Le Due Facce Della Medaglia
- LE DUE FACCE DELLA MEDAGLIA
Nelle vite di ognuno di noi è sicuramente capitato di ritrovarci in situazioni che compromettono il nostro buon umore, che siano problemi d’amore, perdite di persone care, provare solitudine o ambiguità quando si è all’interno di un gruppo di persone, problemi nel relazionarsi con gli altri, introversione, vergogna di sé stessi e così via. Ciò che bisogna capire è che qualsiasi cosa accada, essa ha un lato negativo ma anche (e soprattutto) positivo.
Di fronte a circostanze quali quelle elencate precedentemente il sentimento predominante è l’infelicità, un sentimento alquanto spiacevole da provare, ma non se si impara a gestirlo propriamente. Attraversare un momento triste, infatti, è il più efficace metodo di crescita che l’uomo possa avere a sua disposizione, solo se si sa girare la medaglia dall’altro lato. E per imparare a farlo bisogna scontrarsi con un nemico crudele e invisibile agli occhi: noi stessi. Si può capire in qualche modo come scoprire questa parte inconscia? Assolutamente sì.
Ognuno di noi ha un’identità, seppure non chiara e ben definita, a cui corrisponde un’altra esattamente contraria alla nostra o, in parole più spicciole, quella parte che non ritroviamo nella nostra identità perché non ci piace o perché estranea ad essa. Solitamente ci se ne accorge quando si ha a che fare con persone molto diverse da noi, ma il nostro obbiettivo è creare quella sorta di persona dentro noi stessi che corrisponda all’esatto opposto dei nostri gusti, del nostro comportamento, del nostro stile, cosicché si possano mettere più realtà a confronto. Tuttavia è corretto esplicitare anche quella parte che potrebbe risultare “maligna” o “tossica”, che è però da utilizzare solo a confronto con i suoi e mai da sola.
Dunque c’è bisogno prima di tutto di creare questo opposto, successivamente conoscerlo e infine saperlo sfruttare al meglio.Alcuni esempi possono rendere meglio l’idea di quanto affermato precedentemente.Di fronte alla rottura di una relazione amorosa, non bisogna dare spazio solo alla sofferenza, bensì anche a quella parte di noi stessi che ci sussurra che i vincoli comportati dalla precedente situazione sono sciolti, oppure, se la relazione è terminata, si può finalmente dire di aver messo un punto a tutti i disguidi e litigi che hanno portato alla rottura. E il tutto può essere migliorato ulteriormente dalla visione dell’amore non come unica ragione di vita ma come la più importante tra le relazioni sociali che si ha, senza escludere le altre meno importanti.
Nel caso di un lutto, la tristezza è imminente. Non sarà così intensa se non si vede il lutto come una perdita ma come un “passaggio” di valori e insegnamenti che il caro ha lasciato e fare in modo che diventino parte di noi, contrariamente a quando probabilmente, durante la vita, venivano ignorati o considerati di poco conto; una sorta di convivenza delle nostre voci interiori con la voce del caro, facendola parlare come se fosse accanto a noi in ogni momento ed esserne felici del ricordo, non tristi per la perdita.
È corretto parlare anche della vergogna di fare ciò che si desidera o ciò che ci piace. Partendo dal presupposto che molte delle persone che passeggiano casualmente non proveranno nessun particolare interesse nei confronti di altri passanti, dobbiamo sentirci più a nostro agio con l’ambiente che ci circonda. Non piacciamo a qualcuno? Per il semplice fatto che non ci adeguiamo alla massa? Adesso, parlando nello specifico di te, lettore, se ritieni di essere diverso da tutti, non pensi sia meglio? Non sarebbe così noioso essere uguale a tutti in comportamento, pensiero ed estetica? E ancora, tu lettore, ti sentiresti meglio ad esprimere te stesso appieno o a nascondere te stesso in quella grande categoria che non fa altro che adeguarsi?
Sono più che sicuro che la risposta è arrivata impulsivamente, da quel che si potrebbe definire “numero 1” della nostra persona, ovvero quel segmento di noi stessi che ci da risposte a situazioni senza analizzarle dal punto di vista razionale.
Qui la seconda faccia della medaglia si può facilmente riassumere con il detto “come ci sarà qualcuno a cui non piace quello che fai, ci sarà anche chi ti adorerà per quello che sei” -e aggiungo- “che ti supporterà per far si che ciò che ti piace si realizzi”. Sta solo a noi la scelta di aprirci affinché arrivi questo cambiamento, nessuno girerà la medaglia al nostro posto. E la vita è troppo breve per non essere vissuta da tutti i lati che ci permette di analizzare.
davide
ContinuaIl Pregiudizio
IL PREGIUDIZIO
Il nostro sistema difensivo è concepito per attribuire maggiore rilevanza e focalizzare la nostra attenzione su quelle situazioni che potrebbero costituire una potenziale minaccia per la nostra sopravvivenza e incolumità.
Questo sistema di difesa, di derivazione ancestrale entra in gioconell’uomo moderno anche in quelle situazioni che pur non costituendo una minaccia per la vita, possono compromettere, in base al nostro sistema di attribuzione di valori, la nostra identità relazionale, sociale, affettiva.
In questo senso le risorse cognitive ed emotive vengono quindi completamente mobilitate dai seppur esigui fattori ritenuti negativi e distolte dalle più numerose componenti positive dell’esistenza.
L’estrema focalizzazione sugli elementi negativi, è all’origine diun errore cognitivo importante che si inserisce nella valutazione di sé stessi, della realtà e del mondo, che viene definito “negative bias” ovvero il “pregiudizio negativo”.
Sebbene tale pregiudizio sia originato dalla necessità di preservare l’incolumità dell’uomo, quando questo diventa prioritario e dominante in tutti gli aspetti della vita relazionale, professionale e psichica, esso finisce per costituire un nodo disfunzionale per l’esistenza che necessita di essere sciolto.
All’origine del “pregiudizio negativo” disfunzionale vi è la crescita e lo sviluppo dell’individuo all’interno di una realtà, familiare e sociale, in cui sussiste un sistema di attribuzione di valori e di significati alterato, seppur riconosciuto come valido a livello della comunità, grande o piccola che essa sia. All’interno di questo sistema di attribuzione non vengono riconosciute e valorizzate le risorse, le potenzialità, i desideri, le intuizionidell’individuo nella sua unicità, ma le sue potenziali inadeguatezze di fronte ad un mondo percepito tanto minaccioso,valutante e svalutante, quanto giusto, che richiede l’annichilimento di ogni vibrazione, di ogni battito d’ali e una totale uniformizzazione.
