La Capacità di Essere Solo
LA CAPACITÀ DI ESSERE SOLO
È spesso opinione comune associare l’essere soli alla solitudine, a una condizione passiva di abbandono e profonda tristezza. L’essere soli assume così connotazioni esclusivamente negative.
La capacità di essere soli, invece, è una condizione positiva, una risorsa. È la capacità di guardarsi dentro, di raccogliersi, il saper stare con sé stessi. Guardarsi dentro aiuta a capire meglio chi siamo, a riconoscere e superare le nostre debolezze e insicurezze, le nostre paure.
L’essere soli è vitale, ci permette di guardare nelprofondo della nostra anima, di ascoltare le nostre emozioni più intime e accoglierle. Ci fa comprendere i nostri bisogni individuali e ci palesa le nostre pulsioni più nascoste.
Saper stare soli ci aiuta a sentirci gratificati da ciò che siamo, a tollerare i nostri difetti e le nostre imperfezioni, a superare i fallimenti. Ci aiuta a sciogliere nodi troppo stretti, a modellare schemi mentali rigidi. Ci permette di essere profondi con noi stessi prima di esserlo con gli altri.
La capacità di stare soli è elemento fondamentale per la costruzione di relazioni sociali: è importante prima imparare a stare bene con noi stessi per poi poter stare bene con gli altri.
D.W. Winnicott associa la capacità di essere soli al silenzio, quel «silenzio interno» che permette di ascoltare e instaurare un contatto profondo con sé stessi, di essere soli con sé stessi.
L’autore, pediatra e psicoanalista britannico, di nota esperienza clinica con bambini e adolescenti, ritiene che la capacità di un individuo di essere solo sia uno dei segni più importanti di maturità nello sviluppo affettivo.
La letteratura psicoanalitica insegna che la capacità di stare soli si sviluppa nel primo periodo di vita.
Secondo Winnicott la capacità di essere solo ha origine dall’esperienza del bambino di essere solo in presenza della madre, ha origine, dunque, dal paradosso di essere solo in presenza di un’altra persona. Definisce questa condizione «relazionalità dell’Io», un rapporto tra due persone, in cui uno o entrambi sono soli, ma la presenza di ciascuno è importante per l’altro.
Winnicott attribuisce alla relazione madre-bambino la responsabilità di sviluppare la capacità di essere solo. La madre ha pertanto un ruolo determinante, rappresenta per il bambino un ambiente sicuro, protetto, che gli permetterà di sviluppare prima «l’Io sono», le basi per la strutturazione dell’identità e dell’individualità, poi di raggiungere «l’Io sono solo», la consapevolezza del bambino della continuità della presenza della madre, del suo prendersi cura, la sicurezza di un ambiente buono e sicuro.
È fondamentale che la madre aiuti il bambino nelle fasi di scoperta della propria autonomia esistenziale supportandolo nella gestione delle proprie ansie e angosce, rendendolo nel tempo capace di rinunciare alla presenza della figura materna. È altresì importante che il bambino sia libero di esprimere le proprie pulsioni e le proprie necessità fisiche e affettive, affinché impari a riconoscerle e regolarle in autonomia.
La consapevolezza del bambino di un «ambiente interno» che lo protegge anche quando è solo, di una madre presente e supportiva, lo renderà capace di essere solo di fatto.
Diversamente, una madre che anticipa i bisogni del bambino non gli consentirà di sviluppare un Sé solido e consapevole. Allo stesso modo una madre che non risponde ai suoi bisogni, genererà in lui la paura dell’abbandono. Entrambi i casi non gli permetteranno di sviluppare la capacità di stare solo bensì alimenterannola sua paura di stare solo.
La madre, quindi, non dovrà mostrarsi né eccessivamente invadente né evitante poiché entrambe le situazioni causeranno condizioni emotive disfunzionali.Sarà necessario stabilire con il bambino una giusta relazione di prossimità che lo faccia sentire al contempo sicuro e libero, e garantire la sicurezza del ritorno dopo un allontanamento o una separazione. Questa sensazione positiva permetterà al bambino di sentirsi al sicuro anche da solo.
Possiamo affermare, pertanto, che la capacità di essere soli è indice di maturità emotiva.
La capacità di essere soli è vivere la solitudine in modo attivo, pienamente consapevoli della nostra individualità e unicità.
