Schiena
SCHIENA
A schiena nuda
contro pareti di chiese sconsacrate.
Negli occhi frammenti e colori dei rosoni gotici.
Ti prego stringimi nello scialle caldo
del tuo conforto.
Cadono le preghiere al traguardo degli autunni
passati ad aspettarti
Ti prego dissetami dalla fonte di verità
portandomi alla bocca
il calice malfermo di Bacco.
1i prego legami
i pensieri di libertà che mi hanno portato qui
credendo di lottare
nel silenzio del mio
bug genetico.
katiuscha nazzarini
Continua
L’ Assente
L’ Assente
Ci sono padri che lavorano soltanto e figli affannati che supplicano e sono continuamente in attesa della loro presenza. Dall’ entusiasmo iniziale di avere il padre come un proprio eroe, al rammarico che non ci sia, alla disperazione che la condizione non potrà mai cambiare, in termini di tempi di condivisione e di presenza, alla rassegnazione abbandonica in cui il bambino inizia a credere che dovrà cavarsela da solo, pur non sapendo come fare.
Si dà avvio ad una condizione di adultizzazione del bambino con il conseguente salto della sua infanzia.
Il bambino farà tutto da solo, vedrà la nascita del monologo e del soliloquio, parlerà con se stesso, si farà domande, si darà risposte, avvierà soliloqui interminabili con se stesso, privi di riscontri con la realtà, intrisi di elaborazioni de realizzanti, riconoscerà come padre il proprio pensiero, in braccio alle proprie inconcludenze, imparerà a non guardare il padre in faccia, a guardare le proprie elaborazioni.
Soliloqui, monologhi, fantasie, mediazioni, concentrazione sul proprio mondo interiore, sullo studio, permetteranno alla sua mente di divenire la propria casa ideale, l’ alcova, il luogo incantato dove rifugiarsi e incontrarsi il suo mondo migliore, dove iniziare a sperimentare le sue prime intrusioni. Vivrà le invadenze e le delusioni esterne come disturbanti del suo mondo interiore fantastico, loro diventeranno pensieri intrusivi e paranoici, difformi ai propri pensieri.
Questo rappresenta l’ esordio di una relazione autistica tra il proprio pensiero e il mondo. L’ assenza, è la radice abbandonica, che accompagnerà il figlio per la sua vita. Il figlio dimenticherà e disconoscerà il padre ma lo cercherà in tante altre figure sostitutive ed alternative senza che lui lo sappia riconoscere o senza che lui se ne accorga.
Le Carezze, i giochi, le conversazioni, i baci, tutti i perché senza le risposte del padre eroe, come mito dell’ adulto che non c’è, svuotano il bambino, che non potrà essere ascoltato e non potrà parlare. Un padre che non prende in braccio il proprio figlio, non lo potrà mai farlo sentire un futuro eroe, non potrà curare la propria insicurezza col pilastro dell’ essere adulti.
“Ma papà lavori sempre, per me non ci sei mai ? “ . Un figlio, che affermi questo, viene posto di fronte alla propria impotenza di non poter ricevere mai un riscontro e desolato, dovrà, adattarsi al suo essere invisibile al quale rassegnarsi.
Un padre ammalato della sua assenza, tirerà su un figlio accudente che si prenderà cura di lui. Quando il figlio diventerà padre, sarà ciò che ha imparato, da assente si farà curare dal figlio, bastone della sua vecchiaia, si prenderà cura del padre come il bambino che non è mai stato. Si darà via a quel giro vizioso automatico generazionale senza fine. Nessuno vive, ma ognuno si prende cura non di se, ma sempre di quslcun’ altro. Si avviano generazioni di infelici, di soli ed isolati , perché l’ isolamento altro non è che il ri perpetuare dell’assenza.
Bisogna rinunciare ad avere figli, se figli non si è mai stati. Nello stesso senso, chi dichiara di non desiderare avere figli, dichiara di avuto pessimi genitori. Chi non desidera ricevere figli, è fondamentalmente impaurito dall’ idea di rivedere in loro la propria infanzia svuotata del padre.
Flotte di genitori assenti generano generazioni in guerra e in conflitto, generazioni di bellicosi, insoddisfatti, generazioni di soldati, in lotta, a difesa del proprio ruolo e della propria identità. Un figlio non amato, con conosce la presenza, non sa cosa possa mai essere l’ amore, diviene specialista in anafettività, trasparenza, rabbia, indifferenza ed odio.
L’ origine delle guerre e del desiderio di morte è da attribuirlo al processo complesso delle assenze. Chi fa guerra, non vede il prossimo, non ti riconosce, non è toccato nella sua umanità, perché non toccato e pertanto respinto dall’ umanità del genitore; chi fa guerra non in è grado di riconoscere l’ altro in se stesso, possiede uno specchio frantumato di se, perché dall’ altra parte c’ è un genitore frantumato. Il vuoto dell’ assenza è il vuoto dell’ umanità.
Quando incontri un partner, reduce dell’ assenza genitoriale, vivi la frustrazione delle assenze subite, ti da pagare e riempire tutti i suoi vuoti subiti, non gli basti mai gli manchi sempre, anche quando ci sei, ne avverte il vuoto sempre. In realtà gli manca ciò che non c’è mai stato nel passato, e l’ assenza abbandonica attuale, altro non è se non la punta dell’ iceberg. Manca sempre un assente primario, eccellente, una matrice fondamentale. Tanto più grande è l’ assenza di una figura genitoriale, tanta più avrà una importanza privilegiata una minima assenza di oggi.