Basti pensare ai numerosi test di ammissione, ai test Q.I., ai test di personalità o alle numerose varie altre etichette che spesso per semplificare la realtà finiscono per ridurre l’essere umano nella sua incredibile complessità ed unicità ad un mero contenitore di informazioni, di saperi, di comportamenti da valutare.
In mancanza di consapevolezza, si finisce allora per delegare a qualcun altro il giudizio e l’approvazione dei propri desideri, delle proprie aspirazioni e di fatto l’anelito alla propria realizzazione e libertà.
Laddove l’ascolto delle voci esterne ha preso il posto dell’ascolto della propria voce interiore, del proprio intuito, dell’amore per sé stessi, diventa difficile se non impossibile saper riconoscere chi siamo veramente, qual è la verità di noi stessi, come entrare in sintonia con la vita, perché abbiamo perso la capacità di intenderela nostra musica.
Nella ricerca della libertà è allora importante imparare a riconoscere due voci controverse che convivono in noi, quella che corrisponde alla parte più vitale di noi, che sà di possedere le ali e di poter spiccare il volo, di essere fatta per questa vita, e quella che corrisponde alla parte più condizionata, frenata dalla paura di sbagliare e di essere annientata, quella che ci vuole convincere che l’unica realtà possibile sono le sabbie mobili dei giudizi e delle etichette.
Una voce che ci fa vedere la nostra bellezza, le nostre risorse e che ci fa desiderare di avere un ruolo attivo in una vita bella da vivere, anche con le sue sfide e difficoltà, dove non esiste giusto sbagliato, ma esiste l’ ”autentico”… e una voce che ci fa vivereattanagliati dal pregiudizio negativo, sempre pronta a fermare, atrattenere dal divenire uomini liberi, che senza neanche accorgercene finisce per farci preferire la sicurezza dell’essere schiavi all’incertezza della libertà.
Solo togliendo giorno dopo giorno il coperchio dalla nostra coscienza, è possibile identificare la voce nascosta condizionantee ridimensionarla, iniziando un percorso verso un’esistenza in cuile nostre scelte ed i nostri discernimenti siano effettuati in veralibertà, in cui sia possibile far crescere e prosperare le nostre componenti più vitali, in un loop virtuoso verso la realizzazione di una vita più autentica, fatta non di paure, ma di strategie di fronte alle difficoltà e di risorse, in cui miracolosamente il ritmoquotidiano monotono e angosciante può finalmente trasformarsinella sinfonia della vita che siamo chiamati a vivere.
Sintesi a cura di
Dott.ssa Laura Cecchetto
Tirocinante di Psicologia
presso Studio Burdi
Continua
Le Passioni
Le passioni
Le passioni sono elementi costitutivi della nostra personalità, poiché sono espressioni della propria individualità.
Le azioni che si fanno per passione danno gioia ed un’immensa soddisfazione.
Quando ci si dedica ad un’attività appassionante, il tempo e gli altri non esistono più: quel tempo è dedicato solo a sé stessi, alla propria creatività. Quelle passioni generano benessere, aumentano la propria autostima, non ci giudicano e ci regalano uno splendido sorriso luminoso. Sono il nostro battito animale.
Le passioni-distrazioni sono diverse, divergenti ed alienanti. Denotano una via di fuga, un attimo di quiete durante la tempesta delle preoccupazioni, per non prendere coscienza del problema. Tolgono l’attenzione, l’ostruzionismo di sé e dei propri bisogni repressi dal dovere e dl dare importanza prima agli altri che a sé stessi.
Queste appassionanti distrazioni rivelano l’oblio di sé stessi e del proprio bambino interiore, in una lenta eutanasia. Ancor più differenti sono le passioni-ossessioni, che divorano dall’interno: il piacere viene sopraffatto dall’ideale del piacere rafforzato dall’idea di dover fare questa attività per ottenere benessere.
Questa felicità illusoria e fugace è affamata di tempo ed energia, isola e rinchiude l’individuo in uno scrigno, come per proteggerlo in un mondo tutto suo.
Le passioni-distrazioni sono preoccupazioni.
Le passioni-ossessioni sono insoddisfazioni.
Queste passioni generano frustrazione, rabbia e rimpianti.
Le passioni-benessere derivano dal desiderio e conducono alla realizzazione di questo “motore”: ci permettono di sorpassarci, incrementano la curiosità e plasmano la realtà, migliorandola, come la desideriamo.
Avere passioni-benessere rivela il vero sé, spudorato, coraggioso, contro-corrente e senza compromessi. Sono le nostre passioni: risorse ed arricchimento del proprio universo interiore.
È il nostro battito animale, che prende e porta via con sé, quell’istinto naturale che c’è e batte nel nostro essere naturale, e che batte, batte, fino alla morte. Avere passioni è voler essere felici per sé stessi.
Eva BLASI
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IN FRANCESE
Les loisirs-passions
Les passions sont des éléments constitutifs de notre personnalité, puisqu’elles sont l’expression de notre propre individualité.
Les actions réalisées par passion donnent à l’être humain une immense joie et un sentiment de pleine réalisation et satisfaction. Quand on se dédie à une activité passionnante, le temps et les autres n’existent plus : ce temps est dédié seulement à soi-même, à sa propre créativité. Ces passions génèrent du bien-être, augmentent l’estime de soi, ne nous jugent pas et nous donnent un merveilleux sourire lumineux.
Les passions-distractions sont différentes, diverses et aliénantes. Elles sont le pâle reflet d’une sortie de secours, de fuite de soi, de calme avant la tempête des inquiétudes, pour ne pas prendre conscience de l’existence d’un problème et se voiler la face. Elles nous apportent une distraction légère et momentanée pour mieux cacher la misère de notre vide intérieur, l’oubli de soi-même, des propres besoins réprimés par le devoir et de donner la priorité d’abord aux autres puis à nous-mêmes. Ces passionnantes distractions révèlent la lente euthanasie en cours de notre enfant intérieur.
Les passions-obsessions, quant à elles, nous dévorent de l’intérieur : le plaisir est remplacé par l’idéal du plaisir renforcé par l’idée de devoir faire cette activité pour obtenir du bien-être. Cet éphémère bonheur illusoire est affamé de temps et énergie, il isole e retient prisonnier l’individu dans sa cage dorée, lui donnant l’impression de le protéger tant qu’il est dans sa propre bulle.
