Il raccordo degli accordi
Il raccordo degli accordi
Puoi chiamarlo accordo ma in realtà è puro “raccordo”.
Ti ritrovi la al centro di diverse correnti, strade, vicoli.
Le abitazioni sono pensieri, sensazioni, punti di vista, prese per mano o spinte di pugno, occhi che cercano o sguardi che allontanano.
Alcune le gradisci e altre meno, alcune le subisci e altre meno ma se non ci fossero non esisterebbe “raccordo” e non esisterebbero strade e nessuna vista, pensiero, occhi o sguardi.
Gli spazi, i tempi, le passioni, le preferenze, i sapori e i dissapori, diventano suoni.
E nel percorso non esiste stridore perchè tutto è colore,
perchè tutto è leggero, perchè ogni cosa ha il suo odore, e con la stessa semplicità attraverso il quale respiri, scegli di percorrerlo oppure no, scegli di deviarlo oppure no.
Un giorno canti mentre gli alberi svolazzano, quello dopo sorridi mentre le persiane dei palazzi si incazzano.
Tutto è suono e tu sei musica, fuori di te le note e dentro di te le corde, e poi tutto è musica e tu sei suono, fuori di te le corde e dentro di te le note… non sai e non vuoi sapere quale sia il punto d’incontro, non t’importa definire ciò che vi unisce.
Il tuo contrario è solo un palindromo e il tuo dissapore solo una scusa per invertire marcia e ripercorrervi ancora.
Non è importante conoscerne i perchè e i per come, la domanda è ignorata, la spiegazione sopravvalutata, la teoria schernita, perchè la vibrazione vince sulla partita.
“Io vibro quando sto bene.
Io vibro quando sto male.
Io vibro quando STO.
Se stai bene, se stai male, se anche tu STAI.
Ti va di vibrare un po’ con me?”
carmen de gironimo
ContinuaSuperare l’ansia anticipatoria
Metodo di approccio di psicoterapia dello Studio BURDI
per
SUPERARE L’ANSIA ANTICIPATORIA
Cos’è l’ansia anticipatoria
L’ansia anticipatoria è spesso un sintomo correlato ad altri disturbi ansiosi, come l’ansia generalizzata, l’ansia sociale, l’ansia di separazione, che può anche essere correlato a particolari tipo di personalità come ad esempio la personalità evitante o dipendente.
In generale si può definire come una forma di angoscia proiettata esclusivamente verso il futuro e più precisamente, come per altri disturbi di ansia, si manifesta come una paura di essere sorpresi da un evento “orribile” (secondo il sistema di valori di chi la prova) in grado di generare a sua volta una paura insostenibile: si tratta quindi di una paura della paura.
Il sintomo dell’ansia anticipatoria sussiste in quanto, seppur generando una grande sofferenza, fornisce una momentanea illusione di poter scampare all’evento orribile e alla paura, preoccupandosene anticipatamente.
Nel contesto culturale in cui viviamo anticipare il futuro per essere pronti alle eventualità della vita è un atteggiamento considerato normale. Immaginare di aver previsto e di essere quindi in grado di gestire le varie possibilità ha un effetto rassicurante e consente di affrontare con un certo margine di serenità sia lo svolgimento delle attività quotidiane, sia altre attività più eccezionali come fare una presentazione in pubblico, partire in viaggio, cambiare un lavoro etc.
Considerate quindi le premesse culturali che in qualche modo coadiuvano la comparsa di questo tipo di disturbi, nel caso specifico le persone che soffrono di ansia anticipatoria sono persuase del fatto che naturalmente l’eventualità più probabile nel futuro sarà anche la peggiore.
Queste persone immaginano sistematicamente che il peggio sarà ciò che sicuramente accadrà loro rimanendo in questo modo sommerse dalle sensazioni di impotenza e di orrore che scaturiscono dalle proprie proiezioni.
Inoltre molto spesso l’evento temuto finisce proprio per concretizzarsi a causa dell’ansia e del turbamento che pervadono la persona nel momento in cui si trova nella situazione da affrontare e il cui scenario catastrofico era stato immaginato precedentemente.
Bloccate e sofferenti dal punto di vista psicologico, per evitare la paura il paziente mette in atto una serie di strategie disfunzionali (evitamento delle situazioni, ricerca permanente del sostegno esterno etc.)che hanno come risultato quello di amplificare la sensazione di mancanza di controllo e quindi la paura stessa, inficiando fortemente la qualità della vita.
Come si cura
Per poter affrontare le problematiche invalidanti legate all’ansia anticipatoria e alla paura è bene tener conto del fatto che la paura è il risultato di un meccanismo di difesa ancestrale, messo in atto dalla componente più arcaica del nostro cervello sulla quale la parte più evoluta ha un debole controllo. Inoltre, è necessario considerare che l’ansia anticipatoria, seppur disfunzionale, è a sua volta una strategia di difesa dalla paura stessa.
Lavorare sulla razionalizzazione delle proprie paure risulta quindi molto spesso infruttuoso, mentre risalire alle cause della paura può da solo non essere sufficiente a scardinare una strategia difensiva consolidata da tempo.
Gli approcci terapeutici oggi più efficaci per il trattamento dei disturbi ansiosi, lavorano pertanto su altri aspetti che riguardano l’accettazione delle proprie emozioni e la realizzazione concreta attraverso il vissuto, di un nuovo modo di relazionarsi con la realtà che va a scardinare operativamente le vecchie strategie disfunzionali (1). Illustriamo qui brevemente i punti principali di tali approcci:
–Il riconoscimento della funzionalità del sintomo ansioso come strategia di difesa dalla paura.
Il riconoscimento della funzione strategica di ciò che si sta vivendo, consente una parziale distanziamento dal sintomo, nel nostro caso l’ansia anticipatoria, e apre in qualche modo all’esistenza di altre strategie possibili. Questo lavoro di consapevolezza può essere coadiuvato dalla compilazione di un diario di bordo, supervisionato dal terapeuta.
–Il lasciare lo spazio alla paura e entrare in contatto con le sensazioni che anche a livello fisico questa genera.
Accettare di avere paura e lasciare a questa emozione lo spazio di esistere, consente di allentare le tensioni aggravate dai tentativi infruttuosi di rimuoverla.
Particolarmente rilevanti per lo sviluppo di tale attitudine sono i protocolli terapeutici mindfulness-based.
Diversi studi di neuroscienze hanno in effetti messo in rilievo l’importanza dello sviluppo della consapevolezza delle proprie sensazioni fisiche nel momento presente e della relazione corpo/emozioni nel ripristino di un controllo da parte del cervello più evoluto, la nostra corteccia, sul cervello primitivo.