Chi è costretto a fare da genitore al proprio, intossica il suo ruolo, si immette su una corsia preferenziale futura, ovvero cercare un partner che fosse un figlio da accudire. La vita diviene una immolazione sfiancante, una malattia.
Una lettera scritta ad un padre o ad un partner, rappresenta quella sfida per mappare la propria storia relazionale, per poter ripercorrere la storia del proprio sacrificio. Serve a delineare tutto ciò che mai si è potuto scegliere, per svelare quella sacra consapevolezza che la vita, oggi, potrà ancora essere scelta, spaccando quelle patologiche catene di obblighi e di ruoli inadeguati non più opportuni nel presente.
Un serio ed assiduo lavoro analitico, correlato ai suoi strumenti di lavoro, come una psicoterapia individuale, una gruppo analitica, la lettera analitica, i rispecchiamenti, i de condizionamenti, gli psicodrammi, ect ect, hanno il compito di esaltare la consapevolezza, per accellerare le risposte e i cambiamenti, chiarire i ruoli e i modelli di riferimento, servono a spezzare quella circolarità viziosa generazionale, che passa la malattia, come un un testimone da genitori a figli, fissando proprie attitudini, propri talenti ed obiettivi per tornare alla propria progettualità e protagonismo.
Tutto ciò non è affatto facile, è molto complesso, ma non impossibile, non ci sono miracoli da compiere, specialmente se ci sono interruzioni del trattamento, quando a lavoraci resta solo lo psicoterapeuta, bisogna volerlo, con grinta ed audacia, abbattendo la flemma e gli automatismi, con tenacia e continuità terapeutica, si riesce a realizzare il ritorno alla salute e la propria metamorfosi, perché si fanno i conti con gli stili di vita, con le rigidi abitudini e le sedimentazioni dei ruoli indossati errati, per scollare di dosso tutto ciò che non è proprio, si ritorna alla salute del proprio protagonismo.
giorgio burdi
ContinuaLa Pulsione di Vita
Pulsione di Vita: Ciò che Dà Colore alla Tua Vita
La pulsione di vita è un concetto centrale nell’ambito della psicologia, con radici profonde nella teoria psicoanalitica di Sigmund Freud. Esplorare il significato della pulsione di vita e il suo impatto sull’ambito psicologico delle persone vuol dire anzitutto concentrarsi sul concetto che essa aggiunge colore e vitalità alle nostre vite. Esaminare come la pulsione di vita influenzi il nostro benessere emotivo e la qualità complessiva della nostra esistenza ci costringe a guardare indietro e a comprendere la teoria di Freud sulla pulsione di vita, noto come l’istinto di Eros. Freud ha sviluppato la teoria delle pulsioni, distinguendo tra due principali pulsioni umane: l’istinto di morte (o Thanatos) e l’istinto di vita (o Eros).
L’istinto di vita, o Eros, guida gli individui verso la ricerca di piacere, amore, connessione e soddisfazione sessuale. Freud sosteneva che questo istinto fosse il motore principale delle nostre azioni e desideri, sottolineando la sua importanza per il nostro benessere psicologico. Attraverso Eros, gli individui cercano di evitare il dolore, di creare relazioni significative e di perseguire il piacere in tutte le sue forme.
La pulsione di vita, secondo Freud, è intrinsecamente legata al concetto di libido, che rappresenta l’energia psichica associata a Eros. Questa energia è responsabile della spinta verso la vita e dell’attrazione per le cose che ci portano gioia e soddisfazione. La repressione delle pulsioni di vita può portare a conflitti interni e problemi psicologici, secondo la teoria freudiana. In breve, il ruolo centrale della pulsione di vita, rappresentata da Eros, nella teoria di Freud, evidenzia come essa influenzi le motivazioni e i desideri umani, contribuendo alla comprensione della psicologia umana.
Anche il famoso psicologo americano Abraham Maslow ha sviluppato una teoria della gerarchia dei bisogni umani, in cui la pulsione di vita gioca un ruolo fondamentale. Egli stesso sottolinea come la ricerca di autorealizzazione e il raggiungimento del potenziale individuale siano alimentati proprio dalla pulsione di vita, motore per la soddisfazione dei bisogni di autorealizzazione che contribuisce al benessere psicologico.
Cambiando apparentemente prospettiva, possiamo affermare come l‘arte è spesso un modo tangibile di esprimere la propria pulsione di vita. La dimensione artistica difatti, attraverso la sua creatività e la sua capacità di ispirare emozioni, può arricchire le vite delle persone. Esempi di artisti celebri, dimostrano come la pulsione di vita trovi espressione nell’arte, donando colore e profondità alle nostre esperienze più intime.
La pulsione di vita, inoltre, svolge un ruolo chiave nella resilienza psicologica. Indagare come la capacità di superare le avversità, imparare dagli errori e adattarsi alle sfide quotidiane è fortemente correlata alla pulsione di vita vuol dire osservare intorno in modo intelligente, guardare alle storie dei pazienti che che hanno affrontato situazioni difficili, consapevoli del ruolo fondamentalmente che giocano i processi motivazionali e le spinte propositive verso il cambiamento di stili di vita e/o quadri patologici considerati dai più come ‘incurabili’. E’ evidente, dunque, l’efficacia di questa energia mentale e passionale alla vita che influenza e condiziona ognuno di noi!
Da qui l’importanza, per il terapeuta, di fornire suggerimenti pratici su come coltivare e nutrire la pulsione di vita nelle nostre vite quotidiane. L‘adozione di abitudini salutari, lo sviluppo di relazioni significative e l’esplorazione delle nostre passioni, possono aumentare il colore e la vitalità delle nostre vite in modo esponenziale.