Les passions-distractions sont des préoccupations.
Les passions-obsessions sont des insatisfactions.
Ces passions génèrent frustration, colère et regrets.
Les passions bien-être tirent leurs origines du désir e conduisent à la réalisation de ce « moteur » intérieur à soi: elles nous permettent de nous surpasser, d’éveiller et aiguiser notre curiosité, pour façonner la réalité, telle que nous la désirons.
Avoir des passions bien-être révèlent notre vrai soi-même : hardi, courageux, audacieux, original et franc, sans compromis. Nos passions sont des ressources et un enrichissement de notre propre univers intérieur.
Avoir des passions, c’est vouloir d’abord être heureux pour soi-même.
Eva BLASI
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IN CINESE
爱好
爱好是个人的基础因为表是个人的乐趣。
你做爱好的事儿给你最大的乐趣与得意:那个时候,人与时间不存在。 这个时间只是为你自己, 给你创作经验。 这样的爱好让你提高你自己的相信, 不批评你, 给我们一个笑得合不拢嘴。
消遣的爱好表示一个心理的跳跑, 为了看不见问题的原因,为了我看不见你自己不接触没达到的希望, 要做的事儿, 别人比你更好,别人比你跟重要。
而且, 顽念的爱好吃你自己的心里与心理里面:乐趣变了一个理想, 吃你的时间与力气, 隔离你在自己里面的世界。
消遣的爱好是担心。
顽念的爱好是不满意的感觉。
这样的爱好的结果是受挫, 愤怒, 后悔。
乐趣的爱好是从心里希望来的, 让你的实现起出希望。
爱好是自己的愉快。
伊轩媖 Eva BLASI
ContinuaWu Wei
IL VALORE TERAPEUTICO DEL WU WEI E IL FLUSSO DELLA VITA e
La Teoria del Non Attaccamento
Il Wu Wei è un concetto al cuore della filosofia Taoista, utilizzato recentemente anche in alcuni approcci terapeutici (1).
Spesso tradotto come “non-agire”, esso descrive in realtà un principio di azione senza sforzo che richiede il non attaccamento al risultato dell’azione.
Si tratta dunque di un’azione mirata che si svolge in armonia con la realtà e che comporta lo sviluppo di particolari qualità interiori e una visione della vita fondata sulla fiducia, la lungimiranza e la consapevolezza profonda della causalità e della transitorietà degli eventi.
Il Wu Wei richiede la capacità di coltivare in sé la capacità di essere recettivi e disponibili alla realtà, di ampliare lo sguardo e affinare il proprio spirito di osservazione nella relazione con questa.
Ciò è reso possibile dalla capacità di mettere da parte, momento dopo momento, le aspettative e l’attaccamento emotivo ad un preciso risultato, per lasciare spazio alla realtà e a ciò che essa richiede negli eventi e nelle situazioni che si presentano.
Si tratta di percepire le opportunità e limitare la dispersione delle nostre energie, entrando in sintonia con la direzione del fiume della vita, in una prospettiva di fiducia che richiede una particolare relazione con il tempo, una sorta di senza tempo in cui tutto è possibile.
Sebbene apparentemente legato al concetto di “rinuncia” alle nostre aspettative, il Wu Wei ci proietta in realtà verso la dimensione di un risultato sicuro-certo, il migliore, che implica un’azione che opera di concerto con il flusso della vita.
Questo concetto filosofico è particolarmente utile nella relazione con la sofferenza psicologica.
Infatti laddove spesso l’ostacolo, il rifiuto, l’inadeguatezza che si sperimenta viene vissuto come qualcosa di immutabile, di irreversibile e permanente, immodificabile, il Wu Wei mette l’accento su un aspetto fondamentale della nostra esistenza, quello della transitorietà e mutabilità degli eventi, in cui grazie all’attesa sapiente, all’osservazione e quando opportuno, all’azione mirata, tutto può evolvere nella nostra realtà : ciò che non è qui in questo spazio e in questo momento della nostra vita può esserlo in un altro, quello giusto, se coltiviamo la fiducia e la consapevolezza. Anche i nostri desideri e le nostre aspettative possono evolvere se coltiviamo l’attenzione alla realtà e con questa stabiliamo una relazione di fiducia e reciproca costruttiva interazione.
Il concetto di fiducia nel corso della vita, è strettamente correlato alla dimensione del rapporto con noi stessi e alla relazione che abbiamo con il tempo.
Spesso infatti ci attacchiamo ad un risultato o ad un’aspettativa relazionale, perché abbiamo bisogno, il prima possibile, di conferme che possano liberarci dal lancinante dubbio che ci portiamo dietro sulla nostra inadeguatezza.
Ma più grande è questo desiderio di conferme, più grandi le schiavitù che ci costruiamo intorno.
Attendiamo che il risultato si manifesti esattamente nella direzione da cui ce lo attendiamo, quella in cui abbiamo maggiormente investito con sforzo ed impegno, attanagliati dalla paura che la risposta tanto attesa non arrivi o che quella mancata risposta, confermi definitivamente la nostra inadeguatezza.
Paradossalmente molto spesso più siamo schiavi di queste conferme più queste tardano ad arrivare.
Il Wu Wei ci ricorda che la realtà ci dice sempre la verità di un momento e in quanto tale questa è la migliore opzione possibile.
Tuttavia essa non è una verità assoluta, la verità che emerge ora è una verità transitoria, ma con cui possiamo relazionarci in maniera costruttiva, a volte semplicemente lasciando che le cose accadono e seguano il loro corso, mentre noi, se siamo abbastanza recettivi, aperti e fiduciosi possiamo intanto osservare e orientare lo sguardo dentro e fuori di noi, laddove sicuramente, se apriamo gli occhi, si svelano a noi nuovi orizzonti e nuove consapevolezze.
Prime fra tutte la consapevolezza di essere sempre più importanti di un risultato materiale o relazionale, e la consapevolezza che il risultato si può tanto più manifestare quanto meno abbiamo una relazione di dipendenza da questo e quanto più coltiviamo una relazione di fiducia sapiente e lungimirante con noi stessi e con la vita, nelle sue molteplici sfaccettature.
Coltivare, giorno dopo giorno, anche grazie ad un supporto esterno adeguato, una visione di questo tipo, significa accrescere il rispetto per noi stessi e consolidare un senso di fiducia e stabilità interiori, convinti di vivere una vita in cui noi, come gli altri, siamo protagonisti, appassionati non del risultato ma del percorso, in un’avventura in cui attenti, versatili e flessibili, interagiamo con la realtà, impariamo da questa e questa diventa via via più docile e appassionante.