Stare con sé stessi è sinonimo di libertà. Libertà di vivere appieno le proprie emozioni che si amplificano, libertà di scavare nella nostra interiorità.
Stare bene con sé stessi permette di cercare relazioni e rapporti autentici; si desidera la compagnia altrui, ma non si è dipendenti.
La capacità di stare soli coincide con la capacità di amare senza possesso, di condividere, di essere empatici. Chi sa essere solo non ha bisogno dell’altro, bensì gode della sua presenza.
La difficoltà di stare soli e di ritrovare sé stessi, invece, minaccia qualsiasi legame, qualunque relazione. Non aver imparato a stare soli grazie alle figure primarie di riferimento e non aver coltivato un corretto equilibrio tra vicinanza e lontananza, potrebbe compromettere l’interpretazione della solitudine vivendola come rischio, come minaccia.
Una percezione interiore e relazionale disfunzionata potrebbe contribuire allo sviluppo di patologie quali il disturbo evitante di personalità, il disturbo della personalità dipendente o altri disturbi legati allo spettro ansioso.
La mancata acquisizione della competenza di stare solo rende l’individuo dipendente, non in grado di relazionarsi al Sé, ma solo all’altro annullandosi completamente. Se non si ha consapevolezza della propria individualità a prescindere dall’altro, a prescindere dal partner, si instaureranno relazioni non sane, disfunzionali.
La capacità di contatto e dialogo profondo con sé stessi è indispensabile per risolvere conflitti interiori, per la costruzione dell’identità, la stabilità del Sé e del Sé relazionale.
La capacità di stare soli si acquisisce dalla relazione stessa, dalla relazione di fiducia che si instaura con l’altro. La capacità di stare soli, dunque, si acquisisce in presenza di qualcun altro proprio come la solitudine implica la presenza di un’altra persona.
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Riferimenti bibliografici
D.W. WINNICOTT, Sviluppo affettivo e ambiente, Roma, Editore Armando, 1974
Sintesi a cura di:
Dott.ssa Elisabetta LazazzeraTirocinante di Psicologia presso lo Studio BURDI
Nell’impossibilità, l’opportunità
Cosa è l’impossibilità? Come reagiamo quando sappiamo di non poter fare qualcosa, di non poter ottenere ciò che vorremmo, di non poter pianificare e indirizzare la nostra vita nella direzione prevista o progettata?
Abbiamo degli impedimenti, che possono sopraggiungere in un qualsiasi momento, ci sono delle resistenze che ci sbarrano la strada, come muri che si frappongono fra noi e ciò che vorremmo, impedendoci il transito.
Ci sono impedimenti di carattere mobile che, lavorandoci su, ci consentono allo stesso modo di continuare il nostro cammino, ci viene richiesto uno sforzo per abbatterli.
Ce ne sono altri che, al contrario, non dipendono da noi: le famose “cause di forza maggiore”.
La causa di forza maggiore che viviamo oggi, tutti, in un modo o nell’altro è il Covid-19.
È una “causa di forza maggiore” che ci sta impedendo di vivere come vorremmo. Ci viene richiesto di non avere contatti con le altre persone e questo ci costa quando gli altri sono le persone per noi fondamentali.
Ci viene chiesto di lavorare a casa e ancora una volta percepiamo il peso dell’isolamento.
Ci viene chiesto di essere responsabili, non solo per la nostra salute, anche per quella di chi ci sta vicino.
Percepiamo il carico di responsabilità che grava, sappiamo quello che dobbiamo fare.
Ma è pesante, è asfissiante, è logorante.
Ma mi chiedo, perché questo isolamento è così pedante?
Certamente c’è la mancanza delle persone per noi importanti, c’è la mancanza delle risate con i nostri amici e dell’abbraccio dalla mamma, nonna, amica, zia.
Ma siamo realmente, completamente soli? Con noi stessi, ci siamo noi.
Perché la compagnia che ci possiamo fare, prendendoci cura realmente di noi stessi è un peso?
Sembra che cerchiamo di rifuggire in ogni modo la possibilità di trovarci faccia a faccia con noi stessi.
Quando siamo con gli altri le attenzioni sono tutte su di loro, su ciò che ci dicono, su quello che hanno da raccontarci, sui loro problemi.