La pulsione di vita, che rappresenta il desiderio di vivere pienamente e con entusiasmo, può essere incoraggiata attraverso una serie di strategie e abitudini salutari. Di seguito sono riportati alcuni esempi concreti:
1. Mantenere uno stile di vita sano:
– Adottare una dieta equilibrata e fare regolare attività fisica. L’esercizio fisico rilascia endorfine, che aumentano il benessere e la vitalità.
– Assicurarsi di dormire a sufficienza per ripristinare l’energia e promuovere il buonumore.
– Evitare e limitare il consumo di sostanze nocive come alcol e tabacco.
2. Cercare la crescita personale:
– Imparare nuove abilità, interessarsi a nuovi argomenti o prendere parte a corsi che stimolino l’intelletto. La crescita personale favorisce la realizzazione di sé e la pulsione di vita.
– Mettersi alla prova attraverso sfide personali o professionali. Il superamento delle sfide può aumentare la fiducia e la vitalità.
3. Coltivare relazioni significative:
– Investire tempo ed energia nelle relazioni con amici, familiari e partner. Le connessioni significative forniscono supporto emotivo e aumentano il senso di appartenenza.
– Comunicare apertamente e onestamente con gli altri, sviluppando legami emotivi profondi.
4. Cercare passione e creatività:
– Scoprire le proprie passioni e interessi, e dedicare tempo a coltivarli. L’attività che ci appassiona può essere una fonte di gioia e ispirazione.
– Esprimere la creatività attraverso l’arte, la musica, la scrittura o qualsiasi forma di espressione che ci permetta di dare vita alle nostre idee e emozioni.
5. Praticare la gratitudine:
– Tenere un diario della gratitudine in cui si annotano cose per cui si è grati ogni giorno. Questa pratica può aiutare a focalizzarsi su ciò che di positivo c’è nella vita.
– Esprimere riconoscenza agli altri attraverso parole o piccoli gesti di gentilezza.
6. Vivere il momento presente:
– Praticare la mindfulness o la meditazione per essere più consapevoli del momento presente. La consapevolezza aiuta a sperimentare la vita con maggiore intensità.
– Rallentare e apprezzare le piccole gioie della vita quotidiana, come un tramonto, una tazza di caffè o un sorriso.
7. Rispettare i propri limiti:
– Imparare a riconoscere quando è necessario prendersi del tempo per se stessi o chiedere aiuto quando si affrontano sfide difficili.
– Evitare l’eccesso di stress e imparare a gestire le emozioni in modo sano.
Coltivare la pulsione di vita richiede, così, un impegno ed una grande consapevolezza, che si tramuta però in forza potente che permea la nostra psiche e influenza la nostra esperienza di vita in modo positivo. La pulsione di vita, in sostanza, è rappresentata daquella ricerca felice di amore, connessione, autorealizzazione e creatività, che aggiunge colore e vitalità alle nostre esperienze. Comprendere e coltivare questa energia intrinseca può contribuire in modo significativo al nostro benessere psicologico e alla qualità della nostra esistenza complessiva. In un mondo spesso dominato da sfide e ostacoli, la pulsione di vita può fungere da guida verso una vita più appagante e significativa.
A cura di Maria Arancio,
tirocinante presso lo Studio BURDI
Continua
Primo contatto con lo psicoterapeuta
Primo contatto con lo psicoterapeuta: una chiamata che cambia la vita
La vita di ognuno di noi è considerabile come la somma di attimi determinanti; l’unione di scelte fondamentali che, sovrapposte, arrivano a delineare un percorso esistenziale unico ed irripetibile. Momenti decisionali volti a rappresentare strade intraprese con coraggio, svolte radicali di una personale ricerca identitaria: la decisione di intraprendere una terapia è uno di quegli istanti cruciali, l’occasione che avvia un percorso di cambiamentoresponsabile prima, e la volontà di portare avanti attivamente gli effetti derivati da questo proposito poi.
Arrivare a contattare un professionista è, a tutti gli effetti, il primo passo da compiere verso il percorso terapeutico: ciò implica il riconoscimento esatto, da parte del paziente, di uno stato di sofferenza ingestibile a cui può porre rimedio solo il supporto di un esperto. La prima telefonata allo specialista, mossa entro un clima confusionale, determina quel passaggio obbligato verso l’incerto, volontà di una richiesta d’aiuto non più marginale, appello, in sostanza, di un dolore che vuole essere ascoltato e compreso nella sua totalità.