Sintesi a cura di:
Dott.ssa Laura Cecchetto
Tirocinante di Psicologia
presso Studio Burdi
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L’ Incredibile
L’ INCREDIBILE
Casi Clinici. Pillole di storie reali.
“ Sono felice di entrare nel mio Studio, perché, finalmente incontro persone sane “
Molto spesso mi viene formulato il seguente quesito: ma chi è il “matto” ? Comunemente si afferma che è colui che non si pone questa domanda e che non sa mai di esserlo, ma è convinto innanzitutto che lo siano tutti gli altri; non sa mettersi mai in discussione, si camuffa, è gentile, manipolatore e bizzarro, maniacale, stupefacente, scaltro, lascia attoniti, ha dell’ incredibile, è al limite tra lo stupore, la seduzione, il mistero, la follia e il reato, è un, supera ogni limite consentito dal buon senso.
Incontriamolo nel concreto; in queste pillole di storie vere, cercando di riconoscere in esse il confine tra malattia e normalità.
A noi le storie :
Mio marito mi ha forato le gomme dell’ auto, è geloso, per evitare che vada al lavoro e mi renda autonoma. Lui invece, cinque anni dentro, una storia con mia madre, ora si è specializzato come pusher. Posso essere depressa ?
Mia madre mi fa un prestito di 6000 euro e mi chiede gli interessi da usura.
Ho il morbo di Crohn, ho 40 anni, vivo da solo, ho il cantiere in casa, ho perso il lavoro, quasi muoio; ho chiesto alloggio a mia madre, mi ha risposto che una volta uscito di casa, non rientri più. È la tradizione per noi meridionali o non ho mai avuto una mamma ?
Sono una accumulatrice seriale. Casa è diventata un deposito di oggetti inutilizzati. Dormo in un angolo del letto, sono attaccatissima ai miei ricordi, più ingombranti di me. L’ appartamento pesa tonnellate di roba per metro quadro, non butto nulla e se provo a distaccarmene, impazzisco, mentre dai miei figli sono distaccata, li tengo a continentale distanza.
Mi ha costretta ad abortire, garantendomi un mondo ed altro, ma è scomparso.
Ho quarant’anni, mio padre ha abusato di me sessualmente dai 5 ai 12 anni, sono sempre stata un angelo, mia madre lo ha sempre saputo, ma abbiamo preferito conservarci la famiglia del mulino nero, restando insieme.
Ho scritto una lettera di addio a mia moglie e ai miei due figli, come ultima chance, prima di farla finita, ho fatto terapia. Ora ne sono fuori. Vent’anni dietro ad una diffamazione popolare, quella di essere un ricchione, solo per aver detto di no alle avance di una donnina. Non sapevo a cosa servisse la rabbia come lo so molto bene adesso.
Mio padre e mia madre si picchiavamo, avevo cinque anni, ora ne ho trenta in più. Allora avevo continuamente incubi e sognavo dei mostri, tanto che in casa creavo loro delle trappole, in pratica, versavo dello svelto sui pavimenti, e tutti scivolavano, ma per i miei, ero un folle, semplicemente un pazzo.
Mio cognato mi ha abusato dagli 8 ai 13 anni, mi diceva di volermi bene, quando il’ amore in casa mia non sapevo cosa fosse. Mi hanno dato psicofarmaci per 20 anni e i medici dicevano che era colpa delle mie crisi epilettiche. Trent’ anni dopo ho preso la bestia per le corna, l’ ho spubblicato. Ora sono una persona libera, serena e senza psicofarmaci.
Figlio unico, iscritto alla Luis da 10 anni, si son costruiti un’ intera ala di un edificio per i miei anni di fuori corso, da cinque anni mi mancava dare l’ ultimo esame per laurearmi, per farmi inconsciamente notare dai miei. Solo quando ho smesso di attenderli, sono sceso dal letto della mia depressione, con l’ aiuto della terapia, ho ricominciato da me, ho deciso di amarmi da solo, ho trovato lavoro, mi sono laureato, ho ritrovato il mio amore ed ho voluto incontrare i miei.
Figlia unica, mi hanno tenuto sotto una campana, laureata due volte, ma ero imbranata e non sapevo relazionare. Ora cammino, vivo e mi diverto, grazie a chi mi ha preso per mano e poi me l’ha lasciata.
Faceva avanti e indietro con l’ auto in un parcheggio di trastevere. Sono sceso e gli ho chiesto: esce o entra ? mi ha risposto: “a li mortacci tua e di quel bastardo che tua moglie porta nel grembo”. L’ho steso a sangue. Non potevo continuare così, ho capito che la mia rabbia dipendeva dal mio capo, l’ ho affrontato, ho cambiato lavoro ed ora sono sereno.
Mia madre tradiva mio padre, così ho fatto un pieno di donne per odiare mia madre; le ho tutte tradite, l’ una con l’ altra. Ho compreso il mio odio per lei e che le altre non centravano nulla con lei. Ho iniziato a mandarle a casa, una ad una. Ora sto conoscendo chi sono, cosa voglio e chi mi portavo dentro.
Ero chiuso da anni in una stanza, cosa ci facevo ? Aspettavo mio padre che venisse a prendermi, l’ ho visto dieci volte in vent’ anni. Quanta sofferenza e tempo perduto. L’ ho cercato e affrontato e mi ha risposto: “ma lo hai capito che non voglio esserti padre ? ”. Lo avrei picchiato, ma ho compreso ciò che lui non sa, che è malato, ho raccolto le mie forze e sono ripartito da me e da chi mi ha veramente amato.
Non ho mai conosciuto un abbraccio, una carezza o un come stai ! Dai 14 anni avevo solo la coca come il mio amore, per la mia famiglia ero una vergogna. Ora che ne sono fuori, ho la consapevolezza che per fare un figlio, bisogna starci con la testa.
Mia madre per tutta la vita mi ha ribadito che la mia nascita non era stata gradita e dovevo ringraziarla per avermi messo al mondo e che oggi dovrei esserle molto riconoscente. Grazie mamma, per la tua infinita bontà.