In particolare le pratiche basate sulla mindfulness sono in grado di incrementare la capacità di regolazione delle proprie emozioni (2) ed hanno un effetto positivo sulla capacità di inibire il comportamento automatico e reattivo(3),
-Il rimodellamento della percezione della realtà e di sé stessi per attuare nuove modalità di interazione
Ciò viene realizzato favorendo nel paziente la consapevolezza che vi sono diverse rappresentazioni possibili e promuovendo l’attuazione di azioni e comportamenti concreti più funzionali, attraverso suggestioni terapeutiche.
Sintesi a cura di:
Dott.ssa Laura Cecchetto
Tirocinante di Psicologia presso Studio BURDI
- Nardone, G. (2010). Paura, panico, fobie. Ponte allegrazie.
- Tang, Y. Y. (2017). The neuroscience of mindfulness meditation: How the body and mind work together to change our behaviour.
- Pozuelos, J. P., Mead, B. R., Rueda, M. R., & Malinowski, P. (2019). Short-term mindful breath awareness training improves inhibitory control and response monitoring. Progress in brainresearch, 244, 137-163.
Superare l’ipocondria
Metodo di approccio di psicoterapia dello Studio BURDI
per
SUPERARE L’IPOCONDRIA
Cos’è l’ipocondria
La caratteristica fondamentale dell’ipocondria o ansia di malattia, è la preoccupazione o la persuasione di essere gravemente malati al minimo sintomo fisico sospetto.
L’aspetto fondamentale dell’ipocondria è che tale convinzione persiste a dispetto delle rassicurazioni mediche e di esiti diagnostici negativi.
Di fatto è corretto parlare di ipocondria solo nel caso in cui le valutazioni mediche abbiano consentito di escludere la malattia reale, sebbene vi possano essere forme di ipocondria legate ad un’ansia eccessiva in presenza di un disturbo organico non grave.
Se i problemi di salute possono essere immaginari, di fatto l’angoscia che questi generano non lo è e l’ipocondria è un serio disturbo in grado di inficiare gravemente la qualità della vita di una persona.
Cause dell’ipocondria
L’ipocondria è un disturbo complesso le cui cause possono essere difficili da stabilire.
Secondo la teoria psicoanalitica di Freud(1) all’origine dell’ipocondria vi sarebbe la frustrazione legata all’impossibilità di trovare il soddisfacimento delle proprie pulsioni in oggetti esterni; ciò comporterebbe a lungo termine l’investimento in oggetti di natura interna, nel caso particolare il corpo, il soma.
La libido, parzialmente ritirata dagli oggetti esterni viene investita nel corpo, che diventa pertanto ciò che consente di mantenere e di scaricare la propria energia pulsionale.
Il ruolo vitale assunto dal corpo in questo senso determinerebbe a lungo termine la forte preoccupazione per la sua deteriorazione e la paura della malattia.
All’origine del disturbo vi sarebbe quindi prevalentemente la frustrazione derivante dagli oggetti esterni, tipicamente vissuti di trascuratezza, un ambiente familiare assente o falsamente presente nella fase dello sviluppo.
Da notare che l’ipocondria può essere accentuata in situazioni di allontanamento dagli oggetti familiari e può riguardare il proprio corpo o quello delle persone care, dei figli.
Quest’ultimo aspetto è particolarmente rilevante in quanto pone l’accento sulla possibile trasmissione familiare/transgenerazionale dell’ipocondria e del modello di relazione oggettuale tipicamente ipocondriaco.
Ciò delinea pertanto tra le possibili cause dell’ipocondria, anche quella di un disturbo mutuato da figure parentali o figure significative dell’ambiente familiare.
Infine il ri-orientamento dell’investimento oggettuale da esterno ad interno, può insorgere anche come conseguenza di un trauma, legato ad una minaccia esistenziale personale o assistita in una fase precoce dello sviluppo: l’aver sofferto di una malattia o l’aver assistito alla malattia grave o al decesso di una persona cara.
La consapevolezza precoce della morte e della precarietà esistenziale, in assenza degli strumenti per fronteggiare le angosce che queste generano, possono tradursi in un ritiro dell’investimento esterno e in un ripiegamento sull’oggetto interno, il corpo, nel tentativo di ripristinare una forma di controllo che di fatto rimane permanentemente insoddisfatta.
Sintomi dell’ipocondria
L’ipocondria si manifesta in maniera costante con l’eccessiva preoccupazione per la presenza di dolori di vario tipo (crampi muscolari, dolori viscerali etc.) o alterazioni fisiche di lieve entità (macchie sospette, raffreddori etc.), ma si può manifestare anche sotto forma di vere e proprie crisi di angoscia.
La minima manifestazione fisica è interpretata dall’ipocondriaco come sintomo di una malattia grave, potenzialmente mortale.
Spesso è proprio la paura di essere malati a generare alcune reazioni fisiche (giramenti di testa, palpitazioni), fino alla crisi di angoscia acuta o all’attacco di panico.
Per essere rassicurato il paziente ipocondriaco consulta spesso siti internet e blog che trattano le tematiche della salute o si sottopone a ripetuti controlli medici.
Sebbene più raramente, alcune persone ipocondriache evitano i medici, con il rischio di non rilevare e non curare una malattia reale.
Per chi soffre di ipocondria, il timore della malattia costituisce un elemento essenziale della propria identità, attraverso cui questa si esprime, per cui spesso i sintomi diventano una forma di risposta agli stress esistenziali.
Cura dell’ipocondria
La presa di coscienza del disturbo è da considerarsi già un primo passo del processo terapeutico.
La psicoterapia può aiutare in prima istanza il paziente a controllare la sintomatologia, attraverso il rispetto di una serie di regole e l’applicazione di alcune strategie.
In seconda istanza la psicoterapia può consentire al paziente di assumere una nuova consapevolezza del disturbo in relazione alla propria storia personale e familiare, e ad individuare quali elementi della propria vita presente siano in grado di alimentare o ridurre i sintomi, agendo su di questi.
In alcuni casi la psicoterapia, può operare nel senso di una maggiore familiarità con l’idea della malattia e dell’ineluttabilità della morte, incoraggiando ad esempio il paziente a recarsi al cimitero per esporsi alla realtà e ridurre le ruminazioni che di fatto non sono in grado di evitare il pericolo.
Relativamente alle regole e alle strategie di controllo dei sintomi è molto importante che il paziente impari a sottrarsi alla consultazione compulsiva di pagine di informazione e blog sulla salute in internet, e a resistere al desiderio, magari rimandandolo, di effettuare ripetute attività di autoverifica del proprio stato di salute, come sentirsi il polso, controllare la temperatura etc. che non fanno altro che alimentare l’ansia, il timore della malattia e la prospettiva di scenari catastrofici.