L’inizio di un percorso terapeutico è l’incontro di due mondi e visioni differenti; si attiva così un processo in cui si passa da uno stato di estraneità reciproca all’essere “compagni di viaggio”.L’iter che sancisce l’avvio di questa relazione terapeutica sembra essere scandito da tappe significative che spiegano bene il delicato equilibrio su cui regge, almeno inizialmente, un percorso di cura:
1) Disorientamento: il primo contatto verso il terapeuta nasce da un profondo malessere personale a lungo irrisolto, e dalla sola consapevolezza di tale sofferenza insopprimibile si decide di rivolgersi ad uno specialista. L’individuo, nell’esplicitare la richiesta d’aiuto, vivrà comunque uno stato di incertezza che lo accompagna verso l’ignoto, nella speranza che il bisogno di cura potrà essere accolto in modo soddisfacente dall’estraneo;
2) Anticipazione: la ricerca del miglior terapeuta muove da aspettative importanti, da un intrinseco bisogno di cambiamento personale, per tanto la scelta del profilo ideale verterà su aspetti ritenuti importanti dal paziente: chi detiene maggiori esperienze e titoli o chi infonderà, con il suo approccio empatico, maggior fiducia e senso di accoglienza. Riportando ciò nel setting terapeutico è importante, nel porre le fondamenta di un cammino psicoterapico, che sia il terapeuta che il cliente prendano le misure, imparando a conoscersi vicendevolmente al di là delle reciproche aspettative, ciascuno nell’ambito del proprio ruolo all’interno della relazione. In base alla compatibilità tra cliente e terapeuta si creerà un’alleanza particolare, tradotta nella capacità, da parte dei due componenti della diane terapeutica, di collaborare in vista di un obiettivo comune;
3) Prima rottura nel rapporto terapeutico: ogni relazione significativa implica confronti che conducono ad una crescita evolutiva necessaria; così il rapporto terapeutico, magari fin dalla prima seduta, comporta scontri derivanti da opinioni differenti o resistenze alla cura proposta difficili da sottrarre. La saccenza del paziente dovrà venir meno rispetto le direttive imposte dallo specialista, che saprà come meglio orientare e sviluppare quelle risorse interne all’individuo, nell’ottica di un efficace percorso di cambiamento pensato e strutturato su misura. Se l’instaurarsi di un’iniziale soddisfacente intesa tra cliente e terapeuta rappresenta un elemento fondamentale; è altrettanto importante che esista un buon grado di accettazione e rivalutazione delle proprie credenze da parte del paziente, ben disposto rispetto una futura dialettica terapeutica che potrebbe esprimersi in confronti duri ed accesi, sempre tesi allo sviluppo delle proprie potenzialità evolutive;
4) Abbandono e fiducia nella cura: il paziente, dopo aver preso coscienza dei propri limiti e della possibilità reale di un miglioramento curativo, deporrà gradualmente ogni possibile opposizione al trattamento. L’abbandono ottimistico alla terapia e il senso di accoglienza emanato dal professionista determinano la fiducia di un rapporto sano, la cornice ideale dove mettersi in crisi e riscattarsi dal malessere originario. In sintesi, il terapeuta dovrebbe essere in grado di comprendere il vissuto doloroso del paziente e, contemporaneamente, di proporgli una differente esperienza di sé nella relazione terapeutica; in questo modo si origina una nuova visione del mondo e la terapia diviene strumento di effettivo cambiamento. La premessa di fondo, ciò che spinge ad intraprendere e perseguire un percorso terapeutico, è quindi il desiderio di mettersi in gioco, a nudo, per superare il senso di insoddisfazione attuale e conseguire un futuro migliore.
La relazione terapeutica, in tutta la sua evoluzione, si dispiegherà concretamente su una dinamica rischiosa per il paziente: il cambiamento è desiderato, ma anche temuto, perché implica il modificare le proprie abitudini e il modo di rappresentare la realtà utilizzato fino a quel momento. Lottare attivamente contro le proprie reticenze, schiudersi alle infinite possibilità della vita, accettarsi ed esser pronti a mettersi in discussione, in modo profondo ed autentico, annuncia la risoluzione positiva, la rivoluzione di un rapporto che si fa cura e amore senza bugie.
“Il terapeuta è chiamato ad essere, per il paziente, strumento per contattare il diverso, il nuovo, che, una volta conosciuto, non fa più tanta paura; solo così la vita si apre a nuovi scenari e possibilità.”
Sintesi a cura di Maria Arancio
tirocinante di Psicologia Clinica presso lo Studio Burdi
Continua
La favola del topolino esploratore e il coniglio del vuoto
La favola del
topolino esploratore e il coniglio del vuoto
C’era una volta un topolino bianco che aveva vissuto tutta la vita rinchiuso nella sua tana. Il topolino sognava di poter fuggire e diventare un esploratore e quando finalmente riuscì ad uscire egli era affamato di esperienze.
Passava di lì un coniglio blu che si mostrò subito disponibile a dargli una mano.
I due ebbero tante avventure insieme: viaggiavano per il mondo e quando vedevano qualcosa di interessante il topolino si inseriva nei pertugi più stretti per recuperare oggetti e leccornie per il suo nuovo amico.
Quando però capitava che il topolino non riuscisse a recuperare l’oggetto del desiderio del coniglio, questo si arrabbiava e metteva il broncio dicendo: “tu non sei un vero amico, non mi vuoi bene”.
Allora il topolino sentendosi in colpa si rimboccava le maniche e cercava di accontentare in eccesso il suo “amico”.
Così facendo però le richieste del conuglio divennero sempre più egoiste, non gli bastava più un seme, una bacca o una foglia particolare, voleva una carota intera, un cappello e una tana calda. Il pelo del topolino da candido divenne grigio e spento, l’entusiasmo e la gioia per essere finalmente uscito dalla tana iniziarono pian piano a svanire, vi si sostituì un vuoto in cui l’unica cosa che si scorgeva erano le catene che il coniglio aveva lì posto.
Il topolino voleva liberarsene ma allo stesso tempo non voleva perché non avrebbe avuto più nessuno a guardarlo come il coniglietto. Venne però il giorno in cui, rispecchiandosi in uno stagno, il topolino vide com’era diventato e come accanto a sé l’altro non c’era. Prese tutta la sua energia, spezzò le catene, lasciò un messaggio nella notte e sparì.
Vani furono i tentativi del coniglio di riappropriarsi del topolino, questo era ormai lontano, correva libero, candido, pronto a conoscere il mondo per davvero.