Ho 21 anni, la mia passione era diventar medico, non studio più e vivo di sensi di colpa, mi sento un incapace; per i miei, sono la loro unica loro realizzazione, quanta responsabilità, tante aspettative, senza il mio impegno, loro falliscono, non posso sottrarmi a questo impegno, sono bravi, glielo devo, ma alle volte mi sento manipolato con tanto affetto, mi marcano stretto, non capiscono perché sono in depressione acuta, mi manca l’ aria e mi sono bloccato; vendo cara la pelle, non posso deluderli, non voglio diventare loro un peso, devo farcela da solo o magari soccombere se fallisco.
Sono un ragazzo semplice con una passione altrettanto semplice, diventare un musicista. Mio padre non ha mai creduto in me. Mi ha spezzato sempre la voglia di andare avanti. Mi ritrovo anni fuori corso perché “<< la musica non ti dà da mangiare, vai a lavorare >>”. Oggi ho ripreso alla grande con i miei interessi al centro del focus della mia vita.
Cosa c’è di strano e di incredibile in in queste storie vere ? Nulla per i così detti “matti” per i quali tutto è lecito e regolare, ma i “normali” allora chi sono ? Essi sono le vere vittime di certi eventi incresciosi. In queste storie non ci sono argini, ne confini, ne vinti o vincitori, tutto sembra consentito. Percepiamo che tutto deve avere un limite, quando è troppo è troppo, ma questo limite chi lo decide ? Sembra che entrambi abbiano inequivocabilmente e indiscutibilmente ragione. Ma in realtà, non è così .
Esiste una sola verità, se esiste un dolore mentale, non c’è giustizia che tenga. Cosa lo decide il confine tra benessere e malattia ? Lo decide semplicemente e senza ombre di dubbio o alcun minimo equivoco, un dato certo, molto evidente ed irrinunciabile e non equivocabile, è il saper vedere e il rispetto per l’ altro, il Rispetto, che in queste storie viene ripetutamente trascurato ed omesso, sembra spregiudicatamente che tutto debba andare per forza così.
La psicopatologia consiste nel fatto che, il problema non si pone nemmeno, perché la parola “ rispetto “ non esiste nel vocabolario della malattia mentale . A tutti capita, dagli addetti ai lavori e innanzitutto ai non, di incrociare situazioni molto spiacevoli, ai limiti dell’ incredibile e dell’ assurdo, ma la “diagnosi”, la puoi fare già tu, di persona ed in diretta, da solo; gli “altri” non ne sarebbero capaci. Su quale base base potrebbero, se sono immersi nel loro stesso problema ? Comprendere il proprio limite è rendersi conto o meno di cosa sia il “Rispetto”, e se esso è presente o mancante, decide il confine e la labilità tra la salute e la malattia mentale.
giorgio burdi
ContinuaLa Mania Del Controllo
Metodo di approccio di psicoterapia dello Studio BURDI
per
SUPERARE LA MANIA (OVVERO L’ILLUSIONE) DI CONTROLLO
Cos’è la mania di controllo
La mania del controllo ovvero il bisogno di avere una continua sensazione di padronanza sulle nostre situazioni di vita e sulle persone, è in realtà strettamente correlata all’insicurezza e alla paura di non essere in grado di sostenere l’imprevisto, dove l’imprevisto viene sistematicamente rappresentato come qualcosa di negativo e minaccioso per la propria esistenza o per quella dei propri cari.
La mania del controllo ha sicuramente in parte il suo fondamento nella cultura occidentale, in cui la preoccupazione, la fretta nel raggiungimento di un obiettivo e l’angoscia per ciò che non è controllabile, sono atteggiamenti consolidati, talora riconosciuti come funzionali.
Sostanzialmente collegata alla paura della sofferenza, la necessità di controllo denota un’incapacità e una mancanza di fiducia nella propria, e in molti casi anche nell’altrui (dei propri cari), capacità di gestire le proprie emozioni, le delusioni, per cui la vita è ridotta ad un numero limitato di schemi appresi, all’interno dei quali solamente si ha l’illusione che sia possibile “sopravvivere”.
In ambito familiare possono inoltre instaurarsi collusioni dannose, in cui il ruolo di conducente-controllore viene alimentato da chi, sovrastato da sentimenti di timore e inadeguatezza, finisce per delegare la propria esistenza ad un genitore o ad un partner controllante, generando un loop vizioso e soffocante in cui controllore e controllato alimentano le reciproche prigionie.
L’illusione del controllo cela in realtà l’angoscia per una vita che, nella sua imprevedibilità viene percepita senza senso e in cui non si riesce a riporre fiducia.
Esso rivela la mancanza di un dialogo autentico con l’esistenza, dialogo in cui le prove, la delusione delle aspettative, come anche i migliori e inattesi imprevisti, possono essere dotati di senso e possono, volendolo, aprire a più ampie vedute e prospettive, a maggiore flessibilità strategica, rendendo possibile la realizzazione di obiettivi più elevati.
La mania del controllo è pertanto il sintomo di una rappresentazione ristretta e fissa della realtà, di sé stessi e degli altri, determinata dalla paura della sofferenza.
Quando la mania del controllo si manifesta dal punto di vista relazionale, l’illusione di potere e il temporaneo benessere che ne derivano, conducono alla difficoltà di instaurare interazioniprofondamente autentiche, poiché in un’ottica difensiva, tutto è sistematicamente pianificato: i propri obiettivi, i comportamenti, le reazioni degli altri.
Nella necessità di rendere gli altri e la propria realtà prevedibili, le relazioni cessano di essere stimolanti, poiché la curiosità e l’entusiasmo di esplorarsi nel rapporto hanno ceduto il passo all’evanescente, quanto illusoria sensazione di poter controllare l’altro.
Chi entra in una relazione con chi ha la mania di controllo in ambito relazionale, prova infatti spesso il disagio di chi si sente rappresentato in maniera arida, limitativa, prevedibile e funzionale, svuotato delle proprie risorse.
Tuttavia laddove la vita si presenta inevitabilmente, ad un momento o ad un altro dell’esistenza, con il suo carico di sofferenza e imprevedibilità, la mania del controllo e la rigidità psichica a questa associata possono condurre a stati di depressione e profonda sofferenza.
Come si cura
Le persone caratterizzate dalla mania di controllo, di fronte ad uno o più eventi in cui sono confrontate con l’impossibilità di controllare, sperimentano accanto alla sofferenza per l’evento oggettivo, anche la sofferenza per l’inadeguatezza della propria strategia di vita e la disperazione ed il vuoto nell’impossibilità di costruire un nuovo paradigma esistenziale.
