cui può sostenere la vista? e non li giudicherebbe realmente più chiari di quelli che gli fossero mostrati?
– È così, rispose.
– Se poi, continuai, lo si trascinasse via di lì a forza, su per l’ascesa scabra ed erta, e non lo si lasciasse prima di averlo tratto alla luce del sole, non ne soffrirebbe e non s’irriterebbe di essere trascinato? E, giunto alla luce, essendo i suoi occhi abbagliati, non potrebbe vedere nemmeno una delle cose che ora sono dette vere.
– Non potrebbe, certo, rispose, almeno all’improvviso.
– Dovrebbe, credo, abituarvisi, se vuole vedere il mondo superiore. E prima osserverà, molto facilmente, le ombre e poi le immagini degli esseri umani e degli altri oggetti nei loro riflessi nell’acqua, e infine gli oggetti stessi; da questi poi, volgendo lo sguardo alla luce delle stelle e della luna, potrà contemplare di notte i corpi celesti e il cielo stesso più facilmente che durante il giorno il sole e la luce del sole.
– Come no?
– Alla fine, credo, potrà osservare e contemplare quale è veramente il sole, non le sue immagini nelle acque o su altra superficie, ma il sole in se stesso, nella regione che gli è propria.
– Per forza, disse.
– Dopo di che, parlando del sole, potrebbe già concludere che è esso a produrre le stagioni e gli anni e a governare tutte le cose del mondo visibile, e ad essere causa, in certo modo, di tutto quello che egli e i suoi compagni vedevano.
– È chiaro, rispose, che con simili esperienze concluderà cosí.
– E ricordandosi della sua prima dimora e della sapienza che aveva colà e di quei suoi compagni di prigionia, non credi che si sentirebbe felice del mutamento e proverebbe pietà per loro?
– Certo.
– Quanto agli onori ed elogi che eventualmente si scambiavano allora, e ai primi riservati a chi fosse più acuto nell’osservare gli oggetti che passavano e più rammentasse quanti ne solevano sfilare prima e poi e insieme, indovinandone perciò il successivo, credi che li ambirebbe e che invidierebbe quelli che tra i prigionieri avessero onori e potenza? o che si troverebbe nella condizione detta da Omero e preferirebbe “altrui per salario servir da contadino, uomo sia pur senza sostanza”, e patire di tutto piuttosto che avere quelle opinioni e vivere in quel modo?
– Così penso anch’io, rispose; accetterebbe di patire di tutto piuttosto che vivere in quel modo.
– Rifletti ora anche su quest’altro punto, feci io. Se il nostro uomo ridiscendesse e si rimettesse a sedere sul medesimo sedile, non avrebbe gli occhi pieni di tenebra, venendo all’improvviso dal sole?
– Sì, certo, rispose.
– E se dovesse discernere nuovamente quelle ombre e contendere con coloro che sono rimasti sempre prigionieri, nel periodo in cui ha la vista offuscata, prima che gli occhi tornino allo stato normale? e se questo periodo in cui rifà l’abitudine fosse piuttosto lungo? Non sarebbe egli allora oggetto di riso? e non si direbbe di lui che dalla sua ascesa torna con gli occhi rovinati e che non vale neppure la pena di tentare di andar su? E chi prendesse a sciogliere e a condurre su quei prigionieri, forse che non l’ucciderebbero, se potessero averlo tra le mani e ammazzarlo?
– Certamente, rispose. […]
(Platone, Opere, vol. II)
Ho trovato queste parole di una straordinaria efficacia e, soprattutto, di una straordinaria attualità, eppure appartengono a millenni fa!
Leggendole mi è parso semplice fare una riflessione.
Vi sono comportamenti che sovente ripetiamo, quasi sempre inconsciamente, nel tempo e che paradossalmente hanno quale unico scopo quello di replicare, come in un’opera teatrale vista e rivista mille volte, come <<disco rotto>>, con una pervicacia cronica situazioni, dinamiche e circostanze che spesso conducono all’unico risultato di produrre sofferenza, un serial killer nascosto dentro di noi che dirige la regia di un film il cui epilogo è sempre lo stesso: il nostro massacro.
La domanda che ci si pone per avere risposta al perché di una tale condizione non arriva e solo apparentemente continuiamo a porci seriamente. Eppure, situazioni similari continuano a riproporsi nella nostra vita.