Domenico De Palma
[Il secondo racconto è ancora in fase di stesura, o meglio di esser vissuto]
ContinuaTanatofobia
Metodo di approccio di psicoterapia dello Studio BURDI
per
SUPERARE LA TANATOFOBIA (LA PAURA DELLA MORTE , OVVERO LA PAURA DI VIVERE)
Cos’è la tanatofobia
La tanatofobia ovvero l’angoscia, la paura di morire, può essere un disturbo fortemente limitante per l’esistenza degli individui che lo sperimentano.
La paura della morte è un’emozione che riguarda ogni essere umano ed è fondamentalmente associata all’istinto di sopravvivenza primordiale.
Tuttavia nella vita quotidiana, alcuni meccanismi di difesa, quali la rimozione, ci consentono di collocare la morte lontano da noi permettendo che tale emozione non pervada i nostri pensieri e non condizioni in maniera significativa le decisioni, le azioni, i pensieri di ogni giorno.
Ciò fintanto che un’esperienza di malattia o la morte di una persona a noi vicina non riapre alla nostra coscienza la consapevolezza della morte, spesso ridisegnando nuove scale di priorità, nuovi significati per la nostra esistenza, insieme a difficoltosi passaggi.
Nella tanatofobia, la paura della morte genera un’angoscia opprimente che impedisce di vivere: qualsiasi azione vitale diventa potenziale portatrice di morte.
Dal punto di vista neurofisiologico la tanatofobia è paragonabile ad un processo difensivo di spegnimento, in cui rabbia, paura, senso di impotenza predominano e in cui il soggetto, incapace di andare avanti, rimane paralizzato in uno stato di immobilità e di paura, come di fronte ad un predatore.
Dal punto di vista psicanalitico, la tanatofobia è riconducibile alla pulsione di morte, così come intesa da Freud, in quanto questa genera l’azzeramento degli stimoli e la ricerca di una pace ideale, irraggiungibile, in cui si realizza la rimozione di tutte quelle situazioni in cui il soggetto può trovarsi desiderante, desideroso di ciò che potrebbe essere negato.
L’angoscia di morte in tal senso non è che l’altra faccia dell’angoscia di vivere e rivela la relazione alla propria esistenza, un’esistenza inappagante e fonte di frustrazione, in cui ci si sente incapaci di avere strategie, in cui l’esistenza è sostanzialmente subita in maniera passiva e si è perso di vista la propria importanza e la propria “competenza” nel vivere. Dominante è il senso di colpa per la mancata realizzazione di sé e l’angoscia per il senso di incompatibilità tra un sé che si è perso ed una vita che ha disatteso le sue aspettative.
Particolarmente nocivi possono essere alcuni contesti socio-culturali che propongono modelli rigidi, rappresentativi di condizioni ideali che poco corrispondono alla realtà soggettiva e alle reali, profonde, uniche aspirazioni dell’individuo, alimentando in alcuni, un profondo senso di inadeguatezza.
Come si cura la tanatofobia
Per il trattamento della tanatofobia è fondamentale costruire in un primo tempo una buona relazione terapeutica mirata a sviluppare nel soggetto la capacità di ascoltarsi profondamente e di relazionarsi alla propria esistenza come ad un’esperienza personale, che richiede continua capacità di adattamento e di elaborazione di strategie di fronte alle frustrazioni. Essa è mirata inoltre ad evidenziare e a valorizzare le competenze dell’individuo, a stimolarne la capacità di mettere in parole il proprio disagio e le proprie paure.
Altro aspetto fondamentale per il trattamento della tanatofobia è la realizzazione di un percorso di uscita dallo stato di immobilizzazione, intimamente legato alla paura.
Questo può essere operato attraverso dei percorsi terapeutici ad-hoc che prevedono la realizzazione di piccole azioni quotidiane gratificanti, in grado di stimolare nel paziente la capacità di individuare, attraverso lo sviluppo dell’attenzione, molteplici fonti di gratificazione nelle attività di ogni giorno. Ciò consente al soggetto di recuperare gradualmente il proprio senso di competenza ed adeguatezza.
Tipicamente, tra questi percorsi vi sono i protocolli mindfulness(1), che propongono la realizzazione di attività semplici, ma significative, effettuate in piena consapevolezza. Questi percorsi sfruttano inoltre la dinamica di gruppo, per rendere più agevole il mantenimento degli obiettivi e favorire l’uscita dalla solitudine in cui è sovente nutrito e alimentato il senso di paura e l’immobilità.
Nel caso della tanatofobia, come anche sottolineato dalla teoria polivagale (2), è importante promuovere nel paziente l’attuazione di meccanismi difensivi più evoluti, legati al coinvolgimento in relazioni sane di tipo supportivo in grado di generare sicurezza, rispetto a meccanismi difensivi di tipo primitivo all’origine dell’immobilizzazione e della paura.
In tal senso anche l’ipnosi può essere un valido strumento d’aiuto: l’utilizzo dell’attenzione condivisa, il tono ed il ritmo della voce, l’utilizzo di immagini metaforiche che emulano la qualità di un’esperienza di attaccamento di tipo sano, sono infatti in grado di generare sicurezza nel paziente, favorendo l’accesso alla consapevolezza delle proprie paure e ad un maggiore controllo dei propri stati ansiosi a queste connessi (3).
Sintesi a cura di
Dott.ssa Laura Cecchetto
Tirocinante di Psicologia
presso lo Studio BURDI
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(1) Tang, Y. Y. (2017). The neuroscience of mindfulness meditation: How the body and mind work together to change our behaviour. Springer.
(2) Porges, S.W. (2017). The pocket guide to the polyvagal
ContinuaIL BLOCCO EMOTIVO
Il taglio emotivo è un meccanismo che le persone usano per ridurre l’ansia causata da problemi irrisolti con genitori, fratelli o altri membri della famiglia.