La psicoterapia costituisce allora un valido aiuto per andare alle radici di tale sofferenza, identificando in prima battuta con il paziente, a volte inconsapevole, la presenza dell’esigenza compulsiva di controllo e le distorsioni cognitive che si celano dietro di questa.
In seconda battuta la psicoterapia può aiutare il paziente a sviluppare la capacità di rimettere le cose in prospettiva, distabilire una relazione più costruttiva e dinamica con la vita e con gli altri, in cui coltivare l’attenzione alle opportunità che le difficoltà possono rappresentare, imparando a trarne vantaggio eristabilendo in questo modo un nuovo rapporto di fiducia con la vita stessa e nelle relazioni.
In questa prospettiva la psicoterapia aiuta il paziente a liberarsi dalla morsa degli spazi delimitati, in cui venivano riprodotti sempre gli stessi schemi di comportamento, aprendo a nuovedistese aree di vita e di movimento, in cui il paziente può concedersi gradualmente la possibilità di sperimentarsi senza paura e di recuperare la propria pulsione vitale.
Sintesi a cura
Dott.ssa Laura Cecchetto
Tirocinante di Psicologia
presso Studio BURDI
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Superare l’amaxofobia (la paura di guidare)
Metodo di approccio di psicoterapia dello Studio BURDI
per
SUPERARE L’AMAXOFOBIA (LA PAURA DI GUIDARE)
Cos’è l’amaxofobia
L’amaxofobia, o la paura di guidare, è un disturbo che può presentarsi come fobia singola o può inserirsi in un quadro psicologico più ampio, spesso correlato ad altre fobie, quali l’agorafobia, la claustrofobia e ad altri disturbi ansiosi, come l’ansia generalizzata, l’ansia sociale, l’ansia di separazione.
In alcuni casi, l’amaxofobia può essere la conseguenza di un trauma in seguito ad un incidente, vissuto in prima persona o al quale si è assistito.
E’ interessante notare che la paura di guidare non è una paura senza fondamento, esiste obiettivamente un potenziale pericolo associato alla guida di un veicolo, di cui è bene essere consapevoli, tuttavia nell’amaxofobia la paura prende delle proporzioni eccessive e invalidanti, poiché il soggetto prospetta eventi catastrofici e irreparabili, spesso irrealistici.
Essa si traduce in sintomi quali tremori, sudore, nodo alla gola, battiti accelerati, difficoltà di respirazione, associate a idee angoscianti, che possono poi sfociare in veri e propri attacchi di panico.
In generale le persone che hanno questo disturbo utilizzano delle strategie di evitamento, quali l’utilizzo di altri mezzi di trasporto o la dipendenza per gli spostamenti da amici e familiari.
Tuttavia laddove le strategie di evitamento siano difficilmente praticabili, l’amaxophobia può risultare fortemente invalidante.
In molti casi la persona, terrorizzata dalla guida, finisce per dipendere da altri soggetti per i propri spostamenti, ottenendo in tal modo (più o meno consapevolmente) la vicinanza funzionale delle persone care, oppure finisce per isolarsi e chiudersi in un perimetro di oggetti vicini e familiari, potenzialmente sicuri.
Sebbene il risultato sia lo stesso in termini di incapacità oggettiva a intraprendere la guida, in pratica l’amaxofobia può sottendere paure diverse correlate alla situazione di trovarsi da soli nella gestione del mezzo: paura di perdere il controllo, di investire e/o uccidere qualcuno, di causare un incidente grave, paura della velocità, paura di non poter fuggire, paura di attraversare viadotti o tunnel, paura di allontanarsi da casa.
Possiamo dire che vi è globalmente una distorsione cognitiva in cui vi è e una sovrastima della probabilità che un pericolo importante si presenti e una sottostima della propria capacità di gestire la situazione. Anzi, in molti casi il soggetto amaxofobo, identifica nella propria persona la fonte del pericolo stesso.
L’amaxofobia va dunque a toccare una rappresentazione, quella della propria incompetenza nella gestione di una situazione specifica che implica un ruolo di “conducente”. Per questa ragione essa ha spesso anche un valore simbolico rispetto ad altri ambiti della vita.
Infatti non è trascurabile l’impatto nell’insorgenza di tale fobia, di aspetti di attribuzione di ruolo sviluppati in particolari contesti familiari e/o culturali, che devono essere presi in considerazione in modo privilegiato nell’approccio terapeutico del disturbo stesso.
Infine, nell’amaxofobia si attiva in maniera dirompente il senso della propria fragilità esistenziale, spesso rimosso in altre attività della vita quotidiana,
Questi aspetti rivelano da un lato una problematica nell’investimento interno: l’utilizzo di un mezzo di trasporto solidale con il proprio corpo, è percepito come estensione di sé e pertanto inaffidabile, incontrollabile e potenzialmente auto ed etero-lesivo. Dall’altro evidenziano anche una problematica nell’investimento esterno, dove la frustrazione derivante dagli oggetti esterni, potrebbe essere verosimilmente all’origine del proprio senso di inadeguatezza e di incompetenza.
Come si cura
Per il trattamento dell’amaxofobia, dal punto di vista sintomatico, è di fondamentale importanza aiutare il paziente a trovare quegli strumenti idonei a ripristinare il senso di sicurezza e di fiducia in sé stesso e nella propria capacità di investirsi positivamente in una realtà più ampia del perimetro consolidato.
In particolare la psicoterapia può aiutare il paziente a riacquisire la consapevolezza delle proprie competenze
-valorizzandone il potenziale
– evidenziando le distorsioni cognitive proprie, familiari e/o culturali che possono avere favorito il consolidamento del disturbo
-stimolando il superamento progressivo di alcune limitazioni che il paziente vive nella sua quotidianità e favorendo in questo modo la qualità e la quantità degli investimenti esterni
Il lavoro psicoterapeutico può essere coadiuvato dall’ipnoterapia, la cui efficacia è stata dimostrata nel trattamento di diverse fobie specifiche. Questa permette infatti di generare sicurezza nel paziente, favorendo l’accesso alla consapevolezza delle proprie paure e ad un maggiore controllo dei propri stati ansiosi a queste connessi (1).
A supporto della psicoterapia può inoltre essere presa in considerazione la terapia in realtà virtuale, VRT (Virtual Reality Therapy), che consiste nell’immergere il paziente in un’esperienza virtuale in 3D. L’esperienza di guida così riprodotta consente al paziente di affrontare progressivamente le situazioni ansiogene in un ambiente sicuro.