Siamo impegnati a presentarci in un certo modo per mantenere i nostri legami e perdiamo di vista il contatto con noi stessi.
Siamo completamente rapiti dalla presenza degli altri, siamo così impegnati a condurre la nostra vita cercando di non perdere nemmeno un minuto, nemmeno un secondo perché altrimenti siamo “indietro” rispetto a chi ci circonda e ci dimentichiamo chi siamo, dove stiamo andando e cosa vogliamo.
Perché ci pesa rallentare? Perché ci pesa prenderci cura di noi, dei nostri spazi, dei nostri pensieri, dei nostri desideri?
Forse perché in realtà non l’abbiamo mai fatto, forse perché non sappiamo come si faccia.
Viviamo nella frenesia del dover raggiungere, del dover vincere e superare chiunque ci sia affianco. Viviamo nella frenesia del dovercela fare, perché altrimenti non siamo nessuno.
E quando ce la facciamo, non sappiamo godere di quanto abbiamo raggiunto e ottenuto, perché siamo lì a pensare al passo successivo, alla prossima direzione da dover intraprendere e al prossimo obiettivo da dover raggiungere.
In questa frenesia la nostra persona e la nostra autenticità si perde, se non siamo abituati a stare con noi stessi, se non ci siamo presi del tempo per poter conoscerci, per capire chi siamo e dove vogliamo andare.
E allora perché non andare oltre la pesantezza e il grigiore di questo periodo, cercando di leggere l’impossibilità come opportunità, per ricercare il nostro vero colore?
Non stiamo parlando di far finta che intorno non ci stia succedendo niente, non è la negazione ciò a cui dobbiamo aspirare. Ma l’accettazione.
La situazione in cui viviamo oggi è questa, possiamo rimanere fermi nella campana di vetro che ci siamo creati crogiolandoci nella sofferenza e nella rabbia che stiamo provando, oppure possiamo ri-scoprirci o scoprirci e conoscerci per la prima volta.
Abbiamo del tempo che possiamo impiegare per scoprire cose di noi che ancora non sappiamo, possiamo scoprire una nuova passione o una vecchia abbandonata.
Possiamo immaginare, fantasticare, viaggiare con la mente.
Possiamo non fare nulla, possiamo assaporare la dolcezza e leggerezza del “dolce far nulla”.
Perché dobbiamo essere per forza impegnati? Perché tutto deve essere programmato?
Possiamo rendere più leggero quanto stiamo vivendo cambiando le lenti degli occhiali con cui guardiamo le cose: possiamo voler vedere anche quanto ci sta donando questo momento.
Per farlo, però, dobbiamo volerlo.
Il cambiamento lo vogliamo? Vogliamo sentirci leggeri? Vogliamo saper vedere il bello in ciò che ci circonda anche se sembra che sia tutto nero o grigio? Vogliamo il colore?
Se lo vogliamo allora sì, possiamo averlo.
Possiamo provare a cantare, a suonare, a dipingere, a leggere un libro, a stare sul divano, fermi, o a saltare per ballare o fare sport.
Possiamo fare quello che vogliamo, riscoprendo ciò che vogliamo.
Possiamo alzarci la domenica mattina e chiederci “cosa voglio fare oggi?” Voglio cucinare? Voglio dormire? Voglio scrivere?
Cosa vogliamo per noi stessi? E cosa ci serve per ottenerlo? Volontà.
Possiamo, se lo vogliamo, liberarci dalle briglie che la vita di tutti i giorni ci mette, possiamo liberarci della foschia in cui ci muoviamo ogni giorno, per tornare a vedere quanta luce c’è dentro di noi.
Non fuori.
La luce è dentro, e se le diamo la possibilità di espandersi allora lì si che sentiremo calore.
Se la soffochiamo, con doveri, impegni, se ci dimentichiamo che è lì, che va coccolata, accolta, rinforzata, sentiamo freddo.
Allora in questo momento possiamo concentrarci su noi stessi, un sano narcisismo, che ci porti a prendere cura di noi e dei nostri desideri, delle nostre passioni.
Possiamo ricentrarci rispetto alla nostra persona.
Fabiana Manghisi
Tirocinante presso lo Studio Burdi
Laurea Magistrale in Psicologia Clinico-Dinamica
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