In pratica, per evitare di affrontare questioni molto delicate, le persone lasciano le loro case e raramente ritornano; se sono costrette a rimanere in contatto con le loro famiglie d’origine oppure sono più disposte a deviare la conversazione su questioni banali. Il taglio emotivo ridurrà l’ansia, ma le questioni irrisolte distruggeranno inevitabilmente altre relazioni, specialmente durante i periodi di stress.
Murray Bowen è uno psichiatra e psicoterapeuta americano considerato uno dei pionieri della moderna terapia familiare. Nel pensiero di Murray Bowen, l’elemento principale della psicoterapia è la capacità di differenziare e cambiare i modelli di comportamento. Il processo di differenziazione accompagna la nostra crescita nella famiglia e nella società.
Secondo Murray Bowen, c’è una massa indifferenziata del sé familiare, che è una forma di attaccamento familiare, un legame emotivo che esiste nella rete familiare fra le varie generazioni ed è presente in ogni individuo. Lo scopo principale della psicoterapia è quello di aiutare le persone a distinguersi da questo gruppo familiare. Un sé familiare indifferenziato può operare in modo tale che la normale intimità tra i diversi membri diventi eccessivamente stretta, o può operare in modo tale che ci sia ostilità e rifiuto tra i membri della famiglia. Fondamentalmente, secondo Murray Bowen, ognuno di noi tratta gli altri secondo il modo in cui siamo stati trattati nella nostra famiglia d’origine.
L’autore definisce il processo di differenziazione come un processo in cui ogni membro della famiglia non è influenzato dalla pressione emotiva della famiglia per esprimere se stesso e i suoi pensieri e credenze. Lungo il continuum della scala di Bowen troviamo da un minimo di differenziazione a 0 fino ad un massimo di 100 con una categorizzazione in 4 gruppi. I primi due gruppi sono caratterizzati da funzioni emotive più forti e da un’alta reattività, e i loro modelli decisionali sono basati interamente sulle emozioni e sui sentimenti. Man mano che il livello della scala aumenta, troviamo che le funzioni delle persone sono più equilibrate.
Se immaginiamo il senso di appartenenza e il senso di separazione come due aspetti della stessa scala, possiamo dire che coloro che sono stati a lungo nella posizione di figli sono quelli che non possono far fronte al pesante farde
llo del senso di appartenenza (e delle aspettative). D’altra parte, coloro che hanno messo una distanza emotiva, e spesso fisica, tra loro e i loro legami familiari sono nella situazione opposta. La principale manifestazione di questo taglio emotivo è la negazione delle relazioni strette con i genitori e delle relazioni di attaccamento irrisolte. In questi casi, la bilancia pende dalla parte della separazione, che è ben lungi dall’essere considerata parte del processo di auto-differenziazione, ma una vera e propria rottura del processo di appartenenza, prematura e traumatica.
Il risultato è la mancanza di modelli a cui appartenere e dai quali separarsi; non potendosi differenziare – come ci si separa da qualcosa alla quale non si appartiene? – si è costretti a una pseudoindividuazione, cioè a un’indipendenza fittizia, in cui il vuoto relazionale spinge alla ricerca di legami compensatori, tanto necessari quanto temuti; il taglio emotivo verrà però nuovamente utilizzato per controllare il proprio coinvolgimento emotivo nella relazione con il partner.
—– ESPAGNOL ——-
El corte emocional es un mecanismo que la gente utiliza para reducir la ansiedad causada por problemas no resueltos con los padres, hermanos u otros miembros de la familia. En la práctica, para evitar tratar temas muy delicados, las personas abandonan sus hogares y rara vez regresan; si se ven obligadas a permanecer en contacto con sus familias de origen, están más dispuestas a callar o a desviar la conversación hacia asuntos triviales. El corte emocional reducirá la ansiedad, pero los problemas no resueltos destruirán inevitablemente otras relaciones, especialmente en momentos de estrés.
Murray Bowen es un psiquiatra y psicoterapeuta estadounidense considerado uno de los pioneros de la terapia familiar moderna. En el pensamiento de Murray Bowen, el elemento principal de la psicoterapia es la capacidad de diferenciar y cambiar patrones de comportamiento. El proceso de diferenciación acompaña nuestro crecimiento en la familia y en la sociedad.
Según Murray Bowen, existe una masa indiferenciada del yo familiar, que es una forma de apego familiar, un vínculo emocional que existe en la red familiar entre generaciones y que está presente en cada individuo. El objetivo principal de la psicoterapia es ayudar a las personas a distinguirse de este grupo familiar. Un yo familiar indiferenciado puede funcionar de tal manera que la intimidad normal entre los diferentes miembros se vuelva demasiado estrecha, o puede funcionar de tal manera que haya hostilidad y rechazo entre los miembros de la familia. Básicamente, según Murray Bowen, cada uno de nosotros trata a los demás según la forma en que fuimos tratados en nuestra familia de origen.
El autor define el proceso de diferenciación como un proceso en el que cada miembro de la familia no está influenciado por la presión emocional de la familia para expresarse y expresar sus pensamientos y creencias. A lo largo del continuo de la escala de Bowen encontramos desde un mínimo de diferenciación en 0 hasta un máximo de 100 con una categorización en 4 grupos. Los dos primeros grupos se caracterizan por tener funciones emocionales más fuertes y una alta reactividad, y sus patrones de toma de decisiones se basan totalmente en las emociones y los sentimientos. A medida que aumenta el nivel de la escala, comprobamos que las funciones de las personas están más equilibradas.