Nel quadro del lavoro terapeutico è di importanza strategica lo sviluppo nel paziente di un atteggiamento di osservatore rispetto al decorso dei sintomi, in particolare imparando a riconoscere quando questi si acuiscono, in corrispondenza di quali eventi/situazioni. Può essere utile eventualmente annotare quotidianamente alcune di queste osservazioni. Diventare l’osservatore attivo e non passivo del proprio sintomo, consente infatti di iniziare a mettere una certa distanza tra sé e il sentimento di paura che questo genera.
Questa qualità di osservazione può essere favorita in particolare, oltre che dal dialogo psicoterapeutico, dai protocolli Mindfulness per la riduzione dell’ansia e dello stress (Mindfulness Based Stress Reduction), che hanno ottenuto notevoli riscontri anche nel trattamento dell’ipocondria (2).
Anche la pratica di attività fisica costituisce un valido aiuto nel processo terapeutico. Questa infatti può contribuire a ritrovare sensazioni fisiche reali e a recuperare una relazione di fiducia con il corpo e una visione di questo come veicolo di benessere e non solo di malattia. Particolarmente indicate sono la pratica dello yoga e delle arti marziali (3), che richiedono un’elevata consapevolezza e padronanza del corpo, alcune di queste attività sono incluse di fatto nel quadro dei protocolli Mindfulness.
In generale è importante adottare una buona igiene di vita e trovare altri centri di interesse oltre alla salute, fissandosi ad esempio degli obiettivi diversificati.
Infine laddove l’ipocondria si potesse correlare ad un vissuto traumatico, è utile il ricorso alla terapia di Desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari, EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) una terapia mirata al trattamento dello stress post traumatico basata sull’utilizzo di movimenti oculari ed altre tecniche di stimolazione con lo scopo di ridurre la carica emotiva di ricordi disturbanti.
Sintesi a cura di:
Dott.ssa Laura Cecchetto
Tirocinante di Psicologia presso Studio BURDI
1.S.Freud: Introduzione al Narcisismo, Opere, Boringhieri, Vol 7
- Chappell, A. S. (2018). Toward a lifestyle medicine approach to illness anxiety disorder (formerly hypochondriasis). American Journal of Lifestyle Medicine, 12(5), 365-369.
3 Zhang, J., Qin, S., Zhou, Y., Meng, L., Su, H., & Zhao, S. (2018). A randomized controlled trial of mindfulness-based Tai Chi Chuan for subthreshold depression adolescents. Neuropsychiatric disease and treatment. Neuropsychiatric disease and treatment, 14, 2313.
ContinuaL’abbraccio
La struttura ossea del carattere
Quando abbracci, non ti slanci semplicemente verso una persona,
ma abbracci la sua storia. Abbracci il suo vissuto, la sua sofferenza, le sue fatiche, la sua caparbietà la capacità di cadere e di rialzarsi, quando abbracci una persona abbracci la sua anima, la sua vicinanza a se, alla sua umanità, tocchi a pelle l’ empatia, ma fa vibrare anche te, ti rende migliore, ti lascia tanto più vicino a te. C’è la divinità in un abbraccio.
È un effetto che non lo raccogli solo con chi ti è più vicino, ma innanzitutto con chi non conosci, è tanto più diverso da te, un abbraccio distrugge le distanze, quelle ideologiche, religiose, quelle del buono o del cattivo, del ricco o del barbone, anzi quello più lontano lo avverti tanto più vicino perché la lontananza in un abbraccio azzera i formalismi, sperimenti l’ essenziale, la nudità di essere umani.
L’ abbraccio è irrefrenabile, non è programmabile, tranne nei convenevoli, nasce da una potenzialità calamitosa emotiva, azzera in un istante l’ impossibile, l’ irraggiungibile, i due si ritrovano in uno, diventa un incontro in un numero uno compassionevole. Esso rappresenta la più elevata partecipazione extra verbale alla vita dell’ altro, si fa incastro, sentire profondo, supporto, presa in carico, condivisione, l’ abbraccio è ricevere la sensazione della squadra intorno a se.
L’ abbraccio, più duraturo è, più produce serotonina, ossitocina, gli ormoni del piacere e dell’ amore, rappresenta l’ anti stress, un mio rilassante ed un conforto naturale. Una terapia del dolore.
Esso più dell’ alimentazione, del denaro o del tetto, rappresenta il cibo della rassicurazione, del non essere solo, dell’ auto stima, del patto nelle relazioni. Una persona senza abbracci, sviluppa cattiveria, fobia sociale, anaffettività, si imbarazza e si vergogna per la sua inadeguatezza.
Senza gli abbracci si snatura in una dispercezione ed una distorsione del se corporeo, ci ci si guarda ed osserva di meno, avvia processi dismorgobici. L’ abbraccio possiede una radice onto genetica auto aggregante, è pulsionale ed istintivo; responsabile dell’ abbraccio è la sostanza reticolare del nostro snc, che ricerca insistentemente gratificazioni;
Il bimbo che piange per essere preso in braccio, istintivamente richiede rassicurazioni; nella fase della prima infanzia, le rassicurazioni mancate, dell’ abbraccio, predispongono, nel richiederle per tutta l’ esistenza o al distacco.
Secondo Bion, l’abbraccio rappresenta quel contenitore che placa frustrazioni ed angosce, che in esso verrebbero scaricate e condivise, generando il senso di pacatezza e protezione.
L’ abbraccio rappresenta una forma di dedizione all’ altro, è il punto di confine e di neutralità tra egoismo ed altruismo, la partecipazione diviene congiunzione e disgregazione della solitudine.
La sensazione fobica e fastidiosa della solitudine è la difficoltà di incontrare se stesso, percepito come estraneo a sé, verso il quale avverte la vergogna e l’ imbarazzo tipico per l’ estraneo.
Il primo estraneo che il bambino potrebbe aver subito è la madre o/e il padre distanti, tali da percepire l’ estraneità rispetto a se stessi e pertanto percepire la propria solitudine.
L’ abbraccio, pertanto, in psicologia rappresenta quel primo cibo mentale, l’ amore per sé, fortificante come gli elettroliti, le proteine e i carboidrati, tali da costituire la struttura ossea robusta del carattere del soggetto.
giorgio burdi
Psicologo Bari – Psicoterapeuta Bari
SUPERARE LA DISMORFOBIA
Metodo di approccio di psicoterapia dello Studio BURDI
per
SUPERARE LA DISMORFOFOBIA
Cos’è la dismorfofobia
La dismorfofobia è un disturbo ossessivo dell’immagine corporea spesso poco conosciuto e dunque poco diagnosticato, che presenta aspetti comuni ad altri disturbi dello spettro ossessivo compulsivo.