Qualora l’insorgenza del disturbo fosse correlata ad un’esperienza traumatica, è bene piuttosto considerare trattamenti terapeutici specifici per il trattamento del trauma come la terapia di desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari, EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) od il Somatic experiencing(2) mirate al trattamento dello stress post-traumatico e alla riduzione della carica emotiva dei ricordi disturbanti.
Sintesi a cura di:
Dott.ssa Laura Cecchetto
Tirocinante di Psicologia presso Studio BURDI
- Spiegel, E.B. (2016) International Journal of Clinical and Experimental Hypnosis, 64(1), 45-74
- Levine, P. A. (2010). In an unspoken voice: How the body releases trauma and restores goodness. North Atlantic Books.
Il Senso di Colpa Disfunzionale
Metodo di approccio di psicoterapia dello Studio BURDI
per
SUPERARE I SENSI DI COLPA DISFUNZIONALI
Il senso di colpa disfunzionale nelle relazioni e il diritto di essere felici.
Il senso di colpa è uno stato emotivo associato alla convinzione di essere all’origine di una determinata situazione negativa per sé o per gli altri.
Tale stato emotivo presuppone l’elaborazione di un giudizio di valore. Si può allora trattare di un giudizio sulla negatività di un’azione rispetto ad un valore interiorizzato o di un giudizio sulla negatività di un’azione a partire dalla percezione della sofferenza e del disagio che questa ha generato o potrebbe generare per sé o per gli altri.
Il senso di colpa implica quindi l’interazione complessa di una serie di giudizi di valore formulati sulla base della propria esperienza di vita e della propria educazione, ma anche di una serie di qualità personali, come ad esempio l’empatia, che implicala capacità di percepire e comprendere la sofferenza degli altri.
Il senso di colpa, inibendo potenziali azioni/comportamenti considerati nocivi al benessere altrui, ha dunque una funzione sociale importante in quanto incentiva un mutuo senso di responsabilità e contribuisce a regolare le relazioni in modo da rendere possibile ed utile alla sopravvivenza della comunità, la convivenza tra gli individui.
Il ruolo inibitorio del senso di colpa rispetto a pensieri ed azioni potenzialmente nocivi diventa tuttavia disfunzionale laddove il criterio di giudizio applicato è fallace e laddove un senso di responsabilizzazione eccessivo compromette la realizzazione personale.
L’individuo si trova così a reprimere pensieri ed azioni che riguardano la propria stessa sopravvivenza e la propria vitalità.
L’attitudine ad un senso di colpa disfunzionale si sviluppatipicamente in presenza di un determinato contesto sociale/ familiare che utilizza o ha utilizzato il senso di colpa come strumento di manipolazione e di controllo sull’ individuo per l’ottenimento di un comportamento voluto o per legittimare azioni/comportamenti propri illeciti di cui non si vuole o non si è in grado di assumere la responsabilità.
Non è difficile rendersi conto di quanto spesso il senso di colpa entri in gioco all’interno delle relazioni, dove in piccole o in grandi proporzioni uno o più individui si trovano a limitare la propria realizzazione, ma anche le proprie emozioni di gioia a fronte delle difficoltà o della depressione di una persona vicina.
Da notare che il senso di colpa si può manifestare non solo come emozione, sentimento di sofferenza, ma anche, nei fatti, come esperienza di auto-sabotaggio punitivo: un figlio che sabota sistematicamente le proprie relazioni sentimentali a fronte delle ansie o del senso abbandonico di un genitore dipendente, unadonna che sabota le proprie riuscite professionali a fronte del senso di inadeguatezza che potrebbe sperimentare il partner.
Da notare che il senso di colpa sottintende una sorta di locus of control interno di tipo negativo per cui il luogo, la causa della situazione negativa che accade e che potrà accadere è individuato all’interno di sé in una sorta di incapacità ad intravedere altri luoghi di responsabilità.
Chi si colpevolizza finisce così per punire sé stesso non concedendosi la libertà e gli spazi intrinsecamente necessari all’esistenza e alla realizzazione di sé: il diritto all’azione libera e creativa è negato, cosi come il diritto di essere felici.
È importante sottolineare che tale dinamica tende tanto più a radicarsi quanto più essa è coadiuvata da terzi che consapevolmente o meno, ricavano un vantaggio dall’estrema responsabilizzazione di colui che si colpevolizza.
Come si guarisce dal senso di colpa
È possibile liberarsi dei sensi di colpa disfunzionali e sistematici grazie ad un percorso psicoterapeutico adeguato.
La psicoterapia può fornire in un primo tempo gli strumenti necessari a non arenarsi sulle sensazioni provate, che tendono a mantenere l’individuo in uno stato punitivo, incoraggiando il paziente ad andare avanti e a muoversi dallo stato di immobilità psichica indotto dal senso di colpa stesso.
In un secondo tempo la psicoterapia può aiutare ad evidenziare il senso di colpa disfunzionale, identificando chiaramente le fallacie del ragionamento nelle attribuzioni di responsabilità e la sproporzione tra la gravità dell’atto/pensiero e il senso di colpa sperimentato.
Di fondamentale importanza nel quadro del percorso psicoterapeutico è circostanziare il senso di colpa, mettendo chiaramente in evidenza in quale contesto relazionale familiare questo si è sviluppato o si sviluppa attualmente.
Ciò consente di ripristinare via via un principio di realtà più funzionale alla realizzazione personale e di liberare l’individuo delle catene che gli impediscono di vivere la propria vita.
Infine la psicoterapia si presenta come strumento per la riconquista e il consolidamento dell’auto-stima e del rispetto per sé nelle scelte relative alla propria esistenza e nelle relazioni, luogo in cui maturare la consapevolezza del fatto che la propria realizzazione può essere un punto di forza fondamentale e di benessere sia per sé che per i propri cari.
Sintesi a cura di:
Dott.ssa Laura CECCHETTO
Tirocinante di Psicologia
presso Studio BURDI
Continua
Sano Egoismo
Il sano egoismo
dal greco, io esisto
Sarà capitato a tutti qualche volta di sentire le parole “sano egoismo” e forse di rimanere perplessi dinanzi a questa strana combinazione, ma è giusto etichettare l’egoismo, una caratteristica con una connotazione negativa, “sano”?
Secondo me sì però con le dovute accortezze, vi spiego il perché sto affermando questo.
Ho realizzato ciò da una seduta di terapia di gruppo dove alcune persone hanno raccontato delle loro esperienze e tutte avevano in comune un singolo fattore: la troppa disponibilità nei confronti degli altri.