Si imaginamos el sentido de pertenencia y el sentido de separación como dos aspectos de una misma balanza, podemos decir que los que llevan mucho tiempo en la posición de hijos son los que no pueden soportar la pesada carga del sentido de pertenencia (y las expectativas). Por otro lado, quienes han puesto una distancia emocional, y a menudo física, entre ellos y sus vínculos familiares se encuentran en la situación opuesta. La principal manifestación de este “corte emocional” (Bowen, 1979; Andolfi, 2003) es la negación de las relaciones estrechas con los padres y las relaciones de apego no resueltas. En estos casos, la balanza se inclina del lado de la separación, que está lejos de considerarse parte del proceso de autodiferenciación, sino una verdadera ruptura del proceso de pertenencia, prematura y traumática.
El resultado es la falta de modelos a los que pertenecer y de los que separarse; no poder diferenciar -¿cómo puede uno separarse de algo a lo que no pertenece? – uno se ve forzado a una pseudoindividuación, es decir, a una independencia ficticia, en la que el vacío relacional le empuja a buscar lazos compensatorios, tan necesarios como temidos; el corte emocional será, sin embargo, utilizado de nuevo para controlar la propia implicación emocional en la relación con la pareja.
Maria Luz Romero
Laurenda in Psicologia Clinica Universidad De Murcia Espana Tirocinante Erasmus presso lo
Studio BURDI
Continua
Istruzioni per rendersi Felice
Istruzioni per rendersi Felici
Qualche giorno fa, gironzolando tra i reparti della Feltrinelli di Pisa, la ragazza che frequento esprime il desiderio di volermi regalare un libro.
Premetto che non sono un lettore seriale, uno di quelli che continuamente aggiorna la wishlist dei libri che leggerà, e che pertanto ci metterebbe due nanosecondi a scegliere un titolo da farsi regalare.
Decido quindi di prendermi qualche minuto per riflettere e intanto mi guardo attorno alla ricerca di qualcosa che catturi la mia attenzione. Dopo poco ci ritroviamo nel reparto di Filosofia e Psicologia ed è proprio qui che l’occhio mi cade su un nome: Paul Watzlawick.
In un attimo mi ricordo di quando, un mesetto prima, il mio terapeuta mi aveva consigliato la lettura del ben noto Pragmatica della Comunicazione ma il libro che focalizza la mia attenzione ha un titolo diverso: Istruzioni per rendersi infelici. La sinossi recita: “Nulla è più difficile da sopportare di un serie di giorni felici”.
Due minuti dopo sono fuori per le strade della Novella Tebe con il mio regalo a braccetto. Lo sapevate? Terenzio Varrone contava ben 289 definizioni di felicità e così pure Agostino.
Aristotele sosteneva che tutti gli uomini vogliono essere felici ma cercare una definizione univoca di felicità significa infilarsi in un ginepraio. E poi, si sa, la materia delle grandi creazioni è quasi sempre stata fornita, al contrario, da infelicità, disgrazie, tragedie, crimini, colpe, pericoli, follia e quindi, per quanto sia doloroso da ammettere, che cosa saremmo senza la nostra infelicità?
Anche però nel coltivare la propria infelicità, bisogna avere metodo e qui l’autore si sente di correre in soccorso di coloro che vogliono cimentarsi in questa “missione” evidenziando quanto la letteratura sia carente nel fornire indicazioni precise a riguardo e quanto, al contrario, sia sommersa da una marea di istruzioni per essere felici.
Insomma, <<tutti possono essere infelici, ma è il rendersi infelici che va imparato, e a ciò non basta sicuramente qualche sventura personale>>.
Ok, a questo punto dovrebbe apparire chiaro l’espediente narrativo basato sul paradosso adottato dall’autore. Cosa c’è di meglio di una serie di istruzioni che, l’esperienza clinica insegna, conducano inesorabilmente all’infelicità, quando, al contrario, si è alla ricerca di ripristinare il proprio equilibrio? Di un atteggiamento sano alla vita? Quanto, al pari di ciò che la terapia ci esorta a fare, può essere utile conoscere cosa scongiurare?
Watzlawick, usa tutta l’ironia e la competenza che gli deriva dall’immensa esperienza clinica per stilare un instructable di atteggiamenti che se perpetrati ci garantiranno senz’altro una enorme dose di infelicità.
In poco più di cento pagine si affrontano gli argomenti più disparati: il rapporto con sé stessi, con il passato, le insidie dietro un uso improprio del linguaggio, suggestioni, sabotaggi, paradossi, giochi, amore.
Ad esempio, se vi dicessero “prima di tutto, sii fedele a te stesso”, pensereste che quel qualcuno abbia a cuore che coltiviate la vostra personalità. Ma quali insidie si nascondono dietro un atteggiamento del genere? E se foste esortati ad essere sinceri, riconoscereste il paradosso logico che accompagna l’esortazione? E ancora, quale atteggiamento con il passato rende rovinoso il nostro presente?
La vita è un gioco? E la vita di coppia? E se sì, è un gioco a somma zero o un gioco a somma diversa da zero? Conoscete la differenza?
Questo articolo non è il contesto adatto per una disamina approfondita degli argomenti trattati ma semplicemente l’invito a leggere un buon libro.
Chi è in un percorso di terapia sa quanto il lavoro da fare possa a tratti risultare duro (ancorché necessario) ma sa anche che è per la maggior parte delle volte composto da istruzioni semplici, purché si abbia una direzione chiara su cosa praticare e su cosa evitare. Ecco, per l’appunto, molto spesso proprio su cosa evitare.
D.