Il corpo è al centro delle preoccupazioni, in particolare si ha fissazione su una o su più parti del corpo che sono percepite e considerate come imperfette, difettose.
Le preoccupazioni riguardano principalmente il viso, ma possono riguardare anche altre parti del corpo, diverse nel corso del tempo.
Ad esempio i pazienti possono temere una perdita di capelli, le rughe, le cicatrici, una peluria eccessiva, oppure possono focalizzarsi sulla forma e le dimensioni del naso, della bocca, dei denti, delle orecchie, del seno etc.
Il difetto, che può essere oggettivamente insignificante, viene percepito in maniera esagerata e catastrofica. Si riscontra infatti nei pazienti un fenomeno di alterazione della percezione, come se la parte del corpo incriminata fosse sproporzionalmente ingrandita e tirata fuori dal contesto del resto del corpo, il cosiddetto effetto zoom. Di conseguenza anche le preoccupazioni che questa suscita risultano sproporzionate rispetto alla realtà e finiscono per invadere i pensieri e la vita del paziente fino a diventare invalidanti.
Poiché vi è la convinzione che la propria percezione sia corretta, i pazienti sono ossessionati dalla paura che gli altri possano vedere il difetto, con conseguenze che potrebbero essere catastrofiche, quali la ridicolizzazione o addirittura l’abbandono.
Per neutralizzare l’angoscia generata da tali paure il paziente è portato a mettere in atto una serie di strategie e di comportamenti, come ad esempio l’osservare, il correggere o il nascondere compulsivamente il difetto o l’evitare le relazioni con gli altri, strategie che riducendo le occasioni di confronto con la realtà, hanno spesso come risultato quello di alimentare ulteriormente la sofferenza e la paura.
Cause
Dal punto di vista psicologico si ritiene che il disturbo della dismorfofobia sia legato a problematiche dello sviluppo identitario della persona.
Possiamo dire che l’identità di una persona sia il risultato del temperamento e delle relazioni, delle esperienze di vita che si intrecciano inesorabilmente dando un risultato unico.
Nel caso della dismorfofobia la propria apparenza acquisisce un peso sproporzionato nella definizione della propria identità. I pazienti sono eccessivamente esigenti verso se stessi, in un’estenuante e frustrante ricerca di perfezione e di ideali fisici impossibili. Spesso timidi e ansiosi, essi temono l’intimità e la prossimità affettiva. Quest’ultimo aspetto legato alla fondamentale paura di essere respinti o abbandonati può essere abilmente celato da un apparente disinteresse o distacco emotivo nelle relazioni affettive.
E’ inoltre presente una fondamentale scarsa stima di sé, i pazienti inoltre sottovalutano spesso la propria bellezza e sopravvalutano quella degli altri.
Si ritiene che all’origine del disturbo possano esservi delle esperienze ad elevato impatto emotivo vissute nella fase dello sviluppo, come cadute o umiliazioni in pubblico, ripetute considerazioni e battute subite riguardo il proprio aspetto fisico.
Rilevanti per il disturbo sono anche traumi di tipo relazionale o relazioni poco gratificanti all’interno e/o fuori dal nucleo familiare, l’aver sperimentato ripetutamente un non sentirsi abbastanza che, proiettato nel dettaglio fisico difettoso, fondamentalmente incorreggibile, continua a perpetuare la frustrazione e l’insoddisfazione.
Oltre alle cause psicologiche della dismorfofobia, non vanno trascurati i fattori culturali che esercitano una forte pressione verso un modello di bellezza unico ed irrealistico e i fattori di tipo neurobiologico che possono coadiuvare il disturbo.
In particolare alcune ricerche hanno evidenziato nel caso della dismorfofobia l’esistenza di deficit a livello del trattamento visivo globale dell’immagine e a livello dell’interpretazione delle espressioni facciali e delle emozioni altrui, fattori che contribuiscono ad alimentare la persistenza del disturbo.
Sintomi:
Il paziente passa generalmente diverse ore al giorno a preoccuparsi dei propri presunti difetti e spesso pensa di essere osservato e ridicolizzato per questo dagli altri.
La maggior parte dei pazienti si guarda spesso allo specchio, alcuni lo evitano, altri alternano i due comportamenti.
Altro tipo di comportamento compulsivo è il confronto del proprio aspetto con quello degli altri, e l’uso, per mascherare i difetti, di cosmetici, cappelli o indumenti ampi e coprenti.
Molti intraprendono trattamenti dermatologici o chirurgici non risolutivi che al contrario spesso producono il risultato di intensificare le preoccupazioni.
Le persone affette da dismorfofobia sono a disagio a causa del proprio aspetto fisico e possono evitare per questo di uscire in pubblico. Le attività scolastiche, lavorative e sociali ne possono risultare parzialmente o gravemente compromesse. Alcune persone escono solo di notte, alcune non escono affatto.
Sono spesso presenti sentimenti ed emozioni caratterizzate da ansia e depressione, più a meno pronunciate. Nei casi più gravi possono manifestarsi comportamenti suicidari.
Il grado di consapevolezza del disturbo è generalmente assente. La maggior parte dei pazienti è sinceramente convinta che la parte del corpo incriminata sia non attraente o addirittura ripugnante. Nei casi più gravi si possono osservare anche derive verso convinzioni deliranti.
Cura
Per il trattamento della dismorfofobia è necessario lavorare su diverse dimensioni del disturbo, quella cognitiva, quella emotiva e quella motivazionale.
Il lavoro sulle consapevolezze di ordine cognitivo/percettivo
Per la cura della dismorfofobia è essenziale lavorare con il paziente sulla presa di coscienza del disturbo, in particolare sulla componente relativa alla percezione visiva alterata del proprio corpo e sugli errori cognitivi che questa visione comporta, errori che si riflettono sulla rappresentazione distorta di sé, degli altri e della realtà.
In particolare il contesto terapeutico deve aiutare il paziente a familiarizzare con il concetto di realtà oggettiva e rappresentazione della realtà e a prendere coscienza della differenza tra le due, nei vari ambiti dell’esistenza ed in particolar modo nell’ambito del disturbo.
In particolare il processo comprende l’identificazione delle distorsioni cognitive, la messa in dubbio delle percezioni e delle credenze che il paziente ha sul proprio aspetto fisico, l’acquisizione di una visione più equilibrata (effetto di riduzione dello zoom patologico) e l’apertura a nuove possibilità.
Il lavoro sulle consapevolezze di ordine attitudinale/emotivo
Altri aspetti fondamentali nella cura della dismorfofobia sono:
il coming out delle componenti attitudinali ed emotive sottese alla percezione distorta, fonte di sofferenza, quali la scarsa stima di sé, la paura di essere giudicati e abbandonati;
la presa di coscienza delle radici di tali attitudini/emozioni, tramite la ricostruzione della storia del loro sviluppo.
