Migliorarsi o riscoprirsi
Spesso quando si inizia un percorso di psicoterapia ciò che ci guida è la possibilità di migliorare alcune parti di noi stessi che non ci piacciono o che ci fanno soffrire. Quelle parti che identifichiamo come cause della nostra sofferenza, che ci portano, ad esempio a restare a casa, ad isolarci, a non fidarci; quelle parti che ci portano a passare le giornate a letto, quelle parti che ci portano ad aver paura anche del gatto che attraversa la strada o del sole che splende troppo.
Si inizia un percorso di psicoterapia con la speranza di poter migliorare, magari anche di eliminare quelle parti che ci sembrano così anguste e cattive. Quelle parti che non ci permettono di essere come vorremmo.
Durante il percorso, capita, poi, di rendersi conto che quelle parti hanno messo le radici che affondano nella nostra persona. Si sono radicalizzate e lasciarle andare non è così semplice.
È difficile, richiede sforzo, a volte pare estenuante.
Eppure nel corso della terapia ci rendiamo conto di come queste parti, che tanto abbiamo odiato e che tanto ora son difficili da “rimuovere” ce la siamo spesso appiccicate. Ci siamo cuciti addosso un abito che è quello che ci ha permesso di andare avanti fino a questo momento.
Ci siamo isolati perché qualcuno ci ha fatto credere di essere invisibili, ci rintaniamo nel letto perché abbiamo paura di muovere un passo credendo di aver il potere di causare disgrazie.
Abbiamo fatto esperienza di come la nostra persona, per un motivo o per un altro non fosse accettata, accolta.
Implicitamente, nel corso delle nostre esperienze, ci è stato fatto capire cosa andasse bene e cosa no, cosa dovessimo modificare e come.
E da lì abbiamo cercato di rispettare al meglio le richieste del nostro ambiente, cercando di esser sempre “meglio”.
In terapia ci rendiamo conti di come questo abito che ci siamo cuciti addosso in realtà nasconde, cela e sotterra quello che c’è al di sotto. E spesso non sappiamo nemmeno quello che c’è al disotto.
In terapia ci rendiamo conto di come non è migliorare quello che ci serve ma riscoprirci.
Ci rendiamo conto di come ciò che siamo, sentiamo vogliamo è differente da ciò che mostriamo e da ciò che abbiamo costruito.
Riscopriamo di saper essere ironici, riscopriamo una passione, riscopriamo capacità e anche limiti.
Immagino il miglioramento come una strada dritta, con spessi guardrail che impediscono di guardare ai lati. Per essere migliore, anzi il migliore, i passi sono segnati. Ci sono indicazioni precise e le distrazioni non sono contemplate.
Immagino la riscoperta come un incrocio confusionario, con mille vie da poter prendere e l’imbarazzo della scelta. Immagino la riscoperta come qualcosa di creativo, di esplosivo e allo stesso tempo quieto.
Riscoprirsi richiede prove, tentativi ed errori. Imbocchiamo la prima strada che magari non ci piace, ma c’è un altro incrocio in cui possiamo cambiare la nostra direzione.
Il percorso lo creiamo noi, come vogliamo, con i colori che vogliamo e mille ponti che ci permettono di passare da un punto ad un altro.
La terapia ci aiuta a scoprire che in realtà poco ci importa di essere migliori, di essere il migliore.
Tanto ci importa capire chi siamo. Riscoprire le mille possibilità che abbiamo per realizzarci ed esprimerci.
Ci interessa scoprire di non avere una vita destinata, ma una vita da costruire.
Ci interessa scoprire che oltre al “dovere”, per noi c’è il “piacere” e che nelle mille direzioni c’è quella che ci consente anche di accomunarli.
Possiamo riscoprire chi siamo, liberandoci di chi ci imponiamo di essere.
Fabiana Manghisi
Tirocinante presso lo Studio Burdi
Laurea Magistrale in Psicologia Clinico-Dinamica
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GIUDICARE & SCEGLIERE
La paura per la loro distruttività.