Tutto questo fino a quando persino la sofferenza ha toccato il fondo e ci costringe a fermarci ed a soffermarci sull’unica verità che conti: che siamo proprio noi a custodire quella risposta, anzi, e per meglio dire, a nasconderla per paura di guardare in faccia la vera fonte di tanto dolore.
Chi si nasconde veramente dietro le persone a cui noi consentiamo di farci del male persino quando loro non lo vogliono o non se ne rendono conto o sono semplicemente se stesse nella loro incommensurabile ma inconsapevole sciatteria e pochezza umana ma che senza rendersene conto hanno intercettato il nostro tallone di Achille andando a toccare quella piaga che per ragioni inspiegabili non si è mai rimarginata?
E’ questo il momento in cui siamo scoperti, siamo in trincea, ma soldati nudi, senza armi, senza elmetto, chiaro bersaglio del nostro nemico interiore, privi di comando, pronti solo a morire. Il re è nudo!
Al cospetto di una simile, terrificante, immagine di sé c’è solo una soluzione, credetemi non ve ne sono altre! Occorre fermarsi interiormente, conquistare il proprio tempo e cominciare lo scavo.
Iniziare a scavare è solo l’inizio di un viaggio nelle tenebre più profonde del proprio essere dove tante immagini si aggirano confuse, mostruose e minacciose, rese tali anche e soprattutto dalla nostra mancanza di volontà nel volerle riconoscere, identificarle, dare loro un nome e cognome, affrontarle, materializzarle.
Ma tu sei forte, fortissimo e scavi e scavi, con le mani, nude anch’esse, che si distruggono a sangue, ti fermi, respiri, ti arrendi ma qualcosa ti dice che vuoi guardare in faccia il tuo mostro, i tuoi mostri. Hai paura, tanta, sudi per la fatica dello scavo, per la paura dell’ignoto che ti aspetta, per le conseguenze di questa decisione che ti cambierà la vita ma non sai in che modo, bene, male, peggio! Chissà! In cuor tuo sai che le conseguenze di questa decisione saranno epiche e difficili da gestire e la domanda inconfessata: <<ne sarò capace?>>; <<sarò capace e forte abbastanza per affrontare i conflitti che ne seguiranno>>; <<saprò difendermi>>, <<in fondo subire è meglio che affrontare la battaglia!>> A volte, troppo spesso, non voler sapere è meglio perché ci sottrae alla guerra, al conflitto ed alla scoperta di ciò che siamo, dei nostri limiti: <<ce la farò ad affrontare la guerra?>> ed intimamente ti dici: <<no!, non ce la farò>>. E lo scavo si arresta. Questa è la vera sconfitta. E le repliche si ripetono, il <<disco rotto>> ricomincia e tu senti che stai scoppiando, nella tua vita nulla va per il verso giusto, sei avvilito, affranto, sconfitto, appunto! Ma in mezzo a questo mare in tempesta l’istinto di sopravvivenza ti riporta a prendere respiro e ci riprovi, questa volta con più determinazione e decidi di prendere il toro per i coglioni!
La conclusione di questa ricerca non è tanto ciò che trovi ma il non demordere mai dalla ricerca e, soprattutto, nell’individuare il <<disco rotto>> e fare appello a tutte le tue energie per interrompere quella musica che non sopporti più, come in un film dell’orrore perché il vero obiettivo diventerà riconoscere quel disco rotto ogni volta che si ripresenterà. A quel punto, forse, e dico forse, non ti interesserà più avere l’identikit che ti causa malessere, che ti costringe a subire ciò che ti schiaccia quanto cambiare musica ascoltandone una nuova, quella della tua bellezza interiore, nella Libertà e nella Luce del tuo Essere!
Non potrai dire ancora di avere vinto perché quello sforzo dovrà essere rinnovato ogni volta che quel meccanismo si ripresenterà ma avrai scoperto qualcosa di fondamentale: di avere la forza per affrontare il mostro che si nasconde dentro di te perché ciò che ci circonda non è bello o brutto in sé ma il modo in cui noi lo vediamo e lo affrontiamo.
“Possiamo perdonare un bambino che ha paura del buio. La vera tragedia della vita è quando gli uomini hanno paura della luce”
– Platone –
Laura C.
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