La definizione delle motivazioni al cambiamento
Il riconoscimento del fatto che l’eccessivo perfezionismo e l’ipersensibilità al cambiamento, eretti come baluardo di protezione dal giudizio altrui e dall’abbandono, trascinano inesorabilmente il paziente in un loop che alimenta il proprio senso di inadeguatezza e legittima in qualche modo il potenziale tanto temuto abbandono, rappresenta un fattore motivazionale essenziale per il cambiamento da operare nell’ambito terapeutico.
E’ importante che queste ed ulteriori motivazioni siano definite chiaramente dal paziente con l’aiuto del terapeuta e che le eventuali progressive conquiste siano valorizzate via via nell’ambito del percorso.
Sintesi a cura di:
Dott.ssa Laura Cecchetto
Tirocinante di Psicologia presso Studio BURDI
L’ ODIO
L’odio: un’emozione insolita, pericolosa per la salute
Questo è un tema molto antipatico e ostico da trattare, sul quale esiste poca letteratura. L’etimologia del termine odio deriva dal greco ὠθέω (otheo) colpire, ferire, = respingere, e dal latino odium. repulsione, rifiuto, allontanamento; possiede, a mio avviso, una connotazione più emotiva derivante da due desinenze, ( o ) stupore e ( dio ) sgomento che invoca. L’ odio si genera come una invocazione di terrore e di paura, una richiesta di esortazione e di aiuto disperato, dettata dallo sgomento che porta ad impreca, oddio.
L’ odio reclama l’ invocazione verso il bene assoluto, al senso di giustizia, verso il padre tutelatore degli equilibri, per mezzo di una paura che non da via di scampo. L’ odio è una emozione potentissima, ma fortunatamente rara per il suo genere, rispetto alle altre molto più presenti.
In virtù di quella intelligenza umana, orientata prevalentemente verso la bontà, per via dei fattori della civilizzazione, della socializzazione e del rispetto civico dell’ uomo, l’ amore e il rispetto per il proprio simile, sono di gran lunga più presenti e superiori al sentimento dell’odio. Basta considerare il numero dei dittatori, degli anti sociali e dei narcisisti patologici presenti sul globo, rappresentano una percentuale insignificante rispetto a tutta la sua specie.
Personalmente abbiamo raramente e tanto meno odiato, rispetto a quanto abbiamo voluto bene e cercato la serenità. L’ odio è uno dei più potenti precursori delle malattie psicosomatiche, generatore di inquietudine, di fortissime ansie e di squilibrio personale, esso fa ammalare; abbiamo provato tante più paure, sofferenze, disgusti e gioie, ma raramente l’ odio, questo perché possediamo una naturale inclinazione verso quelle pulsioni positive relative dettate alle gratificazioni, dal piacere e dall’’ integrazione sociale.
In realtà l’estremizzazione della ricerca del piacere, del potere, le cattive valutazioni, e le proiezioni, conducono alle condizioni che generano l’odio.
L’ emozione dell’odio emerge come grido disperato per condizioni di prepotenza, prevaricazione, soperchieria, sopruso, torto che rivendicano la giustizia, l’odio, rappresenta una resa finale.
L’ odio rappresenta la consapevolezza che non c’è più nulla da fare, che tutto è stato compiuto e, tentato e ritentato, non vede speranza per una prospettiva futura. Esso è il confine tra la versatilità e l’ irreversibilità in una relazione. Chi odia, è convinto delle proprie convinzione e del torto subito, delle controversie senza precedenti, è consapevole di aver investito tanto, ma sorpreso dell’ avversione inaspettatamente subita.
L’odio si manifesta difronte all’ irriconoscenza, alla subdola manipolazione. Viene manifestato innanzitutto verso un crimine, un omicidio, un sequestro, un furto, o una violenza sessuale. L’odio è comunque un meccanismo auto protettivo che pone un confine tra salute e malattia, ma la persistenza nell’ odio diviene, come detto, il precursore della malattia .
Chi giunge all’ emozione estrema dell’ odio, brama vendetta, per una giustizia che non ha avuto seguito, l’odio in se nella sola manifestazione emotiva è auto giustiziera, non si da pace fintanto che non vedrà l’ aguzzìno steso, non si va comunque da nessuna parte perché produce manifestazioni psicologiche come le condotte magiche, superstiziose, esoteriche, pensieri con ritualità magiche, con epiteti, bestemmie, maledizioni, con fattucchieri, maghi, l’odio richiamo l’ odio, la vendetta, è attivare un boomerang che prima o poi ritorna con la distruttività, l’ omicidio, condizioni fuori da qualsiasi logica umana, nel tentativo oscuro di procurare del male. Il bene prolifera il bene.
Chi si fa odiare o chi odia, vive malissimo, vive nella nebbia, nella tempesta, nella confusione mentale, vive per un sola dimensione, far soffrire e farla pagare; l’ altro, diventa la propria ossessione, posseduto dai demoni dei propri pensieri intrusivi , vive sui pezzi di vetro, non vive affatto, è inquieto, ansioso, pauroso, persecutore e perseguitato.
L’ odio si annulla qualora ci si lascia persuadere e arrendere al dialogo, disposti ad oltrepassare le proprie posizioni nette ancor prima di una tragedia; l’ odio si elude se si è disposti a porsi anche sulle prospettive altrui, se si nutre il dubbio che le proprie non siano assolute, se ci si mette in discussione, disponibili nel riconoscere il proprio dogma. La vendetta o e la giustizia non è mai del tutto risolutiva, perché accompagnatrici del senso di colpa, altro precursore successivo della malattia .
È necessario lasciar andare, distaccarsi, seppellire, vivere nella prospettiva di una risoluzione, che è la prospettiva dell’ amore di se, ritornare alla propria buona natura, li dove è possibile, ripercorrere l’ opportunità del coraggio di dialogare, per ritornare all’ amore verso gli altri. Chi non capisce il bene che c’è, vede ovunque il male che non c’è. Per poter ritrovare il valore della vita degli altri, è necessario ritrovare la quiete di sé, l’ odio non fa affatto bene alla salute di nessuno, di chi odia e dell’ odiato, la parola, il dialogo curano la salute, anche se pur giungono alla sola indifferenza.
giorgio burdi
Continua
IL DIRITTO DI DELUDERE
Tutti abbiamo paura di deludere gli altri e soprattutto i nostri cari, così come di deludere noi stessi.