Folle di persone, simili, mondi nei mondi, scie multi direzionali di colori, costellazioni di pensieri, intersezioni di cammini, voci confuse, intrecci di sentimenti, di profumi, di storie incastrate, sofferenze sovrapposte, armonie d’ amori, follie di emozioni, tante uguaglianze in quante difformità.
Ci vorrebbe davvero poco per non difendersi dagli altri, sentendoli un po’ noi, percependoli vicini, altri se stessi vicini, vicendevoli noi, invece impariamo a difenderci da tutti, a delimitarci il territorio, perimetrandoci in trincee ci delimitiamo e ci difendiamo e ci attacchiamo da noi stessi.
Cosi descritto sembrerebbe non esistere e non esserci il paradigma buono cattivo, bene e male, ma il male che temiamo dagli altri, è impensabilmente imperante in ognuno di noi, ogni sofferenza covata, inferta o subita, fa temere l’ impensabile, ha le sue ripercussioni che hanno radici in ognuno.
Ogni scelta che operiamo, definisce un confine tra noi e gli altri. È la scelta che crea la frattura che ci rende liberi, tanto vicini, così come atrocemente distanti e dissimili. Almeno chi sceglie interroga il suo numero uno, interpella se e la sua primitiva sensibilità.
La gioia ci unisce, ci aggrega, il piacere ci attrae, il godere ci seduce, la sofferenza temuta invece, inflitta o subita, disgrega, ci lancia in un effetto remball, essa è un jamping verso il vuoto, ci permette di sfuggirci.
La positività slancia il nostro umore in uno slancio fuori cielo, è un distacco oltre le piane dimensioni, il suo potere attrattivo è calamitoso, contaminante ed associativo.
Oltre alla capacità di scelta, che destabilizza le relazioni umani ma possiede tutta una sua dignità, il giudicare invece rappresenta il disgregante per eccellente, rappresenta la presa della distanza e del distacco e la repulsione da ciò che ci è simile.
Ogni persona giudicata diviene severa con se stessa e intransigente con gli altri.
Un giudice per sua natura è colui che è già stato giudicato, ed un giudicato giudicherà negli altri il giudizio subito . Diveniamo degli autentici replicanti generazionali di giudizi automatici fuori luogo, impariamo a prendere le distanze attraverso un atteggiamento altamente involontario.
Il giudizio ci fa resistere agli altri e ci direziona gli altri contro. Si è sulle difensive perché col giudizio ci si sente sotto inchiesta, e agire e pensare si rende complicato, lascia presagire l’ impotenza, l’autostima piega il capo, appare il difetto che non c’era, il giudizio fa errare è ci fa sentire errati, goffi e sbagliati, inadeguati, insoluti, in ginocchio e ripiegati su noi stessi, arrabbiati, frustrati, impulsivi, in debito e in difetto verso la vita.
Il giudizio reprime, è oscurantismo e decadentismo, fa paura, ci spaventa, inorridisce e ci imbruttisce, fa cartoccio e arrosto di noi stessi, ci raggomitola allo stato uterino, è il fomentatore delle ansie e delle incertezze, è l’inibitore e il frenatore di qualsivoglia iniziativa, è il precursore dell’ arretratezza, dell’ esitante e del perfezionismo.
Se c’è un’ origine per la cattiveria, essa risiede nella tendenza persecutoria a giudicare.
Il giudizio è la causa del male sociale se esso diviene pressante e onnipresente, se rappresenta un modello automatico educativo, esso imposta lo stile impedito della relazione.
Il giudicare ha un effetto distruttivo sulle scienze, sulla propria coscienza, sulle prospettive, sul proprio talento e sulla propria salute, genera il distacco e l’indifferenza verso la sofferenza e la morte di chi ne è l’ artefice. Il giudicare interpella il numero due, pende dalle sue labbra, fa appello sempre agli altri.
Se il giudicare è l’origine del male e della malattia, il rispetto per la sensibilità, per le scelte, i sentimenti e le intelligenze altrui, rappresentano e permettono di ritrovare l’attrazione e la piacevolezza verso l’umanità e verso le relazioni.
giorgio burdi
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