ContinuaLE EMOZIONI SONO INTELLIGENTI: Segui il tuo flusso, il tuo numero Uno
LE EMOZIONI SONO INTELLIGENTI:
Segui il tuo flusso, il tuo numero Uno
Nel celebre libro “Intelligenza emotiva” Golemandefinisce il “flusso” (dall’inglese “Flow”) come lo stato di grazia nel quale chiunque di noi riesce a compiere attività ad alte prestazionie con il minimo sforzo.
Il flussonasce dall’incontro tra abilità proprie in un certo campo e le sfide che si presentano. Il segreto è l’equilibrato bilanciamento delle due, indovinando il giusto centro al di sopra di quel livello di impegnominimo che genera noia, e al di sotto di quella data pressione che produce solo ansiae stress.
Chi sperimenta lo stato di flussotende ad estraniarsi momentaneamente dalla realtà, immergendosi in una condizione di trance, in cui il concetto di tempo e di spazio perdono priorità e vengono distorti. Secondo Goleman agire in uno stato di flusso significa lasciare scorrere libera l’intelligenza emotiva al suo massimo stato di espressione. Il flusso è coinvolgimentototale e operativo, focus, passione, creativitàa lavoro.
La gratificazioneche ne risulta dipende dalla mansione che si sta svolgendo, naturalmente. Ciascuno di noi ha delle aree di preferenza, laddove è più facile sperimentare lo stato di flusso.
Un musicistalo avrà senz’altro provato durante un’esecuzione strumentale, uno scrittorenella composizione scritta, un pittoredurante le sue pennellate più delicate, uno sportivodurante lo svolgimento di un’attività agonistica (si parla in questo caso di trance agonistica).
Ma imparare a comprendere e a riconoscere questo stato può consentire di applicarlo a qualunque lavoro si debba compiere. Anche nel lavoro di tutti i giorniin ufficio. Ogni piccolo progresso nel campo in cui ci si vuole applicare consente infatti di innalzare la soglia di sforzo minima necessaria a continuare ad avvertire lo stato di flusso, incrementando di fatto progressivamente la propria prestazione.
Agire in stato di flusso significa ritrovare in se stessi la motivazione intrinseca, scevra di giudizi esterni o auto osservazione giudicante. E’ una percezione della realtàchiara in termini di obiettiviprefissati e di focussu come conseguirli. E’ dunque appagamento, piacere, autostima, senso di controllo.
In termini medici coincide con livelli equilibrati dei tre principali ormoni regolatori dello stato emotivo:
− Dopamina, che regola il livello di motivazione e appagamento
− Serotonina, che stimola il buon umore
− Ossitocina, che genera empatia
Il fenomeno portato alla luce da Golemannegli anni ’90 (e ampiamente studiato da numerosi psicologi cognitivi come Csíkszentmihályigià molti anni prima) fa da eco ai concetti di “Ki” o “Praan” già noti nelle religioni Zenorientali, dove la tecnica per il raggiungimento dello stato di flusso si basa sull’arte spirituale della meditazione.
Trova poi applicazione nelle discipline marziali, dove con il termine giapponese “Mushin”, o l’equivalente cinese “Wuxin”, si fa riferimento ad un particolare stato mentale in cui i maestri altamente addestrati in tali arti affermano di essere di in grado di entrare, prima di un combattimento.
La buona notizia è questa: anche se non siamo grandi maestri di arti marziali, artisti professionisti o sportivi agonistici, lo stato di flusso è alla portata di tutti. E’ sufficiente un piccolo sforzo iniziale, per poi lasciare il nostro puro istintolibero di divertirsi.
simone
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La Torta, simbolo di eventi e di inno alla vita.
LA TORTA
Simbolo di eventi e di inno alla vita.
Non c’è simbolo più rappresentativo di un evento, la torta, essa è un inno alla gioia, rappresenta la festa delle feste, la luce in fondo al tunnel, l’arrivo dopo la fatica, il coronamento di uno sforzo.
La torta è la bontà contro gli scempi, è la reazione alle delusioni, alle severità, è un ritorno a se stessi, alle cose proprie, al gusto della vita, è la sintonia con se stessi, è il volersi bene, il sano egoismo.
Essa è l’eros per eccellenza, è la voglia di vita contro le fatiche del quotidiano, è il bisogno di festa, è la luce della linfa che scorre, è cercarsi un trucco, un rossetto al color di sangue porpora, è una matita un vestito celestiale, è la voglia di esistere sull’ arroganza, sul dolore che talune relazioni dispensano, contro il baratto e l’ esattoria della vita.
La torta è priscio, entusiasmo, uascezza, cazzeggio, lasciarsi andare in un ballo scomposto, ma coordinato di se, la torta è il botto della festa, è l’ artificio dell’ evento.
In natura noi siamo positivi, Vitali, siamo torta, diabetici di dolcezza per la vita.
La torta è la morbidezza di una coccola, soffice come la panna, profumata di vaniglia come una stagione, con un abito di seta celeste profumato di caramelle che ondeggia al vento.
Chi fa torte non si deprime, reagisce, non soccombe è creativo, non ossessivo, è festoso, non rimugina è propositivo.
La festa è profumo inebriante,sapore,coreografia, delicatezza e bellezza come il sorriso dopo una lunga fatica, la torta è senso di positività, istinto del buono, alle antipodi del controllo, dell’ aggressività dello sforzo e di qualsiasi bruttura.
Dovremmo avere una torta in qualsiasi angolo della nostra testa, per tirar fuori quell’ allegria, quella giovialità e costruttività insita in noi, che i fatti della vita tendono a spegnere, facciamo festa sempre, una torta spesso, per esorcizzare la negatività.
giorgio burdi
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