Ci poniamo continuamente obiettivi, scopi e aspettative che dobbiamo soddisfare, altrimenti ci sentiamo sconfitti. Questo significa che più obiettivi e traguardi raggiungiamo, più siamo validi come persone, o più amore ci meritiamo dai nostri cari?
Alcune persone confondono la lode con l’amore, ma essere lodati non significa essere amati. Spesso cerchiamo l’approvazione nella lode degli altri, il che ci rende troppo esigenti con noi stessi, e questo genera in noi una quantità molto alta di stress e ansia. Non possiamo essere perfetti. Spesso non raggiungere un obiettivo crea in noi un sentimento di inferiorità, di non essere adeguati, e la paura di essere rifiutati. Un fattore molto importante è che l’ambiente intorno a noi sia accogliente, aperto al cambiamento e all’apprendimento lungo la strada. La constatazione dell’impossibilità di essere ‘perfetti’ genera frustrazione e incide pesantemente sull’autostima del individuo.
Stabilire degli obiettivi è un meccanismo di adattamento e ci aiuta ad aumentare la nostra motivazione e a focalizzare la nostra attenzione sulle cose che vogliamo raggiungere, ma dobbiamo stare attenti a non fissare obiettivi troppo alti e mettere a rischio la nostra salute mentale. Dobbiamo cercare un equilibrio. Dovremmo fissare degli obiettivi che ci permettano di bilanciare il nostro tempo libero e la cura di noi stessi con il lavoro e il senso del dovere.
Parafrasando un famoso monologo cinematografico: “la delusione è valida, la delusione è giusta, la delusione funziona, la delusione è chiara. La delusione in tutte le sue forme: la delusione di vita, di amore, di sapere, sportiva, imposta lo slancio in avanti”. Tutte le delusioni che attraversiamo nella nostra vita ci aiutano a crescere.
Non si può controllare tutto nella vita. Purtroppo, questo apprendimento arriva dopo aver subito grandi delusioni. È importante rendersi conto che le uniche cose che si possono controllare sono i propri atteggiamenti, decisioni, sentimenti e azioni. È certamente uno spreco di energia e un comportamento inutile concentrarsi su ciò che non può essere controllato. Dobbiamo essere sempre in grado di tenerlo a mente.
Infine, dobbiamo pensare a noi stessi. Poiché le battute d’arresto sono inevitabili, non bisogna perdere di vista il proprio obiettivo principale nella vita. Spesso le delusioni non hanno nulla a che fare con ciò che spinge una persona, la sua missione. La missione deve essere il raggiungimento del proprio benessere. Questo sarebbe il primo e necessario passo per poter aiutare gli altri. Dobbiamo imparare a fermarci, a prenderci cura di noi stessi, a dimenticare un po’ il senso del dovere e trovare il senso del piacere.
— ESPAÑOL —
Todos tenemos miedo de decepcionar a los demás y especialmente a nuestros seres queridos, así como de decepcionarnos a nosotros mismos. Constantemente nos fijamos metas, objetivos y expectativas que tenemos que cumplir, de lo contrario nos sentimos derrotados. ¿Significa esto que cuantas más metas y objetivos alcancemos, más valiosos seremos como personas o más amor mereceremos de nuestros seres queridos?
Algunos confunden la alabanza con el amor, pero ser alabado no es ser amado. A menudo buscamos la aprobación en los elogios de los demás, lo que nos hace ser demasiado exigentes con nosotros mismos, y esto nos genera una gran cantidad de estrés y ansiedad. No podemos ser perfectos. A menudo, el hecho de no alcanzar un objetivo crea un sentimiento de inferioridad, de no ser adecuado, y un miedo al rechazo. Un factor muy importante es que el entorno que nos rodea sea acogedor, abierto al cambio y al aprendizaje en el camino. La constatación de que es imposible ser “perfecto” genera frustración y afecta gravemente a la autoestima del individuo.
Establecer objetivos es un mecanismo de adaptación y nos ayuda a aumentar nuestra motivación y a centrar nuestra atención en las cosas que queremos conseguir, pero debemos tener cuidado de no poner nuestros objetivos demasiado altos y poner en riesgo nuestra salud mental. Hay que buscar un equilibrio. Debemos establecer objetivos que nos permitan equilibrar nuestro tiempo libre y el cuidado personal con el trabajo y el sentido del deber.
Parafraseando un famoso monólogo cinematográfico: “la decepción es buena, la decepción es correcta, la decepción funciona, la decepción es clara. La decepción en todas sus formas: la decepción en la vida, en el amor, en el conocimiento, en el deporte, marca el ritmo”. Todas las decepciones que sufrimos en nuestra vida nos ayudan a crecer.
No se puede controlar todo en la vida. Desgraciadamente, este aprendizaje llega después de experimentar grandes decepciones. Es importante darse cuenta de que lo único que puedes controlar son tus actitudes, decisiones, sentimientos y acciones. Sin duda, es un desperdicio de energía y un comportamiento inútil centrarse en lo que no se puede controlar. Debemos tenerlo siempre presente.
Pensar en nosotros mismos
Por último, tenemos que pensar en nosotros mismos. Como los contratiempos son inevitables, no debemos perder de vista nuestro objetivo principal en la vida. A menudo, las decepciones no tienen nada que ver con lo que impulsa a una persona, su misión. La misión debe ser el logro del propio bienestar. Este sería el primer y necesario paso para poder ayudar a los demás. Tenemos que aprender a parar, a cuidarnos, a olvidarnos un poco del sentido del deber y encontrar el sentido del placer.
Maria Luz Romero
Laurenda in Psicologia Clinica Universidad De Murcia Espana Tirocinante Erasmus presso lo
Studio BURDI
ContinuaLE CONFERME
Siamo spesso influenzati da ciò che pensano le persone intorno a noi. Fin dalla giovane età, le nostre famiglie ci aiutano a prendere decisioni importanti con la motivazione che sanno cosa è meglio per noi, creando una sorta di dipendenza dalla ricerca di conferme. Questa dipendenza si estende a molte aree della vita e non solo al processo decisionale: chiediamo alla nostra famiglia o agli amici anche quali vestiti indossare, cosa comprare o quale taglio di capelli ci starebbe meglio. Quante volte abbiamo smesso di comprare un capo di abbigliamento che ci piaceva semplicemente perché non piaceva alla nostra amica/madre/compagna?
Con il passare degli anni, questa ricerca di conferme esterne dovrebbe diventare interna: prendere decisioni perché è così che mi sento. In alcune persone questa transizione avviene, ma in altre rimane la conferma esterna. Questa transizione è strettamente legata all’autostima. Le persone che hanno fiducia in se stesse, nelle loro capacità e abilità di ragionamento sono più propense a cercare conferme interne, mentre le persone che non hanno fiducia in se stesse e nelle loro capacità decisionali sono in costante bisogno di approvazione dagli altri. Questo su larga scala può essere pericoloso perché ci rende facilmente manipolabili agli occhi degli altri, oltre a perdere la capacità di gestire la nostra vita.
