L’ Assente
L’ Assente
Ci sono padri che lavorano soltanto e figli affannati che supplicano e sono continuamente in attesa della loro presenza. Dall’ entusiasmo iniziale di avere il padre come un proprio eroe, al rammarico che non ci sia, alla disperazione che la condizione non potrà mai cambiare, in termini di tempi di condivisione e di presenza, alla rassegnazione abbandonica in cui il bambino inizia a credere che dovrà cavarsela da solo, pur non sapendo come fare.
Si dà avvio ad una condizione di adultizzazione del bambino con il conseguente salto della sua infanzia.
Il bambino farà tutto da solo, vedrà la nascita del monologo e del soliloquio, parlerà con se stesso, si farà domande, si darà risposte, avvierà soliloqui interminabili con se stesso, privi di riscontri con la realtà, intrisi di elaborazioni de realizzanti, riconoscerà come padre il proprio pensiero, in braccio alle proprie inconcludenze, imparerà a non guardare il padre in faccia, a guardare le proprie elaborazioni.
Soliloqui, monologhi, fantasie, mediazioni, concentrazione sul proprio mondo interiore, sullo studio, permetteranno alla sua mente di divenire la propria casa ideale, l’ alcova, il luogo incantato dove rifugiarsi e incontrarsi il suo mondo migliore, dove iniziare a sperimentare le sue prime intrusioni. Vivrà le invadenze e le delusioni esterne come disturbanti del suo mondo interiore fantastico, loro diventeranno pensieri intrusivi e paranoici, difformi ai propri pensieri.
Questo rappresenta l’ esordio di una relazione autistica tra il proprio pensiero e il mondo. L’ assenza, è la radice abbandonica, che accompagnerà il figlio per la sua vita. Il figlio dimenticherà e disconoscerà il padre ma lo cercherà in tante altre figure sostitutive ed alternative senza che lui lo sappia riconoscere o senza che lui se ne accorga.
Le Carezze, i giochi, le conversazioni, i baci, tutti i perché senza le risposte del padre eroe, come mito dell’ adulto che non c’è, svuotano il bambino, che non potrà essere ascoltato e non potrà parlare. Un padre che non prende in braccio il proprio figlio, non lo potrà mai farlo sentire un futuro eroe, non potrà curare la propria insicurezza col pilastro dell’ essere adulti.
“Ma papà lavori sempre, per me non ci sei mai ? “ . Un figlio, che affermi questo, viene posto di fronte alla propria impotenza di non poter ricevere mai un riscontro e desolato, dovrà, adattarsi al suo essere invisibile al quale rassegnarsi.
Un padre ammalato della sua assenza, tirerà su un figlio accudente che si prenderà cura di lui. Quando il figlio diventerà padre, sarà ciò che ha imparato, da assente si farà curare dal figlio, bastone della sua vecchiaia, si prenderà cura del padre come il bambino che non è mai stato. Si darà via a quel giro vizioso automatico generazionale senza fine. Nessuno vive, ma ognuno si prende cura non di se, ma sempre di quslcun’ altro. Si avviano generazioni di infelici, di soli ed isolati , perché l’ isolamento altro non è che il ri perpetuare dell’assenza.
Bisogna rinunciare ad avere figli, se figli non si è mai stati. Nello stesso senso, chi dichiara di non desiderare avere figli, dichiara di avuto pessimi genitori. Chi non desidera ricevere figli, è fondamentalmente impaurito dall’ idea di rivedere in loro la propria infanzia svuotata del padre.
Flotte di genitori assenti generano generazioni in guerra e in conflitto, generazioni di bellicosi, insoddisfatti, generazioni di soldati, in lotta, a difesa del proprio ruolo e della propria identità. Un figlio non amato, con conosce la presenza, non sa cosa possa mai essere l’ amore, diviene specialista in anafettività, trasparenza, rabbia, indifferenza ed odio.
L’ origine delle guerre e del desiderio di morte è da attribuirlo al processo complesso delle assenze. Chi fa guerra, non vede il prossimo, non ti riconosce, non è toccato nella sua umanità, perché non toccato e pertanto respinto dall’ umanità del genitore; chi fa guerra non in è grado di riconoscere l’ altro in se stesso, possiede uno specchio frantumato di se, perché dall’ altra parte c’ è un genitore frantumato. Il vuoto dell’ assenza è il vuoto dell’ umanità.
Quando incontri un partner, reduce dell’ assenza genitoriale, vivi la frustrazione delle assenze subite, ti da pagare e riempire tutti i suoi vuoti subiti, non gli basti mai gli manchi sempre, anche quando ci sei, ne avverte il vuoto sempre. In realtà gli manca ciò che non c’è mai stato nel passato, e l’ assenza abbandonica attuale, altro non è se non la punta dell’ iceberg. Manca sempre un assente primario, eccellente, una matrice fondamentale. Tanto più grande è l’ assenza di una figura genitoriale, tanta più avrà una importanza privilegiata una minima assenza di oggi.
Chi è costretto a fare da genitore al proprio, intossica il suo ruolo, si immette su una corsia preferenziale futura, ovvero cercare un partner che fosse un figlio da accudire. La vita diviene una immolazione sfiancante, una malattia.
Una lettera scritta ad un padre o ad un partner, rappresenta quella sfida per mappare la propria storia relazionale, per poter ripercorrere la storia del proprio sacrificio. Serve a delineare tutto ciò che mai si è potuto scegliere, per svelare quella sacra consapevolezza che la vita, oggi, potrà ancora essere scelta, spaccando quelle patologiche catene di obblighi e di ruoli inadeguati non più opportuni nel presente.
Un serio ed assiduo lavoro analitico, correlato ai suoi strumenti di lavoro, come una psicoterapia individuale, una gruppo analitica, la lettera analitica, i rispecchiamenti, i de condizionamenti, gli psicodrammi, ect ect, hanno il compito di esaltare la consapevolezza, per accellerare le risposte e i cambiamenti, chiarire i ruoli e i modelli di riferimento, servono a spezzare quella circolarità viziosa generazionale, che passa la malattia, come un un testimone da genitori a figli, fissando proprie attitudini, propri talenti ed obiettivi per tornare alla propria progettualità e protagonismo.
Tutto ciò non è affatto facile, è molto complesso, ma non impossibile, non ci sono miracoli da compiere, specialmente se ci sono interruzioni del trattamento, quando a lavoraci resta solo lo psicoterapeuta, bisogna volerlo, con grinta ed audacia, abbattendo la flemma e gli automatismi, con tenacia e continuità terapeutica, si riesce a realizzare il ritorno alla salute e la propria metamorfosi, perché si fanno i conti con gli stili di vita, con le rigidi abitudini e le sedimentazioni dei ruoli indossati errati, per scollare di dosso tutto ciò che non è proprio, si ritorna alla salute del proprio protagonismo.
giorgio burdi
Continua