L’egoismo è, purtroppo o per fortuna, necessario per proteggerci dai nostri “nemici” e/o da situazioni che fanno trascurare la nostra persona e ci limita. La troppa disponibilità crea poi degli obblighi che ci imprigionano, rendendoci succubi di essi o peggio ancora, di malintenzionati.
È però anche vero che l’essere troppo egoisti allontana le persone da noi, quindi che tocca fare?
Bisogna essere in grado di capire quando e con chi essere egoisti perché le persone si comportano in determinati modi sempre con delle motivazioni che potrebbero essere giustificate o meno.
È di fondamentale importanza quindi cercare di capire l’altra persona cosa ha intenzione di fare, sempre tenendo le dovute distanze quindi cercando di essere disponibili ma non troppo.
Basti pensare ad una relazione tossica dove voi siete la vittima, in questo caso è giusto essere egoisti e pensare a voi stessi pena il divenire succubi del vostro “caro e amato” partner che potrebbe risultare essere un potenziale carnefice se esso è una persona molto violenta e manipolatrice.
Le terapie di gruppo mi hanno insegnato che è imporante essere empatici e disponibili ma con le dovute precauzioni e non smetterò di rimarcarlo.
Avere la giusta dose di sano egoismo significa amare se stessi, preservando la propria persona. La nostra autostima cresce, permettendoci di compiere scelte con una sicurezza che prima non avevamo o non sapevamo di avere!
Essere “egoisti” ci permette di stare bene con noi stessi e voglio sottolineare una cosa che sembra stupida ma non lo è affatto:
Avere il sano egoismo non esclude l’essere altruisti nei confronti degli altri. Basta essere giusti con noi stessi e con gli altri, niente di più semplice.
Alcune persone leggeranno ciò che ho scritto e diranno che ho sbagliato, che bisogna essere gentili con gli altri, eccetera.
Da lì capirò che quelle persone sono i cosidetti martiri, individui che mettono SEMPRE gli altri dinanzi a loro, rimanendo danneggiati nel processo per poi lamentarsi con il povero cristiano di turno.
Purtroppo alcuni devono imparare a capire qual’è il confine tra sano e malsano egoismo. Ecco cosa si intende per “sano egoismo”: una potentissima arma che come tutte deve essere usata in modo responsabile e con fermezza se necessario.
Ricordate: non c’è niente di male ad amare se stessi! Io ne so qualcosa e sono orgoglioso dei risultati che sto raggiungendo
raffaele
ContinuaLa Scalata
La scalata della vita e Walter Bonatti
A volte ci dimentichiamo che la vita prima di essere un’avventura con qualcun altro è un avventura con noi stessi, alla scoperta dei nostri limiti e verso il loro continuo superamento.
In questa avventura la precarietà della vita e molto spesso le relazioni con gli altri ci mettono alla prova e rappresentano dei veri e propri challenge.
Molto spesso siamo tentati di pensare che tali challenge non dovrebbero esserci e che il fatto che vi siano, sia la dimostrazione che abbiamo sbagliato qualcosa o che qualcun altro abbia sbagliato qualcosa.
Entriamo cosi’ in un loop di colpevolizzazione nostra o degli altri, generatore di sofferenza, dal quale non riusciamo ad uscire.
Spesso inoltre ci inganniamo pensando che per gli altri non vi siano challenge da superare.
Walter Bonatti, alpinista, fine stratega della montagna, autore di indimenticabili imprese negli anni ‘50, raccontava come di fronte ad una parete che improvvisamente si presentava liscia e senza appigli, fosse costretto ad ingegnarsi per inventare punti di aggancio, che a prima vista non sembravano tali, a ricercare nuove strade, spesso lasciandosi dondolare nel vuoto come un pendolo per ampliare la prospettiva.
Walter Bonatti nelle sue scalate era animato dalla ferma convinzione che il nuovo appiglio, il nuovo passaggio, seppur momentaneamente nascosto alla vista, fosse lì, alla sua portata, da qualche parte e gli avrebbe aperto la strada verso la vetta.
La relazione di Bonatti con la montagna è una metafora della relazione dell’uomo con la vita, in cui sforzo, solitudine, solida preparazione psico-fisica, consapevolezza degli ostacoli che si presenteranno e capacità di tollerare la sofferenza sono coltivati grazie ad una profonda fiducia nel fatto di essere destinato alle “altitudini”, in cui fantasia e creatività si dispiegano e fanno sentire l’uomo pienamente vivo.
Fondamentali erano per Bonatti gli attrezzi che egli portava con sé e che sapeva adattare alle esigenze del momento.
Anche ognuno di noi nasce e cresce con una cassetta degli attrezzi, quando ci sentiamo persi è spesso perché abbiamo dimenticato di possederne una, abbiamo perso la fiducia nella nostra capacità di utilizzarla e nel fatto che lì dentro vi può essere quanto ci serve, ma soprattutto abbiamo smesso di credere che quelle “altitudini” sono sempre alla nostra portata, in modi diversi, indipendentemente dalla nostra età e dalla nostra momentanea situazione di vita.
La psicoterapia ci può aiutare a ricordare che abbiamo una cassetta degli attrezzi e a scavare nella nostra cassetta alla ricerca dello strumento giusto, che è solo nostro.
Si tratta di un percorso che se da un lato implica la consapevolezza della nostra solitudine di fronte agli ostacoli,dall’altro ci fa prendere coscienza della nostra forza e delle nostre risorse e ci aiuta a rimanere allenati per nuove sfide e a meglio riconoscere e a scegliere i nostri più validi compagni di cordata.
Anche noi come Bonatti, alpinisti della vita, dobbiamo ogni tantoalzare lo sguardo per ricordarci che la nostra vetta ci attende e, quando serve, farci dondolare come un pendolo per ampliare le prospettive, spostarci anche solo per un istante da ciò che non ci fa andare avanti, perché la prima e la più importante azione della vita è cambiare lo sguardo, avere fiducia nel fatto che sempre nuovi percorsi interiori od esteriori sono alla nostra portata per raggiungere le nostre cime.
Dobbiamo credere che la vita, come la montagna per Bonatti, ci fornisce gli ostacoli, ma anche quegli strumenti, quegli appigli,quei passaggi, tanto più perigliosi, quanto liberatori.
Dott.ssa Laura Cecchetto
Tirocinante di Psicologia presso lo Studio BURDI
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