Oltre all’autostima, anche l’ambiente gioca un ruolo importante nella ricerca di conferme. I genitori che, fin dalla più tenera età, incoraggiano l’autonomia dei loro figli, li consigliano nel prendere decisioni ma non le impongono, e permettono loro il loro spazio personale incoraggiano la ricerca di conferme interiori. Al contrario, i genitori che sono sempre sopra i loro figli e non li aiutano a lavorare sulle loro capacità di ragionamento incoraggiano la ricerca di conferme esterne.
Spesso, le persone che hanno bisogno di conferme esterne portano questo bisogno di approvazione nella terapia. Hanno continuamente bisogno che lo psicologo li sostenga nelle loro decisioni e dica “hai ragione”, ma una persona esterna non può dire se hai ragione in quello che senti.
Un altro pensiero errato è credere che gli altri siano in possesso della verità. Le persone che hanno bisogno di approvazione credono più alle opinioni esterne che alle proprie. Nessuno ci conosce così bene come noi conosciamo noi stessi, e spesso accade che si formino opinioni sbagliate senza basi razionali. Pertanto, non dovremmo dare tanto potere a ciò che gli altri pensano di noi, perché potrebbero sbagliarsi.
È importante essere consapevoli del modello che abbiamo adottato e lavorare su di esso. Prenditi la responsabilità dei tuoi errori e dei tuoi successi. Il punto è trovare un equilibrio in modo che il vostro benessere personale non dipenda dall’opinione degli altri.
— ESPAÑOL —
A menudo nos dejamos influenciar por lo que piensa la gente de nuestro alrededor. Desde pequeños, nuestras familias nos ayudan a tomar decisiones importantes con la excusa de que ellos saben lo que es mejor para nosotros, creando una especie de dependencia a buscar la confirmación. Esta dependencia se extiende a muchos ámbitos de la vida y no sólo a la toma de decisiones: preguntamos a nuestros familiares o amigos hasta qué ropa ponernos, qué comprar, o qué corte de pelo nos sentaría mejor. ¿Cuántas veces hemos dejado de comprarnos una prenda de ropa que nos gustaba simplemente porque a nuestro amigo/madre/pareja no le gustaba?
Conforme pasan los años, esta búsqueda de la confirmación externa debería de convertirse en interna: tomar decisiones porque así las siento. En algunas personas esta transición se lleva a cabo, pero en otras perdura la confirmación externa. Esta transición está muy relacionada con la autoestima. Las personas seguras de sí mismas, de sus habilidades y su capacidad de raciocinio, tienden más a buscar las confirmación interna, mientras que las personas que no están seguras de sí mismas ni de su capacidad a la hora de tomar decisiones necesitan continuamente la aprobación de los demás. Esto a gran escala puede ser peligroso porque nos hace fácilmente manipulables a vista de los otros, así como de perder la capacidad de manejar nuestra propia vida.
Así como la autoestima, el ambiente también juega un papel bastante importante en la búsqueda de la confirmación. Los padres que, desde pequeños, fomentan la autonomía de sus hijos, les aconsejan a la hora de tomar decisiones pero no las imponen, y les dejan su espacio personal fomentan la búsqueda de la confirmación interna. Por el contrario, los padres que están siempre encima del niño y no les ayudan a trabajar su capacidad de raciocinio fomentan la búsqueda de la confirmación externa.
A menudo, las personas que necesitan la confirmación externa transportan esa necesidad de aprobación a la terapia. Continuamente necesitan que el psicólogo les apoye en sus decisiones y les diga “tienes razón”, pero una persona externa a ti no puede decir si tienes razón en lo que tú sientes.
Otro pensamiento erróneo es creer que los demás están en la posesión de la verdad. Las personas con necesidad de aprobación creen más en las opiniones exteriores que en las suyas propias. Nadie nos conoce tan bien como nosotros, y a menudo sucede que se forman opiniones equivocadas sin bases racionales. Por ello, no debemos darle tanto poder a lo que otros piensen de nosotros, porque pueden equivocarse.
Es importante ser conscientes de qué modelo hemos adoptado y trabajarlo. Hazte responsable de tus propios errores y de tus aciertos. La cuestión es encontrar un equilibrio para evitar que el bienestar personal dependa de la opinión de los demás.
Maria Luz Romero
Laurenda in Psicologia Clinica Universidad De Murcia Espana Tirocinante Erasmus presso lo
Studio BURDI
ContinuaIL BLOCCO EMOTIVO
Il taglio emotivo è un meccanismo che le persone usano per ridurre l’ansia causata da problemi irrisolti con genitori, fratelli o altri membri della famiglia.
In pratica, per evitare di affrontare questioni molto delicate, le persone lasciano le loro case e raramente ritornano; se sono costrette a rimanere in contatto con le loro famiglie d’origine oppure sono più disposte a deviare la conversazione su questioni banali. Il taglio emotivo ridurrà l’ansia, ma le questioni irrisolte distruggeranno inevitabilmente altre relazioni, specialmente durante i periodi di stress.
Murray Bowen è uno psichiatra e psicoterapeuta americano considerato uno dei pionieri della moderna terapia familiare. Nel pensiero di Murray Bowen, l’elemento principale della psicoterapia è la capacità di differenziare e cambiare i modelli di comportamento. Il processo di differenziazione accompagna la nostra crescita nella famiglia e nella società.
Secondo Murray Bowen, c’è una massa indifferenziata del sé familiare, che è una forma di attaccamento familiare, un legame emotivo che esiste nella rete familiare fra le varie generazioni ed è presente in ogni individuo. Lo scopo principale della psicoterapia è quello di aiutare le persone a distinguersi da questo gruppo familiare. Un sé familiare indifferenziato può operare in modo tale che la normale intimità tra i diversi membri diventi eccessivamente stretta, o può operare in modo tale che ci sia ostilità e rifiuto tra i membri della famiglia. Fondamentalmente, secondo Murray Bowen, ognuno di noi tratta gli altri secondo il modo in cui siamo stati trattati nella nostra famiglia d’origine.
L’autore definisce il processo di differenziazione come un processo in cui ogni membro della famiglia non è influenzato dalla pressione emotiva della famiglia per esprimere se stesso e i suoi pensieri e credenze. Lungo il continuum della scala di Bowen troviamo da un minimo di differenziazione a 0 fino ad un massimo di 100 con una categorizzazione in 4 gruppi. I primi due gruppi sono caratterizzati da funzioni emotive più forti e da un’alta reattività, e i loro modelli decisionali sono basati interamente sulle emozioni e sui sentimenti. Man mano che il livello della scala aumenta, troviamo che le funzioni delle persone sono più equilibrate.
