IL DIALOGO INTERIORE CONTRO CATENE E SENSI DI COLPA
Buster Keaton nel 1922, faceva aprire il cortometraggio COPS, da un aforisma di Harry Houdini: “Love laughs at locksmits” (tr.:l’amore si prende gioco dei fabbri). Nella massima, si riconosce l’avventura umana dell’illusionista ungherese, proprio in quegli anni all’apice del suo successo, unico uomo al mondo, dotato di strabilianti capacità nel liberarsi da corde, catene e lucchetti. Keaton ne approfitta e usa la frase, per dare un senso ai suoi venti minuti di girato. Quel corto, svelò poi, al grande pubblico, che dietro la genialità comica del regista, era percepibile una riflessione sulla società reduce del primo conflitto mondiale. Trionfo supportato dalla critica che subito percepì questa dualità d’intenti: “Nel film, come in Kafka, la legge trascende l’umano e gli impone il suo movimento, le sue illusioni, quindi il suo verdetto”. (R. Benayoun, Lo sguardo di Buster Keaton).
La trama, come la maggior parte dei film dell’epoca è elementare: un perdigiorno si innamora di una ragazza d’alta borghesia. L’amore non è contraccambiato, per troppa differenza di censo. Da qui, il giovane cerca di riscattarsi, ma, ogni sua azione è puntualmente fraintesa, da chi gli si para davanti. Il film diventa, per questo, kafkiano, perché la società che lo fraintende, paradossalmente, lo giudica e lo condanna, per azioni che, il poveretto, non ha commesso. Difatti, nella scena finale, non saranno i poliziotti ad arrestarlo, ma, lui stesso, si consegnerà al carcere, consapevole di non avere altre scelte, per restare vivo.
Keaton sembra amplificare all’eccesso, una riflessione che Freud aveva già teorizzato un anno prima, ne “La psicologia delle masse e l’analisi dell’io”: “Nella vita psichica del singolo l’altro è regolarmente presente come modello, come oggetto, come soccorritore, come nemico, e pertanto, in quest’accezione più ampia ma indiscutibilmente legittima, la psicologia individuale è anche, psicologia sociale”; uno dei principi che spianeranno la strada alla critica sociale, poi codificata dalla Scuola di Francoforte (1923).
Un dubbio, però, resta: se tutto si conclude con una inevitabile resa, perché iniziare con quella premessa?
L’intento di Keaton è dare una chiave di lettura nitida allo spettatore. Il “love” è posto in antitesi ai criteri della società, persino al destino che gli viene appioppato; anche le catene della prigione, non andranno a colpire la sincerità dei suoi sentimenti e del suo operato. Solo l’autenticità delle sue emozioni, lo libera da un senso di colpa inflitto ed anche dal totale fallimento. In questo modo, esorcizza la voce che lo vuole come vittima e reietto: “Quella voce è molto probabilmente un coro interiorizzato di voci dei genitori e di altre autorità, insieme al nostro modo particolare in cui gestiamo e parliamo a noi stessi. Anche se questa non è una sensazione piacevole, la maggior parte di noi può affrontarla, soprattutto se ci spinge a fare qualcosa che ci consenta di riconoscere le nostre azioni e di provvedere a correggerle. In realtà, la colpa spesso implica il desiderio di fare ammenda e annullare l’offesa”. (Melanie Klein 1882 – 1960).
Si potrebbe dire che il film, tra lo svolgimento della trama e intenti dell’autore, mette in campo un vero e proprio dialogo analitico, tra ciò che il protagonista prova e l’ineluttabilità dei mores, smontati proprio dalla sua consapevolezza, sospesa tra amore e continuo desiderio di riscatto, per non potersi dire vittima degli eventi.
In questo senso, il cortometraggio è kafkiano anche e soprattutto, per la battaglia intrapresa contro il senso di colpa.
Nel 1952, viene pubblicata a quasi trentadue anni dalla sua scrittura, una lettera di Kafka. È rivolta a suo padre, anche se mai fattagli recapitare, nemmeno dopo la morte dello scrittore, avvenuta nel 1924. Non è soltanto un’invettiva. È la liberazione, messa per iscritto, da un fardello pesantissimo: l’aver passato la vita a inseguire ideali perpetrati da un padre rigidissimo, con la consapevolezza che malgrado ogni sforzo, non sarebbe, alla fine, mai stato all’altezza delle aspettative: “io avevo perso la fiducia in me stesso, sostituendola con un immenso senso di colpa”.
Senso di colpa riversato, in ogni forma immaginabile e non, in tutte le sue opere. Il libello non è soltanto invettiva, perché Kafka, verso la fine dello scritto, è conscio di aver trovato una sua identità: “la vita è qualcosa di più che un gioco di pazienza.” Ora, è lui ad insegnare al padre e ciò lo distanzia dalla sola ribellione di maniera. Ed è qui che la sua melanconia diventa simile alla comicità di Keaton; leggera, perché modellata attraverso i battiti di un cuore che si è speso, a mani nude, contro tutte le avversità.
Herman Melville su questo eterno combattimento, ci fece un romanzo e lo chiamò Moby Dick, dove racconta l’epico assalto a un mostro temuto e indomabile, l’unico modo, per dichiarare, senza possibilità di smentite, d’aver vissuto veramente: “Nel tempestoso Atlantico del mio essere, io sempre godo di una muta calma nell’intimo e, mentre pesanti pianeti di dolore incessante mi ruotano intorno, laggiù in fondo continuo a bagnarmi in un’eterna soavità di gioia.” (H.M.)
Mostri, fraintendimenti, sensi di colpa, giudizi affrettati, catene, lettere abbozzate o perse, tradimenti e personaggi oscuri, li abbiamo visti, incontrati e molto probabilmente, li ritroveremo; scegliere come affrontarli, per essere liberi è ciò che ci permette di dirci vivi.
luca anaclerio
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