Se immaginiamo il senso di appartenenza e il senso di separazione come due aspetti della stessa scala, possiamo dire che coloro che sono stati a lungo nella posizione di figli sono quelli che non possono far fronte al pesante farde
llo del senso di appartenenza (e delle aspettative). D’altra parte, coloro che hanno messo una distanza emotiva, e spesso fisica, tra loro e i loro legami familiari sono nella situazione opposta. La principale manifestazione di questo taglio emotivo è la negazione delle relazioni strette con i genitori e delle relazioni di attaccamento irrisolte. In questi casi, la bilancia pende dalla parte della separazione, che è ben lungi dall’essere considerata parte del processo di auto-differenziazione, ma una vera e propria rottura del processo di appartenenza, prematura e traumatica.
Il risultato è la mancanza di modelli a cui appartenere e dai quali separarsi; non potendosi differenziare – come ci si separa da qualcosa alla quale non si appartiene? – si è costretti a una pseudoindividuazione, cioè a un’indipendenza fittizia, in cui il vuoto relazionale spinge alla ricerca di legami compensatori, tanto necessari quanto temuti; il taglio emotivo verrà però nuovamente utilizzato per controllare il proprio coinvolgimento emotivo nella relazione con il partner.
—– ESPAGNOL ——-
El corte emocional es un mecanismo que la gente utiliza para reducir la ansiedad causada por problemas no resueltos con los padres, hermanos u otros miembros de la familia. En la práctica, para evitar tratar temas muy delicados, las personas abandonan sus hogares y rara vez regresan; si se ven obligadas a permanecer en contacto con sus familias de origen, están más dispuestas a callar o a desviar la conversación hacia asuntos triviales. El corte emocional reducirá la ansiedad, pero los problemas no resueltos destruirán inevitablemente otras relaciones, especialmente en momentos de estrés.
Murray Bowen es un psiquiatra y psicoterapeuta estadounidense considerado uno de los pioneros de la terapia familiar moderna. En el pensamiento de Murray Bowen, el elemento principal de la psicoterapia es la capacidad de diferenciar y cambiar patrones de comportamiento. El proceso de diferenciación acompaña nuestro crecimiento en la familia y en la sociedad.
Según Murray Bowen, existe una masa indiferenciada del yo familiar, que es una forma de apego familiar, un vínculo emocional que existe en la red familiar entre generaciones y que está presente en cada individuo. El objetivo principal de la psicoterapia es ayudar a las personas a distinguirse de este grupo familiar. Un yo familiar indiferenciado puede funcionar de tal manera que la intimidad normal entre los diferentes miembros se vuelva demasiado estrecha, o puede funcionar de tal manera que haya hostilidad y rechazo entre los miembros de la familia. Básicamente, según Murray Bowen, cada uno de nosotros trata a los demás según la forma en que fuimos tratados en nuestra familia de origen.
El autor define el proceso de diferenciación como un proceso en el que cada miembro de la familia no está influenciado por la presión emocional de la familia para expresarse y expresar sus pensamientos y creencias. A lo largo del continuo de la escala de Bowen encontramos desde un mínimo de diferenciación en 0 hasta un máximo de 100 con una categorización en 4 grupos. Los dos primeros grupos se caracterizan por tener funciones emocionales más fuertes y una alta reactividad, y sus patrones de toma de decisiones se basan totalmente en las emociones y los sentimientos. A medida que aumenta el nivel de la escala, comprobamos que las funciones de las personas están más equilibradas.
Si imaginamos el sentido de pertenencia y el sentido de separación como dos aspectos de una misma balanza, podemos decir que los que llevan mucho tiempo en la posición de hijos son los que no pueden soportar la pesada carga del sentido de pertenencia (y las expectativas). Por otro lado, quienes han puesto una distancia emocional, y a menudo física, entre ellos y sus vínculos familiares se encuentran en la situación opuesta. La principal manifestación de este “corte emocional” (Bowen, 1979; Andolfi, 2003) es la negación de las relaciones estrechas con los padres y las relaciones de apego no resueltas. En estos casos, la balanza se inclina del lado de la separación, que está lejos de considerarse parte del proceso de autodiferenciación, sino una verdadera ruptura del proceso de pertenencia, prematura y traumática.
El resultado es la falta de modelos a los que pertenecer y de los que separarse; no poder diferenciar -¿cómo puede uno separarse de algo a lo que no pertenece? – uno se ve forzado a una pseudoindividuación, es decir, a una independencia ficticia, en la que el vacío relacional le empuja a buscar lazos compensatorios, tan necesarios como temidos; el corte emocional será, sin embargo, utilizado de nuevo para controlar la propia implicación emocional en la relación con la pareja.
Maria Luz Romero
Laurenda in Psicologia Clinica Universidad De Murcia Espana Tirocinante Erasmus presso lo
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Il “peso” di certe relazioni
Il “peso” di certe relazioni
Due immagini apparentemente opposte,ma con una cosa in comune: L’ ossessione per il cibo. Siamo soliti giudicare un corpo, senza capire che c’è tanto altro al di là del peso.
I disturbi dell’alimentazione sono al giorno d’oggi molto frequenti,si manifestano sotto forma di modificazioni del peso, che può essere eccessivo (obesità), eccessivamente ridotto (anoressia).
Questi disturbi sono un sintomo di un malessere sociale a livello dell’identità e delle relazioni affettive.
Chi soffre di questo tipo di disturbo spesso sviluppa una vera e propria ossessione nei riguardi del cibo e del peso: mangiare, non mangiare, mangiare troppo, eliminare il cibo, nascondere gli incarti, mangiare di nascosto, mangiare per tristezza, rabbia o solitudine…
Soffrire di un disturbo dell’alimentazione sconvolge la vita di una persona e ne limita le sue capacità relazionali, lavorative e sociali. Per la persona che soffre di una disturbo dell’alimentazione tutto ruota attorno al cibo e alla paura di ingrassare.
Cose che prima sembravano banali ora diventano difficili e motivo di ansia, come andare in pizzeria, pub ect. I DCA possono essere concomitanti ad altri disturbi: in particolare depressione, i disturbi d’ansia, l’abuso di alcool o di sostanze, il DOC disturbo ossessivo-compulsivo e i disturbi di personalità.
Quindi prima di giudicare, pensiamoci, c’è tanto altro al di là del peso ! C’è il peso o la leggerezza delle pseudo relazioni affettive. Se solo sapessimo i mostri, paure che hanno dentro, prima di sparare giudizi.
Regina
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